23.2.17

Vivant Denon (Anatole France)

Negli anni 70 del Novecento, Franco Maria Ricci affidò a Giovanni Mariotti, allora prestigioso critico letterario del prestigioso “Espresso” di Scalfari, la direzione della Biblioteca blu, i cui volumetti avevano in realtà copertine azzurre e occupavano una zona dell'immaginario che andava dall'esotico all'erotico, dall'onirico al fiabesco. Uno di quei volumetti ha un titolo che è un paradossale omaggio al cinema. All'edizione italiana di Point de landemain (cioè Niente domani o Nessun domani, o anche Senza domani, se si preferisce) Ricci volle dare un titolo che non era traduzione di quello scelto dall'autore, Vivant Denon, per il suo racconto, ma quello – in francese - di un celebre film di Louis Malle con Jeanne Moreau che da esso aveva tratto ispirazione: Les amants.
Nel volumetto azzurro si può leggere il ritratto, appassionato e ragionato, che di Dinon fece Anatole France in una prefazione che definiva "gioiello indiscreto" e "leggero capolavoro" il racconto. Ne propongo qui un ampio stralcio. (S.L.L.)

Viveva a Parigi, sotto il regno di Luigi XVIII, un uomo felice. Era un vecchio. Abitava sul quai Voltaire, nella casa che porta oggi il numero 9 e e occupata a pian terreno dal dotto Honoré Champion e dalla sua dotta libreria. La tranquilla facciata di questo edificio, e le leggere finestre ad arco, respirano una semplicità aristocratica.
Là, Dominique-Vivant Denon, già gentiluomo di camera del re, già addetto d’ambasciata, già direttore generale delle Belle Arti, membro dell’Institut, barone dell’Impero, ufficiale della Legion d’Onore, si era ritirato, dopo la caduta di Napoleone, con le sue collezioni e i suoi ricordi. Aveva sistemato negli armadi, intagliati dall’ebanista Boulle per Luigi XIV, i marmi e i bronzi antichi, i vasi dipinti, gli smalti e le medaglie raccolti in mezzo secolo di vita brillante e errabonda; viveva sorridente in mezzo a nobili ricchezze. Ai muri dei suoi salotti erano appesi un bel paesaggio di Ruysdael, il ritratto di Molière di Sébastien Bourdon, un Giotto, un fra’ Bartolomeo, alcuni Guercino, molto apprezzati allora. L’uomo che li conservava aveva molto gusto e pochi pregiudizi. Sapeva godere di tutto quanto dà godimento. A fianco dei vasi greci e dei marmi antichi, conservava porcellane cinesi e bronzi del Giappone. Non disdegnava nemmeno l’arte delle età barbare. Mostrava volentieri una figura di bronzo in stile carolingio, con pietre preziose incastonate nel cavo degli occhi e le mani d’oro, che faceva fremere di orrore le dame a cui Canova aveva insegnato le soavità della plastica. Denon si sforzava di classificare questi monumenti dell’arte secondo un ordine filosofico, e voleva pubblicarne la descrizione; saggio sino all’ultimo, ingannava l’età con nuovi progetti. Era troppo uomo del Settecento perché il sentimento non avesse posto nelle sue ricche collezioni. Possedendo un bel reliquiario del XV secolo, senza dubbio tolto da una chiesa durante il Terrore, l’aveva arricchito di nuove reliquie, e nessuna proveniva dal corpo di un Santo. Denon non aveva inclinazione al misticismo, e mai uomo fu meno adatto di lui a comprendere l’ascetismo cristiano. I monaci gli ispiravano disgusto. Era nato troppo presto per gustare da dilettante, come Chateaubriand, i capolavori della penitenza. Il suo profano reliquiario conteneva un po’ della cenere di Eloisa, raccolta nella tomba del Paracleto; un frammento del bel corpo di Inés de Castro, esiliata da un amante reale; qualche filo della barba grigia di Enrico IV, ossa di Molière e di La Fontaine, un dente di Voltaire, una ciocca di capelli dell’eroico Desaix, e una goccia di sangue di Napoleone raccolta a Longwood.
