25.2.17

In quel palco del Teatro Fiorentini. Eduardo De Filippo ricorda Matilde Serao (1977)

Matilde Serao (1856-1927) nel suo studio a Napoli, nel 1924
In occasione del cinquantenario della morte di Matilde Serao “la Repubblica” pubblicò un paginone dedicato alla giornalista e scrittrice partenopea. Pezzo forte la testimonianza di Eduardo De Filippo, raccolta da Lucio Villari, che disegna uno spaccato della cultura teatrale e letteraria del primo Novecento. (S.L.L.)

ROMA
Eduardo, cosa pensa, oggi, di una donna come Matilde Serao?
«Quello che ne pensai quando la conobbi. Era l’autunno del 1925; recitavo al Teatro Fiorentini, a Napoli, nella compagnia di Vincenzo Scarpetta. Una sera, alla fine dello spettacolo, seppi che c’era la Serao e che voleva vedermi. Andai nel suo palco e lei ebbe per me parole lusinghiere e molto affettuose. La Serao era una donna aperta e sincera, attenta alle qualità e alle esigenze dei giovani. Nel campo del giornalismo ne aiutò molti a lavorare e a farsi strada. Aveva per loro un affetto materno, non era vero che lo facesse anche per portarseli a letto. Solo la volgarità di certi ambienti napoletani poteva far immaginare donna Matilde nelle vesti di seduttrice. Probabilmente molti si facevano ingannare dalla passionalità, dall’erotismo di tanti suoi personaggi femminili». 

Anche Scarfoglio cedeva a questo luogo comune...
«Sì, a lui si attribuiva una battuta cattiva: "Matilde è il calamaio della Posta" (dove tutti possono intingere la penna...). Ma, si sa che Scarfoglio era inferiore, come scrittore e intellettuale, alla moglie ».

I loro rapporti non furono certo facili.
«Inizialmente il loro modo di fare giornalismo si integrava perfettamente, sia dal punto di vista professionale che ideologico-politico. Scarfoglio era però retorico, inondava di inchiostro i suoi giornali. La Serao era più sobria, anche perché era molto attenta a ciò che le accadeva intorno, alle persone, ai gesti. I suoi romanzi, le sue novelle, sono fatti di queste osservazioni filtrate da una memoria molto sensibile. Perciò, alla lunga, le loro strade non potevano che divergere».

Forse nella Serao c’era anche un senso di maggiore felicità e serenità.
«Sì, è vero. Ricordo che lei abitava alla Riviera di Ghiaia in una casa dove, ragazzo, andavo spesso perché c’ era un fotografo alla moda, Armando Toppo, mio amico. Una volta, alla finestra dello studio della Serao (a cui sempre alzavo lo sguardo timoroso), vidi una bandiera; chiesi a Toppo che cosa fosse successo, mi disse che era il modo con cui la Serao festeggiava la parola “fine” a un suo romanzo. Era un modo allegro e infantile di manifestare la propria gioia».

Per questo, allora, amava tanto il teatro?
«Forse sì. Lei seguiva con molta attenzione ciò che accadeva nel mondo del teatro... Alla fine del 1917, dopo la rotta di Caporetto, le autorità proibirono, in segno di lutto, le riviste e i varietà. Raffaele Viviani, ancora non molto noto, decise di formare una compagnia con gli attori rimasti disoccupati. Insieme alla sorela Luisella chiamò bravissimi attori di varietà quali Gigino Pisano, Cesarina Faras, Salvatore Costa, Guglielmo Inglese, Mario Mari e altri, e per la Compagnia scrisse ’O vico dove lui, cantando e recitando, faceva da filo conduttore di uno spettacolo molto bello e divertente. Fu un grande successo, ma la “crème” del mondo culturale e dello spettacolo napoletano (Bovio, Di Giacomo, Murolo, ecc.) non diedero peso all’avvenimento. La Serao, invece, ne fu entusiasta e scrisse provocatoriamente sul giornale: “Napoli si è accorta cosa succede al Teatro Umberto 1°?”. Aveva capito il grande talento di Viviani; cosa che non riuscirà, neanche negli anni successivi, a Benedetto Croce, che pure viveva quotidianamente, la vita culturale di Napoli ».

