7.2.17

Sklovskij racconta. 1919: la tragedia dei curdi

Viktor Sklovskij, 1965
Sempre meno si ricordano le crudeltà turche, russe, iraniane, irakene, siriane contro i Curdi, una grande etnia, forse una nazione, divisa tra quattro o cinque stati e sottoposta a discriminazioni, nel tempo più o meno gravi e pesanti, in ciascuno di essi.
Neanche l'Armata Rossa si sottrasse a questa orribile pratica durante la guerra civile che seguì la Rivoluzione di Ottobre e che ebbe tra i suoi teatri il Caucaso e le regioni della penisola iranica che erano state conquistate dagli zar nel corso dei secoli.

Viktor Sklovskij, che nel 1919 fu commissario dell'Armata Rossa in quelle regioni che chiama semplificando “Persia”, nel Viaggio sentimentale che raccoglie i suoi ricordi degli anni 1917-1922, dedica diverse pagine alla tragedia dei curdi. Ne ho qui ripreso una, particolarmente significativa. (S.L.L.)
Eravamo abituati ai mendicanti. Intorno a ogni accampamento si aggiravano bambini di forse cinque anni, con addosso un solo cencio nero a mo' di camicia; avevano gli occhi tracomatosi e assediati dalle mosche. Curvi, grufolavano con mosse istintive di animale stanco nei rifiuti, cercando qualcosa di commestibile. Di notte si raccoglievano vicino alle cucine per scaldarsi. Pochi, fra i più grandicelli, furono assunti nelle unità come inservienti. Gli altri morivano silenziosamente e lentamente; come sa morire un essere umano infinitamente tenace.
Lasciammo Gajderobat. Percorrevamo ora strade appena abbozzate, dove ancora formicolavano persiani e curdi, sorvegliati dai nostri genieri, ora direttamente sul terreno salino. In un punto la macchina si mise a slittare e uscimmo a stento da una palude salata a forza di mettere erba secca sotto le ruote.
Ci imbattemmo in villaggi distrutti. Avevo visto molte distruzioni; i centri abitati e le case della Galizia quasi interamente frantumati, ma la vista delle rovine persiane era nuova per me.
Una casa costruita con argilla e paglia diventa un mucchio di fango se le si toglie il tetto.
La strada continuava, sterminata come la guerra. Tutte le strade di guerra sono vicoli ciechi.
Sui terreni salini incontrammo mandrie di cavalli. Non avevamo, come ho detto, foraggi a sufficienza, non avevamo di che sostenere i cavalli sfiniti. Non valeva la pena di nutrirli, non bastava la compassione per ammazzarli, venivano cacciati nella nuda steppa perché si procacciassero il cibo sa sé. Morivano lentamente. Io passavo oltre.
A proposito di compassione. Mi avevano descritto il quadro seguente. Un cosacco in piedi. Davanti a lui un lattante curdo nudo, abbandonato. Il cosacco lo vuol uccidere, gli vibra un colpo e si ferma a pensare, gliene dà un altro e si ferma ancora. Gli dicono: «Fallo fuori con una botta sola» e lui «Non posso: mi fa compassione».
Arrivai a Solozbulak. Una piccola città in una conca. Una volta famosa per le sue pellicce stampate d'oro. Il progrom era finito, avevano arraffato ogni cosa.
Andai al comitato di armata, radunai quelli del reggimento. Cominciai a parlare. Mi rispondevano, irritati, che i Curdi erano dei nemici. «Ogni curdo è un nemico», è il ritornello del soldato russo in Persia. Poi, subito si riprendevano e dicevano di essere contrari ai progrom.
Appresi strane cose. Oltre ai cosacchi del Kubàn e ad un reparto di sanità avevano preso parte al saccheggio... tutti indistintamente. Nei nostri convogli prestavano servizio, a titolo di mercenari, o che so io, dei molokàn (setta religiosa, ndr) con i loro tiri a tre. La combinazione era questa: molokan, duchobor, arapija bianca (tutti movimenti religiosi caratterizzati da fanatismo n.d.r.), misticismo, e chi più ne ha più ne metta... E tutta questa gente aveva partecipato alle ruberie, insieme agli artiglieri. Il comandante della divisione, mentre infieriva il progrom, si chiuse in casa e non ne uscì.
Sì: la storia non dimenticherà certe usanze nei confronti dei persiani e dei curdi.
Quando cominciava il saccheggio, i curdi – Solozbulak è una città curda – riparavano sui tetti insieme alle mogli senza portarsi dietro nulla e lasciavano la città in balia dei saccheggiatori. In tal modo evitavano lo stupro, non sempre beninteso.
Il dolore e la vergogna della polvere di pogrom si depositò nel mio animo e “la tristezza, come un esercito di negri, mi insanguinò il cuore”(è la seconda parte d'una frase tratta da una lirica persiana).
Non voglio essere il solo a piangere e dirò qualcosa di troppo doloroso per essere nascosto. Nel comitato di armata un soldato sosteneva con energia che nulla doveva essere tolto alla popolazione affamata. Occorre dire che la nostra armata, a differenza di alcuni corpi dell'armata del Caucaso, non soffrì la fame; si distribuivano non meno di 600 grammi di pane e la carne di montone era abbondante. Unica eccezione erano le vedette sui valichi montani. Quel soldato aveva portato dei campioni di pane curdo: era fatto di carbone e di argilla, con una piccolissima parte di ghiande. Non lo si volle ascoltare.

da Viaggio sentimentale, De Donato Editore, Bari 1966, trad. di M. Olsufieva.

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