Senza discutere sull’autenticità di questi resti, c’è da dire che essi erano cari a un uomo che aveva molto amato in questo mondo la bellezza delle donne, era stato indulgente verso le sofferenze del cuore, aveva saputo apprezzare con delicatezza la poesia unita al buon senso, aveva stimato il coraggio, onorato la filosofia e rispettato la forza. Davanti a questo reliquiario, Denon poteva, durante la sua vecchiaia sorridente, rivedere tutta la vita e essere soddisfatto dell’uso ricco, vario, e felice che ne aveva fatto. Piccolo gentiluomo di forte ceppo borgognone, nato in una terra ricca di vini e naturalmente lieta, a sette anni incontrò, si dice, una zingara che gli predisse il destino:«Sarai amato dalle donne, andrai alla Corte; una bella stella splenderà su di te». Questo destino si avverò puntualmente; giovanissimo,Denon andò a cercare fortuna a Parigi. Frequentava le quinte della Comédie Française e le attrici andavano pazze per lui: vollero rappresentare una sua commedia, che non valeva molto. Denon si trovava sempre dove passava il re.
— Cosa volete? — gli chiese un giorno Luigi XV.
— Vedervi, Sire.
Il re gli accordò l’ingresso nei suoi giardini. La fortuna di Denon era fatta. Diventò presto l'incisore di madame de Pompadour. Denon sapeva disegnare e le sue incisioni erano molto piacevoli. Luigi XV amava le persone di spirito perché lui stesso lo era. Denon lo incantò con i suoi racconti. Il re lo nominò gentiluomo di camera. Quando accadeva qualcosa gli diceva: Raccontatecelo voi, Denon. Come Sheherazade, Denon raccontava, e i suoi racconti erano assai più maliziosi di quelli della Sultana. Piaceva alle donne e piaceva anche agli uomini. Dopo la morte della marchesa, si fece mandare a Pietroburgo, poi a Stoccolma, come addetto d’ambasciata; infine a Napoli dove restò, credo, sette anni. Là si divise tra la diplomazia, le arti e la società elegante. È possibile immaginare com’era durante quel periodo, guardandolo in un’acquafòrte, mentre disegna sotto un’architettura alla Piranesi. Il cappello di feltro dalle falde morbide, la larga gorgiera, il mantello veneziano, l'espressione sorridente e trasognata lo fanno sembrare uscito da una festa di Watteau. I capelli rigonfi, gli occhi neri e vivaci, il naso carnoso e all’insù, le narici delicate, la bocca ad arco e affossata agli angoli, le guance rotonde, gli conferiscono un’aria gaia, amabile e elegante, con qualcosa però di attento e di riflessivo. Incideva allora numerose tavole nello stile di Rembrandt, e fu persino accolto dall’Accademia di pittura, a cui aveva inviato un’Adorazione dei pastori, che oggi ci appare mediocre. Alle sue opere di soggetto convenzionale sono preferibili le composizioni in stile familiare, dove fece mostra di uno spirito d’osservazione non privo di malizia. La colazione a Ferney è il suo capolavoro. Cortigiano di Luigi XV, stimò un onore diventare cortigiano di Voltaire. Si presentò a Ferney e, poiché si esitava a riceverlo, fece dire al filosofo che, essendo gentiluomo ordinario, aveva il diritto di vederlo; significava trattare Voltaire da re. Da questa visita portò il quadro di cui parliamo, in cui Voltaire appare così vivo e così strano, sotto il berretto da notte, vecchio scheletro agile in veste da camera. Poi, Denon torna sotto il bel cielo d’Italia, dove il suo gusto delicato si pasce della grazia delle donne e dello splendore delle arti. Scoppia la Rivoluzione. Non se ne preoccupa, e continua a disegnare sotto gli aranci. Quando sa che il suo nome è sulla lista degli emigrati e che i suoi beni sono sotto sequestro, non esita. Quest’uomo che ama il piacere, non teme il pericolo: torna coraggiosamente in Francia. E non ha torto a fidarsi della sua abilità e della sua audacia.
