1.2.17

Vasco de Gama visto dall’India (Massimo Firpo)

Maliundi (Kenya), L'approdo di Vasco deGama e il monumento che lo ricorda
Cantato come un mitico eroe antico nei Lusiadi di Luis de Camões, il poema nazionale cinquecentesco, Vasco da Gama ha nutrito per secoli l’epopea portoghese della conquista dell’oceano Indiano e del lucroso commercio delle spezie, sottratto al secolare monopolio veneziano; e con lui i grandi navigatori che lo precedettero e lo seguirono, come Bartolomeu Dias che nel 1487-88 doppiò il capo di Buona speranza, o Pedro Alvares Cabral che per primo nel 1500 sbarcò sulle coste del Brasile. E poi i grandi principi e sovrani che seppero intuire il destino del Portogallo sui mari, come Enrico il Navigatore che spedì le sue navi fino alle Azzorre, al golfo di Guinea e oltre, e soprattutto don Manuel, o venturoso, orgogliosamente intitolatosi «re di Portogallo e dell’Algarve, di qua e di là dal mare in Africa, signore di Guinea, della conquista, della navigazione e del commercio di Etiopia, Persia, India». Un’epopea forgiata già dai primi cronisti di quelle imprese, che dopo la decadenza portoghese avrebbe alimentato il nazionalismo nostalgico e reazionario che si riflette nel Monumento a los descubrimientos di Belem, sul porto di Lisbona, inaugurato in piena età salazarista nel 1960: la possente prua lanciata sugli oceani di una nave di pietra su cui si affolla un popolo guidato dal suo re. Un nazionalismo per cui Vasco da Gama rappresenta al tempo stesso l’anima, il destino, l’incarnazione del Portogallo, la cui figura non può quindi essere in alcun modo discussa.
Di poco successiva alla scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo, la circumnavigazione dell’Africa dell’ammiraglio portoghese allargò a dismisura i confini del mondo e aprì all’espansione europea una nuova era di traffici mercantili e conquiste coloniali, segnata da conflitti e violenze, da incontri e scontri di culture, da spirito missionario che i gesuiti avrebbero cercato di adattare alle religioni asiatiche. Fu la prima globalizzazione, frutto della spinta verso Est e verso Ovest alla ricerca delle isole delle spezie promossa dai re di Castiglia e di Portogallo, ultima propaggine della reconquista, del tentativo di trasferirla anche in Africa, di un tenace spirito crociato e di attese messianiche che guardavano alle esili comunità cristiane d’Oriente e al leggendario regno etiope di prete Giovanni per prendere alle spalle la potenza ottomana e sbaragliare i mamelucchi d’Egitto, padroni del mar Rosso e di Suez. Del resto, così come i cristiani definivano come “mori” i diversi popoli che si affacciavano su quel lontano oceano, ne erano a loro volta definiti come “franchi”, eredi degli antichi seguaci di Goffredo di Buglione.
Su tali vicende e su tale epopea Subrahmanyan getta lo sguardo nuovo e diverso che gli proviene non solo da una profonda conoscenza di quella galassia di etnie, lingue, religioni di ogni parte dell’Asia, di piccoli potentati arabi o indiani, di città Stato governate da re-mercanti, ma anche dall’essere nato in India, sull’altra sponda di quello che i re di Spagna e Portogallo definivano «questo nostro mare Oceano», e dal guardare quindi ad esso in una prospettiva diversa da quella europea. Altrettanto diversa da quella codificata dalla tradizionale storiografia portoghese (che non a caso reagì negativamente a questo libro, giudicandolo un attacco al cuore dell’identità portoghese) è la ricostruzione dei diversi orientamenti assunti via via dalla corona, dai conflitti tra le fazioni familiari e politiche, e con essi delle divergenti posizioni sul promuovere e poi proseguire la costosissima e rischiosa politica espansiva in Asia. E lo stesso dicasi per la mutevole collocazione dello stesso Vasco da Gama in questa fitta trama di poteri e orientamenti prima e dopo il suo viaggio, per la sua capacità di accumulare ricchezze e garantire l’ascesa sociale della famiglia, originariamente appartenente alla piccola nobiltà di servizio e con lui faticosamente approdata al titolo comitale.
Particolarmente interessante, naturalmente è la ricostruzione della lunga e difficile navigazione di quelle tre piccole navi, meno di 200 marinai in tutto partite da Lisbona l’8 luglio 1497, dirette verso le isole del Capo verde alla ricerca degli alisei meridionali e poi verso il capo di Buona speranza, doppiato a fatica alla fine di novembre, per risalire lungo la costa africana tra Mozambico e Kenya dominata da principati islamici, con continui incidenti e scaramucce, mentre lo scorbuto dilagava tra i marinai. Precoce fu la decisione di non scendere a terra se non per gli approvvigionamenti, nell’intento di mascherare l’identità cristiana, e per cercare piloti affidabili in grado di guidare le navi tra le insidie di quei mari sconosciuti. Il 7 aprile Vasco da Gama raggiunse Mombasa e poi Malindi, donde il 24 fece rotta alla volta della costa indiana, dove il 20 maggio gettò le ancore al largo di Calicut, la meta agognata. Qui si fermò fino al 29 agosto, per prendere poi la via del ritorno, tra continui scontri e conflitti con il raja Samudri, poco disposto a insediare in casa sua quello che Subrhamanyan definice un «commercio ostile». Ma ci vollero 3 mesi e altri 30 morti di stenti e malattie per far ritorno sulla costa africana, dove un’imbarcazione fu data alle fiamme per concentrare sulle altre i marinai superstiti. Solo nel luglio del 1499 una nave potè rientare nel porto di Lisbona, due anni dopo esserne partita.
Nell’ultima parte del libro si ricostruiscono i difficili tentativi di consolidamento di quella grande impresa grazie a nuove spedizioni, alle vittorie della flotta di don Alfonso de Albuquerque sulla marineria araba, alla sua conquista di Goa, Hormuz, Malacca. Un’impresa che solo la maligna rivalità di Amerigo Vespucci poté denigrare con taglienti parole di scherno: «Tal viagio come quello non lo chiamo io discoprire, ma andare pel discoperto, perché […] la loro navicazione è di continovo a vista di tere: volgono tutta la terra de l’Africa per la parte dell’austro, che è provincia della quale parlano tutti li altori della cosmografia». Quanto a Vasco da Gama, sarebbe nuovamente partito per l’India nel 1502, senza riuscire a insediarsi a Calicut nonostante il crescente ricorso alla violenza, e infine nel ’24, questa volta con il titolo di «ammiraglio dei mari dell’India» e di viceré, per morire a Cochin pochi mesi dopo, alla vigilia di Natale del 1525.


“Il Sole 24 ore – Domenica”, 9 maggio 2016

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