25.1.17

Thomas Mann allo specchio dell'augusto Goethe (Rossana Rossanda)

Johann Joseph Schmeller, Goethe all'età di 81 anni con il suo segretario 
Thomas Mann non sta nella mia formazione. Dopo una infatuazione giovanile per La montagna incantata - ereditavo dalla guerra un filo di tbc e lo rivestivo delle piume di Naphta e Settembrini - Mann non ha più avuto un gran posto nel mio cuore. Ma una sua opera, non delle più note, mi si è annidata nella memoria, è Lotte in Weimar (in italiano non Lotte ma Carlotta a Weimar perché non la si scambi con gli scioperi di quella repubblica).Chi è Lotte? È l'amore del giovane Werther, protagonista dell'opera di Goethe del 1774 e decisiva nello Sturm und Drang. Era successo due anni prima a Goethe di infiammarsi per una Charlotte Buff, fidanzata con un suo amico, Kestner, e di esserne rifiutato per lealtà al promesso sposo. Goethe naturalmente era sopravvissuto, mentre il suo Werther si spara per disperazione.
Per il poeta non è stato né il primo né sarà l'ultimo innamoramento; già vedovo, a settantaquattro anni, chiede (inutilmente) la mano di una diciottenne. Ma in quello che sarebbe stato un idillio composto e ragionato, oltre che trasparente nei luoghi e personaggi, tutta la Germania s'era riconosciuta, gettando sul suo autore una gloria che non lo avrebbe più lasciato. Poesia e realtà non sono la stessa cosa.
Nel 1937 Thomas Mann, che ha lasciato per sempre la Germania e non è ancora partito per gli Stati Uniti, riflette senza indulgenza sul suo paese e sul poeta nazionale. Sa che Lotte era andata a Weimar, dove Goethe viveva fra splendori e onori, quarantaquattro anni dopo quell'amore giovanile; lei era ormai sessantenne e vedova, madre di nove figli, e faceva quel viaggio apparentemente per incontrare una sorella. Mann pensa che sia andata diversamente, e il suo racconto comincia mentre una elegante signora, anziana ma ancora snella e attraente - un tremito del capo tradisce l'età - scende con la figlia, severa e disapprovante, all'albergo dell'Elefante.
Lotte è così saggia da sorprendersi (o non tanto?) quando il maggiordomo dell'hotel, appena ne scorge la firma sul registro, riconosce in lei la fanciulla immortalata dal poeta, locale oltre che nazionale. Alla notizia, propagata fra maggiordomi e cameriste, una piccola folla si accalca davanti all'albergo. Lotte ha mandato un biglietto all'Eccellenza amico d'un tempo, diventato fin primo ministro del duca di Saxe-Weimar, ma si prepara a raggiungere la sorella, quando il maggiordomo la ferma perché riceva alcuni ospiti importanti: una giovane americana che freme di immortalarla nel suo album di disegni, l'ex segretario di Goethe, Riemer, la sorella di Arthur Schopenhauer e infine il figlio che Goethe ha avuto da una Cristiane Vulpius qualsiasi, la sola che ha sposato - messaggero dell'invito a colazione da parte del padre.
I colloqui con queste persone, più un monologo di Goethe con se stesso, costituiscono i pilastri del racconto, che staglia in crescendo, fra incensi e veleni, il profilo del poeta. Il quale risplende a Weimar della luce di un Nume, venerato e temuto. La più acerba nel descriverlo è la sciocca Adele Schopenhauer, ma agli occhi della stupefatta Lotte nessuno manca di dissodare il terreno del dubbio. L'ex segretario Riemer, in un profluvio di devozione, avanza il dubbio che la qualità più sublime del poeta, l'olimpico spirito di tolleranza, non si debba che a un'olimpica indifferenza alle sorti altrui. Ascoltando, Lotte è presa da un certo turbamento: non sarà presa anche lei da ambigui sentimenti per quel suo adoratore di gioventù che l'ha trascinata nella sua luce?
Adele Schopenhauer ha una preghiera da farle: non vorrà l'onorevole signora, quando si parleranno, indurre il grande uomo a dissuadere il figlio dallo sposare la sua carissima amica Ottilia von Pogwisch? Ottilia è una delle Muse weimariane, ardenti patriote antifrancesi e antinapoleoniche, e potrebbe convolare a nozze soltanto con un patriota tedesco molto più credibile di quanto sia stato Goethe figlio. La signorina Schopenhauer sembra ignorare che Goethe padre, assai sensibile alle fanciulle in fiore, è stato un grande ammiratore di Napoleone (e viceversa).
Nello sproloquio di Adele, l'ironia di Mann diventa sarcasmo. Non solo perché nulla apprezza di meno del patriottismo tedesco, che ritiene capace di ogni enormità, ma perché Goethe non vi ha opposto che la straordinaria capacità di tenersi fuori dai bassi impicci della storia senza mai, per così dire, pagare dazio. Ha osservato la guerra tra tedeschi e francesi dalle alture d'una delle sue predilette stazioni d'acqua, Karlsbad o Wiesbaden. I sorprendenti colloqui di Lotte si chiudono con il goffo Augusto, che dell'indifferenza del padre è il testimone più innocente, tanto che lei si commuove, non senza farsi sfiorare dal pensiero che se quella volta Goethe avesse sposato lei, potrebbe esserne la madre. Il successivo monologo di Goethe fra sé e sé, all'inizio di una giornata come le altre, è una preziosa tessitura di citazioni, che introduce l'evento della colazione di qualche giorno seguente.