A Parigi, trovò un protettore in David, e presto ottenne la simpatia del Comitato di Salute Pubblica. I suoi beni gli furono resi; fu incaricato di disegnare dei costumi. Fu amato, protetto, favorito, come ai giorni della marchesa.
Attraversò il Terrore senza dire niente, vedendo tutto, tranquillo e curioso. Passava lunghe ore al tribunale rivoluzionario, disegnando con un tratto penetrante i condannati. Oggi Danton, calmo e di una robusta volgarità, domani Fouquier che piange, e Carrier sbalordito. Chi ha visto questi disegni non li può dimenticare, tanto sono veri, espressivi, immediati. Denon osservava, aspettava. Il 9 termidoro gli fece perdere protettori che non rimpianse. La zingara gli aveva predetto l’amicizia delle donne e i favori della Corte: era stato amato, era stato favorito; gli aveva promesso una stella luminosa: anche questa promessa si sarebbe compiuta. La stella si alzava sul felice declino di una vita felice. Nel 1797, Denon incontra nel salotto di Talleyrand un giovane generale che chiede un bicchiere di limonata. Denon gli tende il bicchiere che ha in mano. Il generale ringrazia; la conversazione comincia, Denon parla con il suo brio, e in un quarto d’ora si è conquistata l’amicizia di Bonaparte.
Anche la moglie di Napoleone lo apprezza; diventa un frequentatore abituale della casa. L’anno dopo, mentre si scaldava al camino nella toilette di Giuseppina, gli venne chiesto: — Volete far parte della spedizione in Egitto?
Gli scienziati della commissione erano già partiti. La flotta doveva salpare di lì a qualche giorno.
— Sarò padrone del mio tempo e libero nei miei movimenti? — domandò.
Gli fu promesso.
— Andrò — disse.
Aveva ormai più di cinquant’anni. Durante tutta la campagna mostrò un incantevole coraggio. Con il portafogli e il binocolo a tracolla, gli strumenti per disegnare a portata di mano, sopravanzava galoppando le prime file per avere il tempo di disegnare. Sotto il fuoco del nemico, faceva degli schizzi, tranquillamente, come se fosse stato seduto al tavolo del suo studio. Un giorno che la spedizione della flotta risaliva il Nilo, scorse delle rovine e disse: — Devo farne un disegno. Obbligò i suoi compagni a sbarcarlo, avanzò nella pianura, si sistemò sulla sabbia e si mise a disegnare. Stava per terminare il disegno, quando una palla gli fischiò vicino. Alza la testa e vede l’arabo che l’aveva mancato ricaricare l’arma. Prende il fucile che ha lasciato per terra, spara sull’arabo, rimette in ordine le sue cose e torna sulla barca. La sera, mostrò il suo disegno allo Stato Maggiore. Il generale Desaix gli disse: — La linea dell’orizzonte non è dritta.
— È colpa di quell’arabo, — risponde Denon, — ha tirato troppo presto.
Due anni dopo era nominato da Bonaparte direttore generale dei musei. Non si può negare a quest’uomo il senso delle circostanze e l’arte di adeguarsi. Aveva lasciato senza rimpianto le eleganze aristocratiche per gli stivali e gli speroni. Cortigiano di un imperatore a cavallo, seguì di buon animo il suo nuovo padrone nelle campagne d’Austria, di Spagna e di Polonia. Un tempo aveva illustrato le medaglie a Luigi XV nei salotti di Versailles. Ora disegnava in mezzo alle battaglie sotto gli occhi del conquistatore, e incantava i veterani della Grande Armée con il suo elegante sprezzo del pericolo. A Eylau, l'imperatore in persona andò a tirarlo via da una piattaforma spazzata dall’artiglieria. Finita la festa, e caduto l’impero, Denon capì che era venuta l’ora di riposarsi e di invecchiare quietamente. Siamo nel 1816. Sempre amabile, sempre amato, ancora sorridente sotto i capelli bianchi, conversatore pieno di brio, riceve tutte le celebrità della Francia e del mondo nella sua casa del quai Voltaire.
