8.2.17

Kubrick fotografo. Il fascino del sublime (Elfi Reiter)

Per dare un significato al mondo, bisogna farsi coinvolgere dalle scene che compaiono nel mirino. Questo atteggiamento esige concentrazione, disciplina mentale, sensibilità e senso della geometria. È risparmiando sui mezzi che si arriva alla semplicità dell’espressione».
Fu il consiglio dato dal grande fotografo Henri Cartier-Bresson al molto più giovane, allora collega, Stanley Kubrick quando questi girava il mondo come fotoreporter per la rivista americana Look negli anni dell’immediato secondo dopoguerra, ossia dal 1945 al 1950.
Nell’aggirarsi negli spazi espositivi dell’elegantissimo Palazzo Magnani di Reggio Emilia, si rimane colpiti dalla carica vitale e la dignità umana presenti nei soggetti catturati dall’obiettivo tenuto in mano da colui che quasi contemporaneamente avrebbe dato vita a tutt’altro percorso, quello di un cinema memorabile che va da Paura e desiderio (girato nel 1951, fu a lungo introvabile, forse perché ritenuto dal suo stesso autore «un tentativo serio realizzato in modo maldestro») fino all’ultimo Eyes Wide Shut del 1999, anno della sua morte a soli 61 anni.
In mezzo ci sono titoli quali il sempre mitico 2001: Odissea nello spazio, il magnifico Barry Lyndon, il feroce Full Metal Jacket o il terribilmente violento Arancia meccanica.
Ciò che salta all’occhio guardando le meravigliose foto stampate in grandi dimensioni (ora la mostra itinerante è in partenza per Mosca) è il colpo di genio nella messinscena sebbene si tratti di scatti singoli e non di scene concepite per un film.
D’altronde fu proprio una scena complessa catturata in un istante fotografico (un edicolante rattristato per la notizia della morte dell’amato presidente, Franklin D. Roosevelt, seduto in mezzo alle prime pagine dei giornali appesi attorno a lui) a convincere la redazione di Look ad assumerlo come fotografo, tanto che comprarono subito foto e autore, facendogli un contratto di collaborazione fissa (mantenuta fino al 1950 quando fece il primo corto sulla giornata del pugile Walter Carrier, Dayoftheflght, autoprodotto con 3900 dollari e venduto alla Rko per 4000, la quale poi gli produsse il titolo successivo Flying Padre girato nel New Mexico).
Stanley Kubrik, Milits of a Paddy Wagon
Le due sezioni Paddy Wagon... quando si tocca il fondo e Il circo dietro le quinte (entrambi del 1948) sono le due che rispecchiano al meglio questo aspetto di messinscena, sia dal punto di vista del soggetto inquadrato che da quello della stessa inquadratura. Paddy Wagon è già costruita come sequenza (ideale) cinematografica giocata sui due livelli di finzione e indice di realtà (tanto caro a Kubrick in seguito), dovendo qui illustrare il veicolo utilizzato dalla polizia di New York per trasportare i prigionieri amichevolmente chiamato Paddy (dal gaelico Patrick, essendo la maggioranza dei poliziotti newyorkesi di origine irlandese). Facendo un uso contemporaneo dei livelli narrativi in primo piano e sullo sfondo, sfruttando quindi tutta la linea della profondità di campo, il giovane Kubrick focalizzava l’ambiguità dell’oggetto fotografato (qui il veicolo apparentemente più idoneo e sicuro) e al contempo quella del mezzo usato per fotografarlo, la macchina fotografica, con cui si decide cosa e come inquadrare.
Così un muso supermetallico riflette i palazzi attorno; il volto di un ispettore guarda dritto in macchina; quattro prigionieri seduti all’interno sullo sfondo sono illuminati a giorno mentre la schiena di colui che li sorveglia, in primo piano, è nel buio e minacciosamente enorme; un braccio armato di pistola capta tutta l’attenzione nel puntare verso l’ipotetico lato esterno di una camionetta.
Non è noir, né tipicamente hollywoodiano, è già «stile Kubrick» se pensiamo ai netti contrasti tra personaggi, paesaggi e linee archi-tettoniche nei successivi Il bacio dell'assassino e Orizzonti di gloria, sempre girati in bianco e nero.
Stanley Kubrik, Rocky Marciano sotto la doccia
Tutt’altro registro nella sequenza dedicata al Circo, dove abbaglia la luce che domina l’immaginario essendo quello circense un mondo a parte, dove regna il gioco, l’altro - in tutti i sensi.
Kubrick riprende la tigre in gabbia come se fosse l’uomo che la guarda a esserlo: lei, fiera, dal pelo più che mai lucente grazie alla leggera solarizzazione in fase di stampa della foto, lui, con maglietta bianchissima dietro le sbarre in secondo piano a guardarla. Con ammirazione e perplessità.
Oppure, nella danza dei leopardi dentro la grande gabbia di spettacolo, alla chiara luce di un sole fortissimo appare invertito il rapporto di dominio tra animali e uomo/domatore col bastone in perfetta estensione del braccio verso le zampe delle tigri alzate: chi comanda chi?
A parte il fatto che a livello di grana e messa a fuoco nelle mille sfaccettature dal bianco al nero, è già una foto inquietantemente emozionante! Sembra un miracolo che i negativi sepolti per oltre 50 anni, all’insaputa di tutti, dentro le scatole contenenti il Look archive depositate presso il Museum of the City of New York siano rimasti talmente integri e intatti.