Lotte vi si reca - la figlia sempre più disapprovante - nell'abito bianco e nastri rosa che portava quando Goethe l'aveva incontrata. Non è abbigliata più bizzarramente delle altre signore. Né è più incantata di loro dalla splendida casa al Frauenplan, dagli splendidi oggetti raccolti dal più colto degli uomini, dal suo splendido apparire per ultimo, un po' invecchiato ma guadagnando di essere dimagrito, nella casacca di seta nera e la decorazione della stella d'argento. È lui che dà il benvenuto con inimitabile cortesia e come lievemente sorpreso, stringendo fra le sue le mani di Lotte e della figlia. Sarebbe in pena se non lo avessero degnato di una visita! A tavola conduce Lotte al posto d'onore, sempre con quel parlare squisito nel quale nessun cenno di ricordo traspare.
La conversazione è generale, elevata, rispettosa, ciascuno al suo posto. Lotte vede e valuta e via via ammutolisce; anche quando lui mostrerà da un album alcune silhouettes ritagliate a mo' di ritratto, che lei gli aveva fatto avere. Poi è il congedo di tutti fra tutto. Non si saranno parlati a quattro occhi neanche un istante.
Lotte resta a Weimar qualche settimana, Goethe fa sapere al mondo di essere indisposto. Ma le manda la sua famosa carrozza foderata di seta blu pregandola di servirsene per andare una sera al teatro che egli, fra altre incombenze, dirige. Lotte nobilmente ci va, nobilmente appare sola nel suo palco, nobilmente si annoia alla Rosemuende di Koerner e infine risale in carrozza per rientrare. Nella penombra non si è accorta che Goethe vi era dentro.
Con la consueta eleganza si scusa di non aver potuto incontrarla più spesso. Lei, che la delusione ha reso padrona di sé, lo ringrazia smettendo di dargli dell'eccellenza. Tu, Goethe, hai capito come me che non potevamo lasciarci senza una parola dopo una così lunga separazione. Separazione, ritorni, che sono? replica lui; brevi momenti fra due esseri che si rivedono non poco segnati dall'età. Ha notato tutto, il tremito del capo, l'abito dai nastri rosa, e il loro significato non gli è dispiaciuto, anche se non è bene concedere al sentimentalismo della gente. Ah sì? Non è bello da parte tua, Goethe, ricordare i segni del mio sfiorire. E non credo che ti abbiano commosso perché non sei capace di un'emozione, osservi tutto e ti servi di tutto.
Il Nume incassa, chiede persino perdono e non lo ottiene, segno - dice - di disprezzo per chi lo richiede. Segue uno scontro, in forme cortesi e gelide, più che un dialogo. Lotte colpisce diritto, gli dice senza alcuna amenità che lui ha scelto di essere eccelso piuttosto che vivere, anzi sentire il Possibile che a ogni istante la vita offre, dono transitorio ma un dono. Lui non demorde, sì, ha scelto di dare al transitorio un'altra esistenza, a un'ombra, anche a una cara ombra, il sigillo dell'immortalità. Lei è donna e sa della vita, lui è un uomo e sa dell'eternità. Così si è chiuso il viaggio di Lotte a Weimar.
Mann vi ha regolato i conti con il suo paese e il tedesco più illustre. Ma forse anche con se stesso, per quello che di comune ha con Goethe - l'indifferenza per i sentimenti altrui. Dieci anni dopo Lotte in Weimar, consegnerà all'umanità un Arnold Schoenberg in veste di Doktor Faustus, uomo di suoni infettato di sifilide da una etera, che ha fatto un patto con il diavolo per scoprire il segreto di una scrittura musicale mai concepita prima. Schoenberg non gradisce, tanto più che Mann si è fatto spiegare tutto della dodecafonia non da lui stesso, che conosce da un pezzo, e vive in Pacific Palisades sulla sua stessa strada, ma da Theodor Wiesengrund Adorno, anche lui vicino di casa.
Più tardi renderà riconoscibile Gustav Mahler nel professor Aschebach, che si spegne a Venezia nell'amore umiliante per un ragazzo. Stavolta il mondo ha dubitato, ed è andato a frugare nelle pieghe dell'esistenza di Mann. Al quale nulla importa dell'infedeltà dei ritratti. Come Goethe, pensa che tutto è materia per le metamorfosi che vi porta l'artista. Quasi che tutti e due non potessero scrivere se non fuggevolmente toccati dal vivente, testimoni del suo passaggio alla fissità dell'immortale.
È la sola autocritica che Mann si è mai fatto, ammesso che dei due duellanti della carrozza abbia ragione Lotte. Ma non è detto. In ogni caso lei si è spenta prima di Goethe, come quasi tutte le creature da lui rese immortali. Lui, il Nume, cesserà di vivere dopo sedici anni, trascorsi in gran parte nel conversare meravigliosamente con Eckermann.

“il manifesto”, 2 agosto 2012

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