18.1.17

Un colloquio con Ernesto De Martino (Cesare Cases, 1965)

Ernesto De Martino
In un articolo sui “Quaderni piacentini”, che – al tempo – conobbe giustamente notorietà e apprezzamento, Cesare Cases, uno tra gli intellettuali più acuti e pensosi della “sinistra critica”, germanista di prim'ordine, raccontò l'ultimo suo colloquio con Ernesto De Martino, l'antropologo di Sud e Magia e di tante altre opere, l'iniziatore di un poderoso movimento di ricerca e di studio sulla cultura delle classi subalterne in Italia. Il dialogo tra i due induce a una grande nostalgia per un tempo in cui l'impegno scientifico e civile non era disgiunto dalla riflessione radicale sui grandi temi dell'esistenza. Il testo, in cui è evidente il riferimento al “marxismo-leopardismo” di Sebastiano Timpanaro, suscitò l'interesse di Franco Fortini, che pubblicò – nello stesso numero della rivista – una nota a margine del colloquio De Martino-Cases, dal titolo emblematico Gli ultimi tempi. Anche oggi, a più di cinquant'anni di distanza, quel dialogo andrebbe ristudiato e rimeditato, visto che ci parla della crisi del nostro tempo. (S.L.L.)
Franco Fortini e Cesare Cases
La prematura scomparsa di Ernesto De Martino, morto di cancro il 6 maggio scorso in un ospedale romano, ha lasciato un vuoto irreparabile in quanti lo hanno conosciuto. È raro che gli interessi scientifici si fondano così pienamente con la personalità dell’uomo come avveniva in lui, sicché chiunque l'abbia conosciuto e apprezzato per la sua profonda umanità è stato irresistibilmente attratto nel suo mondo concettuale, anche se proveniva da altri indirizzi culturali e non era direttamente interessato ai suoi problemi. E quando si saranno dissipati molti fumi creati dalle mode e si distingueranno meglio i contorni del paesaggio culturale degli ultimi decenni, è probabile che si debba riconoscere nella sua opera non soltanto il più importante frutto dell’insegnamento diretto di Benedetto Croce (cui De Martino rimase legato da profonda riconoscenza anche dopo averne superato le posizioni ed essersi avvicinato ideologicamente e politicamente al marxismo), ma uno dei maggiori contributi che l’Italia abbia dato alla cultura di questo secolo. Per ora siamo certo lontani da questo riconoscimento, a giudicare dai necrologi banali e affrettati (salvo un buon articolo di Andrea Barbato nel «Giorno») in particolare da parte della sinistra: «Rinascita », mentre faceva intervistare il solito Lévi-Strauss, non dedicava nemmeno una riga alla scomparsa di De Martino, e 1’«Unità», in un articolo a firma Mario Spinella, gli attribuiva una immaginaria laurea in scienze naturali onde inserirlo in quello scientismo ecumenico che sembra essere l’unica ideologia attuale del PCI. e di cui De Martino, con la sua profonda sensibilità per il nesso tra teoria e prassi, era la vivente contestazione. Il che dovrebbe indurre gli accusatori dell'establishment della cultura di sinistra (di cui De Martino faceva indubbiamente parte) a malinconiche considerazioni sulla precarietà dell'establishment medesimo e sulla rappresentazione alquanto mitologica che essi se ne fanno.
Non ho né la preparazione né l’autorità per scrivere il necrologio finora mancante. Vorrei invece ricordare De Martino riferendo un colloquio avuto con lui nel marzo scorso, quando mia moglie ed io andammo a trovarlo nella clinica romana in cui era allora ricoverato. Questo colloquio non fu in fondo che la ripresa e la continuazione di un discorso che avevamo più volte affrontato nelle nostre conversazioni, ma il fatto che ora i visitatori sapessero — e forse egli intuisse — che la morte era per lui prossima, gli conferì una pregnanza sia intellettuale che emotiva tale da spingermi più tardi a fissarlo in qualche appunto. Mi rincresce soltanto di non poter riprodurre la parola, insieme così colorita e così concettualmente precisa, di De Martino, e di dover tradurre il suo linguaggio nel mio, sbiadito e approssimativo.