Questa particolare sensibilità della Serao si spiega, credo, anche col fatto che la sua narrativa ha una struttura teatrale.
«Certamente. Ernesto Murolo, ad esempio, ha trasformato in commedia un suo racconto, O Giovannino o la morte, che ebbe un successo anche per l'interpretazione di Marietta Gioia, l'astro del Teatro d’Arte Napoletano. Posso ancora ricordare Ruggero Ruggeri e Emma Gramatica che recitarono Dopo il perdono. Dal punto di vista teatrale Napoli non era affatto una città di provincia. Novelli, Zacconi, la Duse, Tino Di Lorenzo, Gualtiero Tumiati, recitavano spesso in una città che, col Sannazaro, il Bellini, il Fiorentini, il Merendante, era una vera e propria capitale del teatro italiano. La Serao fu in rapporto con questi artisti e con i più importanti uomini di teatro del periodo. Esiste, a tal proposito, una corrispondenza inedita presso una nipote della Serao che spero di poter fare pubblicare al più presto».

Scarfoglio la seguiva in questi interessi teatrali?
«Credo di no. Scarfoglio frequentava spesso, insieme con i figli, il teatro di Eduardo Scarpetta solo perché nella compagnia vi erano bellissime donne. Ricordo che nella pochade La dama di “Chez Maxim” recitavano donne stupende: Adelina Magnetti, Ester Bianche, Maria Dolini, Concettina Arola. Scarfoglio riuscì a diventare amante dela Magnetti, che fu poi l'affascinante Assunta Spina di Salvatore Di Giacomo. I rapporti degli Scarfoglio col teatro napoletano erano solo salottieri. Sempre a proposito della Dama di ”Chez Maxim” Scarfoglio protestò con Scarpetta perché di una prostituta, che c’era nel testo originale francese, egli aveva fatto una fioraia. Tutto qui».

Perché, secondo te, il premio Nobel del 1926 venne dato a Grazia Deledda e non alla Serao? Eppure, le opere della Serao erano state tradotte in francese, inglese, tedesco, russo, spagnolo, ceco, danese...
«Spesso dietro l’assegnazione dei Nobel vi sono motivi politici. Durante la guerra, come si sa, la Serao era stata accusata di essere filo-tedesca solo perché non si era fatta trascinare dal delirio nazionalistico soprattutto dei giovani Scarfoglio e del Mattino, anch’essi però contrari all’intervento dell'Italia. È probabile che questo abbia influito sule decisioni dei giudici del Nobel. Vorrei aggiungere, poi, che donna Matilde non era fascista anche se, come si diceva, Mussolini tentò di tirarla dalla sua parte. Mussolini teneva a coccolare gli artisti e gli scrittori. Con la Serao, però, non gli riuscì...».

È bello dunque che i napoletani celebrino oggi questa scrittrice non napoletana che così profondamente ha amato e capito la loro città.
«Vorrei dire che mi piace non disgiungere l’immagine di me, presidente della commissione che dovrà celebrare i 50 anni della morte della Serao, da quella di me giovane magro come adesso, timido, pieno di speranze e di sogni, che varca il palco del Teatro Fiorentini. Celebrando la Serao, in fondo, Napoli ritrova una immagine autentica di sé. Lavoro in questa commissione con amore filiale perché, come ho detto, i giovani erano molto legati a donna Matilde».

Quali sono i vostri progetti per quest’anniversario?
«Fra le altre cose, uno spettacolo fatto di brani narrativi della Serao. L’idea iniziale era di presentarlo nei saloni di Palazzo Reale, ho detto però agli amici della commissione che forse era meglio creare uno spettacolo mobile che portasse la Serao di piazza in piazza. Il popolo napoletano, che ha ispirato il suo lavoro di scrittrice, potrà così ritrovarla o addirittura scoprirla. È un giusto omaggio alla Serao e a Napoli».

Mi pare che ci sia pure una sua proposta di realizzare un film.
«Molti romanzi della Serao potrebbero diventare dei film. Penso a un’ opera, che io definisco politica, come il Ventre di Napoli. Secondo me un film ideale sarebbe il Paese di Cuccagna, diretto, ad esempio, da un regista come Francesco Rosi. È una mia vecchia idea, d’altronde, che risale al 1939 e che la guerra mi aveva impedito di condurre in porto. Spero di potere interessare qualche produttore. Se anche questa volta, però, non se ne facesse nulla, mi piacerebbe sceneggiare quella parte del Paese di Cuccagna dove si apre lo scenario del gioco del lotto. Uno spaccato sociale di Napoli, una serie di figure non dimenticabili: dal tagliatore di guanti Gaetano al marchese Cavalcanti».
(a cura di Lucio Villari)

“la Repubblica”, 21 febbraio 1977

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