Merito della pellicola, forse. Ma soprattutto, se possiamo vederle oggi (a dire il vero dal 2005, anno in cui era uscito il volume Drama and Shadows, edito da Phaidon), è merito del fiuto eccezionale di Rainer Crone che li ha ritrovati non arrendendosi mai.
Nemmeno dopo la telefonata al quasi morente Stanley Kubrick nel 1998, in cui il regista gli aveva confessato di aver intrapreso lui stesso la «ricerca del Graal» non sapendo dove fossero. Anzi, quella telefonata fungeva da ulteriore stimolo, avendo Kubrick rassicurato lo studioso americano del fatto che non erano mai state tirate stampe vintage.
Di fatto, tra il museo di New York e la Library of Congress di Washington D.C. vennero alla luce 14mila negativi raggruppati in trecento series e stories.
«Il contenuto di queste scatole supera ogni aspettativa», si legge nell’introduzione (firmata dallo stesso Crone) al bellissimo catalogo della mostra (edito da Giunti, 32 euro) intitolata Il fascino discreto del Sublime.
«Questi scatti sono documenti del tempo che fanno luce sugli anni del dopoguerra in America, ma non solo. Nell’ambito della storia della fotografia essi si collocano in una posizione nuova che, forte della consapevolezza di ciò che l’ha preceduta e delle tradizioni che ne hanno determinato il percorso evolutivo, si spinge a sondare i limiti del medium Queste foto sono niente di meno che un cambio di paradigma delle potenzialità della fotografia».
Poi si aggiunge che Kubrick fotografo, col senno del poi, non va affatto considerato come uno tra tanti, ma «la sua opera fotografica va vista a se stante e annoverata tra le più significative nella storia del medium».
Basta dare uno sguardo alle altre serie esposte a Reggio Emilia: «Note di viaggio dal Portogallo», compiute nel 1948, con veri e propri montaggi in macchina per creare sequenze quasi hitchcockiane con soggetto una coppia di turisti americani in una città non meglio definita, mentre lo sguardo posato su un villaggio sulla costa - invece di inseguire i classici motivi turistici da cartolina - fa intravedere luci e ombre, fatica e miseria nella vita di pescatori, tra barche da tirare a secco con le funi o le silhouette di donne nere rivolte verso l’infinito del mare.
Stanley Kubrik, Coppia in un caffé
E ancora l’«Omaggio all’età del jazz» per seguire da vicino trombe, clarinetti e contrabbasso suonati a meraviglia dagli artisti prevalentemente di colore in locali in stile: nell’organizzazione delle foto si percepisce l’amore del giovane Kubrick per questa musica giunta da New Orleans al Bop City Club di New York, captando i musicisti in posizioni informali, libere, free style appunto, per rispecchiare meglio il free jazz da loro suonato.
Il settimanale “Look “si dedicava anche ai personaggi famosi, per i quali Kubrick ogni volta inventava stili di ripresa adatti ai soggetti: vediamo una «debuttante» Betsy von Furstenberg, vestita elegante in ambienti dell’alta società ma anche giocherellona, a gambe nude e pantaloncini corti, a saltellare con le amiche su muretti o rami di un albero, mentre il pugile Rocky Graziano l’aveva seguito «prima del combattimento» tra massaggi al ginocchio, al volto e persino sotto la doccia (scatto inedito, finora).
Se nella serie delle donne nere in Portogallo Kubrick era riuscito a concentrare dignità e rigore, negli scatti al giovanissimo Montgomery Clift (reduce del suo primo successo, Il fiume rosso di Howard Hawks, nel 1949) aveva unito irrequietezza e dolcezza insiti nell’attore morto suicida a 46 anni nel 1966: preso leggermente dal basso a cavalcioni con bimba in spalla; osservato dall’alto mentre è sdraiato per terra accanto al letto in mutande e maglietta bevendo a collo da una bottiglia (fu la prima volta, questa, che si vide una star vestita con indumenti intimi, saranno poi James Dean e Marlon Brando a lanciarne la moda nei primi anni ’50); sorpreso (apparentemente) nel fare colazione la mattina o nel guardare fuori da una finestra e, infine, leggermente dall’alto, in abito completo, cravatta slacciata e impermeabile sgualcito sotto braccio, nel vialetto con sfondo di case popolari.
Sintesi di un’anima alla ricerca dell’essere. Occhio acuto sul mondo. «Tutto ciò che può essere scritto o pensato può essere filmato», aveva detto una volta l’autore che ha lasciato il suo segno particolare in ogni sua immagine, dal documentaristico alla satira politica, dalla fantascienza alla critica della guerra, dallo storico al noir.
E, in queste fotografie, tra ombre e drammaturgia, come insegna anche la storia di Mickey, il ragazzino biondo di 9 anni, a scuola al mattino, lustrascarpe e fattorino nel pomeriggio, amante dei piccioni sui tetti, liberati come simboli delle anime libere.
O meglio degli spiriti liberi: uno di sicuro si chiamava Stanley Kubrick.


Alias il manifesto, 30 luglio 2011

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