Nonostante la malattia, De Martino era — come del resto, si può ben dire, fino alla morte, quando non era preso da veri e propri attacchi del male — perfettamente lucido e «in forma», in possesso di tutta la gamma delle sue qualità intellettuali, retoriche, espressive e mimiche. Dopo aver parlato del più e del meno ed essere stati interrotti da un prete che veniva ad offrire ai malati il suo conforto spirituale e che fu cortesemente, ma fermamente respinto (non senza vigorosi commenti demartiniani, dopo l’episodio, su questa abitudine della clinica di spedire un prete dai malati senza informarsi in precedenza se essi gradissero o meno la sua visita), Vittoria, l’impareggiabile compagna di De Martino, si assentò per sbrigare qualche faccenda e noi tre restammo soli. Si toccò dapprima un tema quasi obbligato di conversazione: Lévi-Strauss. De Martino aveva alta stima dello studioso, ma non condivideva la metodologia e le prospettive dello strutturalismo e soprattutto deprecava che esso fosse diventato una moda da cui non ci si poteva più salvare. Mia moglie ed io avevamo appena letto l’introduzione di Lévi-Strauss agli scritti di Marcel Mauss, che ci era parsa estremamente significativa per gli aspetti irrazionalistici del pensiero dell’autore, ed esprimemmo la nostra meraviglia nel vedere che questi aspetti così evidenti erano generalmente trascurati. De Martino ci diede ragione, ma questa volta non insistette sull’argomento e troncò con un brutale: «Bisogna distruggerlo», una di quelle frasi che talvolta uscivano dai suoi precordi di napoletano che si rifiutava di ascoltar ragione. Passò invece ad altro argomento: « Oltre a Lévi-Strauss, un’altra questione che mi interessa in questo momento è il cosiddetto dialogo tra marxisti e cattolici». Gli dissi che avevo visto sul suo comodino una delle numerose pubblicazioni in proposito. «Già, mi son letto questo libro e anche altri, ma mi sembra che per lo più si tratti di discorsi campati per aria. Manca finora l’intervento dello storico delle religioni, che qui può dire una parola decisiva. Poiché tutti costoro mettono a confronto marxismo e cristianesimo come se fossero lì da sempre. Invece si tratta di vedere che cos’era una volta la religione e che cosa può ancora essere, che funzione può svolgere adesso. Senza questa ricerca preliminare non si può impostare adeguatamente il problema. Direi che, in questi che se ne sono occupati, manca lo spirito galileiano, cioè essi partono dalle dottrine e dalla loro maggiore o minore conciliabilità anziché chiedersi che cosa significhi in concreto l’esperienza religiosa per chi la vive all’interno della nostra civiltà occidentale. Questa civiltà si fonda su una scelta di cui possiamo ritrovare chiara consapevolezza pressapoco all’epoca di Cartesio. Quando Cartesio respinge il mondo del sogno e fonda la certezza del proprio io sulla ragione, sulle idee chiare e distinte, è tutta una società che con lui sceglie questa via. Da questo momento la religione cessa di essere l’orizzonte necessario per reintegrare in ogni istante l’uomo nel mondo, per superare la crisi della sua presenza al mondo. Cessa quindi di avere una funzione operativa come elemento determinante della civiltà ».
«Si può dunque dire — chiesi — che in un certo senso, finché la religione aveva questa funzione operativa, gli dei esistevano?». «Sì, — rispose De Martino — almeno nel solo senso che la parola esistere può avere agli occhi della scienza. Poiché la religione era tutto, era essa a tenere insieme la società che altrimenti si sarebbe disgregata. Ora mi sembra che di questa funzione che la religione ha esercitato nella storia il marxismo non abbia chiara coscienza, e in fondo non ne avesse neanche Marx stesso. È vero che da qualche parte allude per esempio alle concezioni apocalittiche, ma aggiunge che del significato di queste concezioni può occuparsi chi ne abbia voglia, come si si trattasse di questioni puramente erudite. Certo la mancanza di questa consapevolezza non è imputabile a una deficienza di Marx: era lo stato della scienza del tempo che non gli permetteva di scorgere questa funzione della religione ».
