20.2.17

Tintoretto. Pronto a tutto per dipingere un quadro in più (Melania Mazzocco)

Era odiato dai rivali per i metodi con cui otteneva le commissioni
Venezia, Chiesa di S. Maria della Salute, Tintoretto, Le Nozze di Cana
Non finì mai in prigione, come Cellini; né uccise un uomo in una rissa, come Caravaggio. Non morì in miseria né suicida. La sua vita non fu inquieta come la sua opera. Eppure Tintoretto si è meritato nella storia dell'arte una leggenda duratura di simpatica canaglia. Un aggressivo, incendiario grano di pepe. Un pazzo e un mascalzone – un "tristo", per usare le parole di Pietro Aretino (il quale doveva intendersene, essendo la massima canaglia del momento). Ma cosa aveva fatto Tintoretto per guadagnarsi questa fama? Qual'era il suo crimine? Non sapremo mai quanti quadri ha dipinto. Chi dice 468, chi 420, chi 260. Per ogni Tintoretto che viene espunto dal catalogo e declassato a prodotto di bottega, di copista o imitatore, ne spunta un altro, che riemerge con grande clamore mediatico da un castello inglese, dal mercato antiquario o da chissà dove.
Ma anche senza addentrarsi nel ginepraio delle attribuzioni, Tintoretto dipinse più di tutti gli altri pittori del suo tempo, e più di quanto sembra umanamente possibile. "Certo che egli abbraccia troppo", lamentava un conoscente già nel 1556, quando la sua bulimia creativa non si era ancora scatenata. Giorgio Vasari deprecava i ghiribizzi dell´intelletto che lo spingevano a dipingere "fuori dall´uso degli altri pittori" e a non rifinire i quadri; Federico Zuccari lo accusava di avere fatto decadere la pittura con la sua frenesia e il suo furore.
Ma la tecnica pittorica di Tintoretto non li scandalizzava meno dei metodi coi quali si procurava il lavoro. Perché non rispettava precedenze né gerarchie. Era refrattario alle regole in un'epoca in cui parole e comportamenti erano rigidamente codificati. I suoi faticosi primi quindici anni di attività gli avevano insegnato che i concorsi non si vincono col progetto migliore. Ma con quello meglio appoggiato. Così Tintoretto s'ingegna. È disposto a manipolare il concorso, a farlo annullare. A lavorare gratis. A contraffare lo stile altrui, a essere se stesso e i suoi rivali, a dipingere in ogni maniera – a essere ognuno. La sua ubiqua inafferrabilità aizza il malumore dei colleghi e le ironie dei critici.
Ma che cosa vuole veramente Tintoretto? Denaro? Riscatto sociale? Rispettabilità? Primato sugli altri pittori? Gloria? Forse. In sessant'anni di lavoro si costruisce una posizione, sposa una borghese, schianta la concorrenza, crea una fiorente bottega-azienda, si compra una casa con vista sul canale, diventa celebre. Ma in realtà non gli importa nulla di tutto questo. Ciò che solo vuole, e i suoi contemporanei non lo capiscono, è dipingere. È coi quadri che parla e pensa, la pittura l'unica lingua in cui si esprime e si rivela. A quel tempo un pittore non dipingeva per sé. Era inconcepibile. Dipingeva solo su commissione. Dunque Tintoretto ha bisogno di commissioni. E se le procura, a qualunque costo e in qualunque modo. Alla fine, possiamo pensare che fosse dominato e posseduto da una magnifica ossessione: dipingere tutto. Far sì che in ogni contrada di Venezia, chiesa, cappella, palazzo, soffitto, facciata, sala di riunioni, altare, tribunale, restasse traccia di sé. Nascondersi nell'opera, e in essa essere in salvo. Era forse una temeraria, folle sfida alla morte. E Tintoretto l´ha vinta.

la Repubblica 25 febbraio 2012

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