1.2.17

L'arca di Billi & Riva, la coppia comica di Garinei e Giovannini (Oreste del Buono)

Un Del Buono in forma smagliante per un articolo ricco di memorie, di aneddoti, di trovate, tutto da leggere. (S.L.L.)

Forse il pubblico non si rende ben conto dell'importanza artistica d'una buona ''spalla'' - assicurano Dino Falconi e Angelo Frattini in Guida alla rivista e all'operetta (Accademia, 1953) -, ma chi abbia intima dimestichezza con la ribalta sa i prodigi di affiatamento, i miracoli di tempismo, il preciso umorismo e la sicurezza dì scena che occorrono per adempiere utilmente ed artisticamente a questo non facile compito. Un passo di più e la "buona spalla" può diventare un buon comico. E se quel passo non viene a volte compiuto è forse nella tema di non trovare per se stessi una ''spalla'' altrettanto brava. Il nostro palcoscenico di rivista ne conta alcune che sono veri maestri del genere. E per non sapere in coscienza a chi dare la palma del primato adotteremo, nel ricordare le tre principali "spalle" del teatro di rivista italiano, il comodo ordine alfabetico...».
L'ordine alfabetico usato per le «spalle» opportunamente concordava con l'ordine qualitativo dei tre comici che le detenevano. Mario Castellani apparteneva a Sua Altezza Reale Antonio de Curtis Gagliardi Griffo Focas Comneno di Bisanzio, detto Totò; Carlo Rizzo apparteneva a Macario ed Enzo Turco apparteneva a Nino Taranto. Il romano Castellani aveva incontrato per la prima volta Totò nel 1927, erano stati i due comici di una stessa rivista, poi erano stati divisi dalla crisi del teatro di varietà e s'erano rimessi insieme solo nel 1941.
Per Totò Castellani si moltiplicò, fu il proprietario del teatro, il maggiordomo, il bandito Cast, l'allenatore, l'imbroglione, Za la Mortadelle, Asdrubale Stinchi, Stanis, il comandante dei ribelli, il colonnello Bertrand de Tassiny, l'onorevole Trombetta, il ragionier Carlini, il pubblico ministero, il dottore, l'onorevole Coccheletti, il domatore Goffredo Barozzoli, un industriale, il signor Cristaldi, Cri-Cri il marito della dirimpettaia, Mezzacapa, uno dei banditi, Alì l'aiutante, Amilcare Pasquetta, l'ispettore Scalarini, l'altro fratello, il commendatore Filippo Iancetti, un ciabattino, il brigadiere, il chirurgo cranico, una guardia carceraria, un ufficiale, il direttore dell'orfanotrofio, l'agente americano, il signore della mutua e altri.
Le altre «spalle» latravano cercando di opporsi almeno con violenza vocale alle stolidità del comico, Castellani mise in scena un mite stupore in grado di provocare maggiori assurdità, strafalcioni, aggressività del tiranno, con accuratamente tardivi conati di medicarne il delirio, sino all'esplosione completa. Rizzo, nipote del celebre attore d'operetta Carlo Lombardo, figlio d'arte come il fratello e la sorella, invece, si provava sempre ad aver ragione scaricando una cospicua dose di buon senso sulle astrazioni lunari, le imbarazzanti timidezze e le soluzioni inaccettabili di Macario. Parlava, parlava, parlava, ma quando si illudeva di aver finalmente ridotto a più miti consigli l'interlocutore veniva vulnerato da una scemenza meno accettabile di costui che gli faceva perdere ogni controllo. Turco era già un comico abbastanza arrivato, ma, a un certo punto, aveva fatto i conti e aveva preferito entrare in società con Taranto, napoletano lui e napoletano l'altro, una perfetta macchina di buon umore partenopeo, con ogni tanto virtuosismi preziosi anche alle più rozze platee. Tre coppie irresistibili, si potrebbero dire serenamente insuperabili.
Lo possiamo dire senz'altro. Nessuno è in grado d'impedircelo. Ma i dubbi sono pronti a consigliare una certa prudenza. E Billi e Riva? La coppia Billi e Riva si formò nel dopoguerra. Un agente milanese in angustie per salvare una serata a Monza aveva contattato il giovane presentatore Mario Riva, al secolo Mario Bonavolontà, e gli aveva detto: «Solo tu mi puoi salvare. Ho una serata a Monza, ma una compagnia deboluccia. Mi serve uno con la tua personalità per quadrare le cose». Ma, quando Riva era arrivato a Monza con la sua compagna Diana Dei si era trovato davanti solo Riccardo Billi con la moglie Liana, e da lui aveva appreso che l'intraprendente agente milanese gli aveva fatto lo stesso discorso che aveva fatto a lui. Billi appariva molto vecchio ed era in giro dai tempi della famosa soubrette Lydia Johnson. Non si sarebbe detto in grado di dare un gran contributo al salvataggio della serata. Ma gli bastò calcare il palcoscenico per recuperare un'energia quasi selvaggia.