A questo punto feci delle obiezioni: mi sembrava che già il pensiero tedesco da cui Marx proveniva si differenziasse dall’illuminismo francese proprio perché aveva coscienza della funzione storica della religione e non la considerava come pura menzogna e finzione, come remora e non come elemento fondatore di civiltà. Sia Hegel che Feuerbach, in modi diversi e opposti, condividono in sostanza questo atteggiamento. De Martino ammise che questo poteva valere in qualche misura per Hegel, data l’impostazione generale del suo pensiero, ma lo contestò per Feuerbach. Tornai alla carica risalendo all’indietro e citando Lessing e l’Educazione del genere umano.
De Martino replicò:«Già, Lessing, ma anche in Lessing si tratta pur sempre dell’idea pedagogica per cui la religione, o un certo tipo di religione, è la forma fantastica di una verità non ancora giunta a chiarezza. C’è sotto il paragone del bambino in cui è viva la forza dell’immaginazione e che si rappresenta in veste fantastica ciò che, spogliato di questa veste, sarà la sua verità di adulto. Quello che afferma la moderna scienza delle religioni è un’altra cosa: è l’idea che c’è un tipo di civiltà, in sé autonoma e autosufficiente, che è fondata sulla religione come elemento di reintegrazione culturale dell’individuo nella società (tipo di civiltà che continua oggi nelle società primitive), mentre la civiltà occidentale ha optato per un altro modo di reintegrazione culturale e cioè per il dominio razionale della natura. Non si tratta quindi di bambino e di adulto, ma, per così dire, di due diverse forme di essere adulto, una delle quali è la nostra. E certo questa scelta che abbiamo fallo è irrevocabile, e dobbiamo accettarla, ma ciò non significa che la religione non possa nuovamente riapparire all’orizzonte non più come assise della società, ma come possibilità di reintegrazione al limite, là dove la società dissacrata non riesce più a coprire la crisi della presenza. Poiché anche in una società fondata interamente sulla ragione, anche nella società socialista, la crisi, il dramma, continueranno a sussistere, e guai se non fosse così perché altrimenti questa società sarebbe spaventosamente noiosa. Ora anche questo in Marx non è esplicitamente previsto, nemmeno nel giovane Marx ».
Con questo De Martino stava approdando a un discorso già noto a chiunque lo conoscesse, e cioè a quello della necessità di un simbolismo laico. Glielo dissi, ed egli confermò: «Certo, è un mio leit-motiv, perché secondo me l’integrazione e la reintegrazione dell’uomo nella società non cessano di essere problematiche e continuano quindi a postulare una soluzione simbolica. Sai che io penso appunto che nascita, matrimonio, morte abbiano bisogno di essere adeguatamente solennizzati anche in una società socialista, e provo orrore all’idea che tutto si riduca a un atto burocratico di fronte a uno sportello. Ed è qui che l’insoddisfazione per la razionalizzazione dei rapporti riapre la via alla tentazione religiosa. Prendi la morte, la crisi ultima e definitiva della presenza dell’individuo. Come puoi eliminarne il carattere drammatico? Sì, certo, anche qui il limite si può spostare, forse verrà il giorno in cui, quando il tuo cuore si sarà stancato di battere, lo potrai spedire, che so io, da Einaudi, dove provvederanno a ricaricartelo perché tu ritrovi la tua efficienza. Ma il limite lo potrai spostare, non abolire. E, capisci, se uno ha il cancro e sa che deve morire, beh, allora ha un bel sapere che Dio non c’è, la tentazione è grande... E questo, caro mio, in Marx non ci sta scritto ».
De Martino aveva pronunciato queste ultime parole con quel lampeggiamento degli occhi e quella breve mimica (lo spostamento laterale delle mani con le dita aperte e distese) con cui sottolineava abitualmente un momento importante del suo discorso. L’esempio si era offerto naturalmente e nulla poteva far pensare che egli si riferisse a se stesso, anche se questa possibilità non è del tutto da escludere (naturalmente solo per quanto riguarda la consapevolezza della morte imminente, non per la tentazione religiosa). Egli era stato tenuto all’oscuro sulle sue vere condizioni, note ai familiari e agli amici, ma è probabile (altri indizi stanno a confermarlo) che almeno con una parte di se stesso egli oscuramente le intuisse. Sicché l’esempio dell’uomo che muore di cancro, gettato lì né più né meno come una qualsiasi di quelle esemplificazioni concrete di cui il discorso di De Martino era sempre assai ricco, suscitò una comprensibile commozione in me e in mia moglie.
Per superare il turbamento mi affrettai a ricondurre subito la conversazione a temi di carattere generale. Dissi a De Martino che questa sua correzione al marxismo mi ricordava le posizioni di un mio amico, illustre studioso del Leopardi, che vuole integrare Marx con il suo poeta prediletto, in quanto sostiene che il comunismo non può eliminare le limitazioni naturali dell'uomo, la malattia, la morte ecc., di fronte alle quali il pessimismo leopardiano resta un’istanza valida. Aggiunsi che ero sempre in polemica con questo mio amico non già perché negassi l'esistenza del male naturale, ma perché mi pareva in qualche modo secondario rispetto al male di origine storica, più che mai in questo momento in cui il progresso tecnologico ha posto in mano all’uomo i mezzi per la propria totale estinzione.
Toccavo così un punto che avevamo già discusso con De Martino e su cui sussistevano tra di noi elementi di dissenso. Negli ultimi anni egli si era intensamente occupato del tema della fine del mondo e dei rapporti tra apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, su cui stava preparando in collaborazione con Giovanni Jervis un libro rimasto purtroppo incompiuto (l’ultimo scritto pubblicato da De Martino — nel n. 69-71 di « Nuovi Argomenti » — e intitolato appunto Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, svolge alcuni temi centrali di questo libro). Mi aveva spesso parlato del suo lavoro specie in relazione alla documentazione letteraria che egli stava raccogliendo e per cui gli avevo fornito qualche indicazione. Si era letto, con lo zelo e la passione che metteva in ogni sua impresa, un mucchio di testi, da Proust a Sartre, da Hofmannstahl a Kafka, dagli espressionisti a Beckett, subito inquadrandoli perfettamente nella sua problematica. Ma in complesso questa letteratura non gli andava a genio. Le sue concezioni — che anche qui facevano tutt’uno con il suo temperamento — lo portavano a una valutazione negativa di tutto ciò che metteva in dubbio l’«appaesamento» (per usare un termine che ricorre spesso negli ultimi scritti) dell’uomo nel mondo. Perciò considerava tutta la letteratura «apocalittica» che scrupolosamente si sorbiva solo come la testimonianza di una crisi dei valori, giungendo per diverse vie a un giudizio analogo a quello di Lukàcs. Io gli facevo osservare che non era ormai più possibile considerare questa crisi come un puro fenomeno culturale corrispondente all’involuzione di una classe sociale, poiché l’esistenza della bomba atomica trasformava in possibilità reale e concreta quell’apocalissi che finora indubbiamente rappresentava soltanto la proiezione del dissestamento delle strutture culturali di una civiltà. Ciò conferiva una certa legittimità oggettiva alla letteratura in questione e limitava la sua analogia con le apocalissi psicopatologiche individuali. Ma egli si rifiutava di vedere una differenza qualitativa tra apocalissi reale e totale e apocalissi culturale parziale. «La fine del mondo — mi disse una volta — c’è sempre stata. Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo? Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cosa è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo?». Era questo il punto su cui non c’intendevamo, poiché io non riuscivo a mettere sullo stesso piano la fine di un mondo culturale, al di là della quale si aprono comunque nuove prospettive, e la fine del mondo umano in generale. Nel saggio di «Nuovi Argomenti» De Martino ribadì esplicitamente la sua posizione scrivendo che «rispetto alla dissipazione... dell’ethos del trascendimento valorizzante della vita impallidisce per importanza la stessa atroce prospettiva della catastrofe fattuale del mondo umano per un possibile conflitto termonucleare». «Infatti — concludeva il saggio — se la catastrofe fattuale del mondo umano dovesse prodursi — magari ’’casualmente” o ’’per equivoco” — attraverso un gesto tecnico della mano dell’uomo, ciò significherebbe che il mondo era segretamente finito già molto tempo prima e che già poteva capitare qualsiasi cosa, per esempio l’avventura di Gregorio Samsa che una mattina, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto mostruoso: e che già poteva capitare qualsiasi cosa non più nel distacco di un racconto, ma proprio nella realtà, diventata essa stessa allucinatoria e distruttiva». Che per De Martino l’essenziale continuasse ad essere la disposizione etica dell’uomo, la sua capacità di trascendere la crisi nel valore, risulta anche da ciò che ebbe a dirmi un’altra volta, e cioè che in una catastrofe cosmica era per lui pur sempre decisivo il «gesto di non accettazione» che l’uomo le avesse opposto nel perire, confermando la sua fedeltà ultima al mondo culturale cui apparteneva.