In Garinei e Giovannini presentano: Quarant'anni di teatro musicale all'italiana, a cura di Lello Garinei e Marco Giovannini (Rizzoli, 1985) si legge una significativa testimonianza di Diana Dei: «Billi, fuori dalla scena, poteva sembrare assente, abulico, ma in palcoscenico si accendeva come una lampadina. Mario, invece, era in palcoscenico esattamente quello che era nella vita. Poteva dire una battuta o leggere “Il Messaggero”, l'effetto comico era identico. Garinei e Giovannini glielo ripetevano sempre: “Mettiti pure i vestiti di scena, camuffati come ti pare, ma ricordati di essere sempre te stesso”...». Comunque fosse andata la serata a Monza, si misero insieme. «Riccardo Billi viene dalla paziente "gavetta" dell'avanspettacolo - scrivono Falconi e Frattini -, Mario Riva dalla falange dei "presentatori". Un bel giorno questi due s’incontrano e la loro unione - che ricorda quella di alcune sostanze chimiche, ciascuna delle quali, per proprio conto, è abbastanza innocua, ma mescolata ad altra forma un composto esplosivo - fa deflagrare un clamoroso successo. Questo successo è La Bisarca cui seguono Alta tensione e I fanatici. Ormai la "ditta" è affermata: la sua comicità vince di prepotenza ed è, infatti, una comicità prepotente. Non c'è modo di resisterle: fate conto di giocare a poker con un avversario - anzi, due - che abbia costantemente in mano quattro assi. Billi è un parodista di prima forza: la sua imitazione della Magnani ha fatto epoca. Riva è, pirandellianamente, uno, nessuno e centomila; le sue battute rapidissime hanno la persistenza e la suggestività del tam-tam della foresta: come ne sentite i primi colpi, siete già disposti ad arrendervi, sapete che la vostra resa è inevitabile. In Billi e Riva c'è tutta Roma: la corrosività del Belli, la cordialità di Pascarella, l'ironia di Trilussa. Straordinariamente divertenti, con tutta l'aria di chi sa di esserlo e fa il possibile per non darlo a vedere: un'immodestia che abbassa gli occhi e arrossisce lievemente, come una signorina di famiglia (del secolo scorso). Una cosa è certa: che la loro è una comicità tutta godibile; quando avete finito di saziarvene, vi avvedete che della lauta imbandigione non è avanzata neppure ima briciola...». Tutto giusto, tranne che Riccardo Billi non era di Roma ma di Siena.
La Bisarca, proposta di una seconda Arca di Noè, con rassegna di buoni e cattivi, copione di Garinei e Giovannini, fu dapprima il grande successo radiofonico con cui nel 1950 Billi e Riva entrarono in Rai e dai microfoni della Rai conquistarono l'Italia. Quando Garinei e Giovannini vollero presentare la storia del secondo diluvio e dell'Arca bis sul palcoscenico del Sistina, per l'esattezza al teatro Palazzo Sistina, come era definito, Billi e Riva si spaventarono. Il teatro Palazzo Sistina era un teatro enorme, e loro erano abituati al piccolo Bernini in cui avevano raggiunto il miglior funzionamento come coppia, Mario Riva come spalla smaniosa e intraprendente e Riccardo Billi come comico esperto capace di tutto per arricchire lo spettacolo. Sinché si esibivano per radio, andava tutto liscio, la platea, anche se molto diffusa, non era visibile, ogni possibile contestazione veniva differita. Foschi presagi aggravarono l'ansia degli interpreti. Alla vigilia del debutto la catastrofe fu data per ineluttabile. Il suggeritore De Pascale era quasi in lacrime. Si era perduto l'ultimo copione della rivista. Impossibile andare in scena. «Distrazione, dimenticanza o, addirittura, furto?», raccontano Lello Garinei e Marco Giovannini con la lieve affettuosa ironia di nipote e figlio. «Dopo ricerche vane, un attore si ricordò che alle quattro di notte dopo la prova generale il copione era rimasto sulla passerella. Confessò poi una donna delle pulizie di esserselo portato a casa per avere qualcosa da leggere quella notte... G & G trovarono subito la spiegazione ovvia di tutta la faccenda, la colpevole era Alba Arnova, che qualche giorno prima aveva osato presentarsi alle prove con un golfino viola. Glielo avevano strappato di dosso, G & G, mandando subito un fattorino a comprargliene uno nuovo di un fiammante e innocuo rosso, ma ormai la frittata era fatta. Prima o poi, avevano preventivato, sarebbe sicuramente capitato qualche guaio...».
Il debutto, però, fu trionfale. Incasso 2.267.188 lire e passerelle a non finire. Alba Fossati, figlia di un lombardo e di una piacentina emigrata in Argentina, primo nome d'arte Ars Nova e poi più sinteticamente Arnova, ex prima ballerina classica del teatro Colon di Buenos Aires, arrivata in tournée in Italia nel 1948 e restia al ritorno oltreoceano, dette il meglio di sé per il successo de La Bisarca al teatro Palazzo Sistina come Billi e Riva che passarono da un'emozione all'altra, imparando quanto possano esaltare una grande platea, e una grande occasione. Un'occasione addirittura storica. Per la prima volta nella nuova Italia convertitasi alla democrazia un presidente del Consiglio assisteva a una rivista non proprio conformista. Alcide De Gasperi, durante il convegno dei federalisti tenuto al teatro Palazzo Sistina la mattina del 4 novembre si era incuriosito vedendo i manifesti che annunciavano lo spettacolo, aveva chiesto informazioni e aveva deciso che gli sarebbe piaciuto assistervi con la moglie. Gli era stato fatto notare che si poteva prevedere, anzi si era sicuri, che la rivista non sarebbe stata tenera con il governo, e non sarebbero mancate le frecciate velenose. La risposta era stata da statista lungimirante e preparato alla propria sorte di bersaglio. «Non certo per questo mi farò cattivo sangue. La lettura quotidiana della stampa mi ha talmente allenato che ora, quando si parla di De Gasperi, mi fa l'impressione che si tratti di una persona differente da me...». 