Portando il discorso su questo tema potevo quindi aspettarmi che esso sarebbe rimbalzato indietro. Infatti, quando gli dissi che più che le limitazioni naturali dell’uomo mi importava la possibilità che l’uomo uscisse definitivamente dalla scena della natura, De Martino replicò subito: «Ma, caro mio, dalla natura l’uomo rientra e riesce ogni momento, per questo non c’è bisogno della bomba atomica. E anche il comunismo non può sopprimere questa tensione, questo dramma, qui il dominio integrale della natura urta contro limiti invalicabili». Con ciò si ritornava alla questione della morte individuale, da cui avevo cercato di evadere accennando alla morte collettiva. Questa volta non mi restava che affrontarla. Mi ricordai allora di una discussione che avevo avuta di recente con un comune amico che sosteneva l’opportunità di dire a De Martino che era condannato, poiché un uomo della sua statura intellettuale dovrebbe accettare la propria morte nella consapevolezza della sopravvivenza della specie. In questo mi sentivo più demartiniano del mio amico, la «crisi della presenza» mi sembrava qualcosa che non si può superare in modo puramente razionale, meno che mai da parte di un uomo che non per nulla l’aveva posta al centro del proprio pensiero. Ero quindi dell’avviso che fosse giusto nascondergli la verità. Ma dissentivo da De Martino nel senso che valutavo più ottimisticamente le possibilità di risoluzione della crisi della presenza nell’ambito del comunismo. Perciò ribattei : «Sì, questo è vero, ma solo fino a un certo punto. Mi sembra che in Marx ci sia la prospettiva di un rivolgimento importante anche nel dramma che tu descrivi. Poiché il comunismo non significa soltanto il dominio assoluto della natura, ma anche la realizzazione dell’uomo come essere generico, la riconciliazione dell’individuo con la specie. Certo tu hai ragione, la fine di un individuo che avrebbe ancora molto da dire e da fare è una ingiustizia irreparabile che ci rifiutiamo di accettare. Per questo, per esempio, un uomo come Goethe così attaccato al mondano, e proprio perchè attaccato al mondano, nel colloquio con Falk ai funerali di Wieland postula una specie di immortalità individuale poiché gli sembra impossibile che la monade uomo debba cessare di svilupparsi con la morte. Cioè anche a Goethe non bastava il rimando alla continuità della specie per giustificare la fine dell’individuo, soprattutto del grande individuo. Ma nella società senza classi, ogni individuo realizzando immediatamente la specie, la consapevolezza che il proprio lavoro, il significato della propria esistenza, viene proseguito nella sopravvivenza dell’uomo come specie, dovrebbe assumere ben altra intensità, e quindi anche la morte dovrebbe perdere gran parte della sua drammaticità. Certo, finché questo stadio non sarà raggiunto, il rimando alla specie resterà una fredda operazione intellettuale, una magra consolazione, ma ripeto che nel futuro, contrariamente a quanto pensi, anche qui si dovrebbe realizzare una svolta ».
De Martino ripeté: «Già, l’individuo, la specie...». Ma in quel momento rientrò Vittoria, un po’ preoccupata perché il colloquio era stato molto lungo e De Martino non doveva affaticarsi troppo. Ci congedammo in fretta. Non so che cosa De Martino avrebbe replicato, ma se questa brusca fine del colloquio aveva lasciato formalmente a me l’ultima parola, in realtà era lui il vincitore morale, poiché quel mio rimando a ere future, e chissà quanto probabili, non aveva fatto altro che ribadire indirettamente la consapevolezza del dramma attuale: del dramma dell’amico che stava per morire nel pieno delle sue forze e al culmine della sua attività, e del dramma di noi, che restavamo orbati di una così vigorosa e feconda presenza.


“Quaderni Piacentini” n. 23-24, maggio-agosto 1965

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