Billi e Riva non si mostrarono teneri con il governo, non si lasciarono intimidire dalla presenza del trentino prestato all'Italia, ma, alla fine, dopo l'ennesima battuta antigovemativa, attraversarono il palcoscenico per porgere un grande fascio di rose rosse alla signora Francesca. Un omaggio come quelli che si tributavano alla Wanda Osiris. Non diversamente dai comici, Alcide De Gasperi aveva pronta la sua battuta come se avessero un comune copione a disposizione. «Cara - disse chinandosi verso la moglie che scompariva dietro alle rose rosse -, attenta alle spine...».
Un grande successo può essere interpretato in vari modi. Dipende dalle circostanze e dal punto di vista di chi guarda. In una “Gazzetta del Popolo” di quei giorni ci imbattiamo nel commento di Leo Longanesi, intelletto ribelle alle convinzioni dei più, alle prese con La Bisarca alla presentazione al Teatro Manzoni di Milano: «Dal palco, dunque, io non guardavo più il palcoscenico, ma il pubblico, e pensavo: queste mille persone che hanno speso a testa duemila lire ridono delle stesse cose per cui ridono i poveri fantaccini e le povere serve nei teatri di periferia; in questa platea siedono le mille persone che guidano Milano, le mille persone che possiedono la 1400, le mille persone che, per un verso o per l'altro, formano il fior fiore della più solida città italiana; ma cosa le distingue dai poveri fantaccini e dalle povere serve? Esse ridono allo stesso modo delle stesse cose. Ma i fantaccini e le serve, quel diritto di ridere, se lo guadagnano con il loro candore, con la loro ignoranza, con la loro povertà. I mille spettatori che osservavo dal mio palco, al contrario, non erano affatto ingenui né poveri né serbavano amore a quella virtù e a quelle regole che sul palcoscenico venivano derise. Essi ridevano perché erano persone volgari; essi erano plebei arricchiti, divenuti scettici grazie al denaro loro, ma deridevano se stessi, senza saperlo. Le signore e le signorine, in pelliccia di martora, con la bocca alla Crawford, con le unghie laccate, coi sandali alla schiava, con il tampax, coi pesanti grappoli di medaglie d'oro al polso, con l'aria ibseniana, erano più plebee delle serve loro. Non sono moralista, non sono democristiano né sono socialista, ma quelle mille persone distinte che vedevo dal mio palco, io le odiavo...».
Non basta dire: «Non sono moralista» per non esserlo. L'articolo di Leo Longanesi, nonostante i suoi dinieghi, è l'articolo di un moralista. E i moralisti, si sa, non sanno mai esser totalmente in buona fede. Più alzano la voce a criticare gli altri, più attingono all'immoralismo dell'ipocrisia. A ogni modo, questa è una delle prime descrizioni efficaci del pubblico del dopoguerra. Il pubblico che dopo i primi passi della televisione cominciava a imporre i suoi gusti. Anche la coppia Billi e Riva, regina degli spettacoli, subì a un certo punto l'influenza della televisione. Riccardo Billi, che poi non aveva tutti quegli anni più di Mario Riva, essendo nato nel 1906 mentre Mariuccio Bonavolontà era nato nel 1913, fu subito diffidente nei riguardi del nuovo mezzo di comunicazione. Si lasciò tentare ad apparire con Riva in «Un, due, tre» varietà musicale di Scarnicci e Tarabusi, dopo l'esordio di Mario Carotenuto che l'aveva presentato dal 20 gennaio al 24 marzo 1954. Billi e Riva presentarono il programma dal 24 marzo al 28 luglio. Ma Riccardo Billi non cambiò opinione, non era più cosa per lui. Fu contento di abbandonar tutto a Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello destinati a reggere per sei anni con una serie di successi e incidenti di percorso che resero più ricca la loro programmatica presa in giro della televisione stessa. 
La coppia si scisse, perché Mario Riva aveva abbracciato pienamente la carriera televisiva, diventando uno dei personaggi principali e conquistando una notorietà assoluta. Billi e Riva si esibirono insieme soprattutto a «Carosello» per pubblicità e anche nei film dell'epoca che avevano per argomento la televisione. Ma la carriera di Mario Riva merita ancora attenzione, sebbene gli restassero appena pochi anni da vivere.


Tuttolibri – La Stampa, 6 febbraio 1996

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