L’età ha imbiancato la seta leggera dei capelli e scavato il sorriso nelle guance. Il vecchio barone sa che la sua vita è una sorta di capolavoro. Non dimentica e non rimpiange niente. Il suo bulino, che non disdegna le licenze, ricorda in tavole segrete i piaceri della giovinezza. Gli amabili racconti di Denon fanno rivivere la corte di Luigi XV e il Comitato di Salute Pubblica.
Un giorno gli fa visita Lady Morgan, la bella patriota irlandese che si trascina dietro sir Charles, marito grave e silenzioso. Il barone mostra alla giovane entusiasta i tesori della sua collezione. Lei ammira alla rinfusa vasi etruschi, bronzi italiani e quadri fiamminghi; i discorsi del vecchio che ha visto tante cose la incantano. In una vetrina scopre il piedino di una mummia, un piede di donna.
— Che cos’è?, — chiede. Il vecchio le risponde che ha trovato quel piede nella necropoli mille volte violata di Tebe dalle cento porte. — Era senza dubbio, — dice, — il piede di una principessa; nessuna calzatura ne ha mai alterato le forme.
Quando parla di una donna si anima. Ammira con tenerezza la curva elegante della caviglia, la bellezza delle unghie tinte di henné, come ancora le tingono le egiziane. Seguendo il filo dei ricordi, racconta la storia di una giovane conosciuta a Rosetta. — La sua casa era di fronte alla mia, dice, e poiché le strade di Rosetta sono strette, la conoscenza fu presto fatta. Sposa a un rumi, sapeva un po' d’italiano. Era dolce e graziosa. Amava il marito, ma amare soltanto lui non le bastava. Lui la maltrattava per gelosia. Ero il confidente delle sue pene: la compiangevo. La peste scoppiò nella città. La mia vicina la prese dal suo ultimo amante, la diede fedelmente al marito. Morirono tutti e tre. La rimpiansi; la sua strana bontà, l’ingenuità dei suoi disordini, la vivacità delle sue pene, mi avevano interessato.
Lady Morgan, che va da un vetrina all’altra, lancia un grido. Attaccata al muro, ha visto la maschera di gesso di Robespierre. — Il mostro!, — grida.
Il barone non ha di questi odi. Per lui, Robespierre era un padrone che aveva saputo conquistare, come gli altri due, Luigi XV e Napoleone. Racconta alla bella indignata come si è incontrato una notte con il dittatore. Era stato incaricato di disegnare dei costumi. Gli fu detto di presentarsi davanti al Comitato che si riuniva alle Tuileries alle due del mattino. — Andai all’ora fissata. Una guardia armata vigilava nelle anticamere appena illuminate. Fui ricevuto da un custode che si allontanò e mi lasciò solo nella sala per tre quarti in ombra. Riconobbi l’appartamento di Maria Antonietta dove, vent’anni prima, avevo servito come gentiluomo ordinario di Luigi XV. Mentre mi si affollavano i ricordi, una porta s’aprì lentamente e un uomo avanzò verso il centro della sala: era Robespierre. Alla debole luce della lampada lo vidi compiere il gesto di chi estrae un’arma. Non osai parlargli e mi ritirai nell’anticamera dove mi seguì con gli occhi. Sentii che scuoteva violentemente un campanello. Saputo chi ero, e perché venivo, mi fece fare delle scuse e mi ricevè immediatamente. Durante tutta la conversazione fu straordinariamente cortese e cerimonioso, come se non avesse voluto essere da meno di un gentiluomo di camera. Era vestito con eleganza; il gilet di mussolina era orlato di seta rosa.
Lady Morgan ascolta le parole del vegliardo; le riferirà fedelmente nelle sue Memorie, confondendo soltanto le date.
Prima di accomiatarsi vuole testimoniare a Denon la sua ammirazione. Gli chiede in che modo abbia imparato tante cose. — Dovete aver molto studiato, da giovane. — Denon le risponde: — Al contrario, Milady, non ho studiato niente, perché mi sarei annoiato. Ma ho molto osservato, perché mi divertiva. Così la mia vita è stata ricca e mai triste.
Il barone Denon fu felice per più di settantanni. Attraverso le catastrofi che sconvolsero la Francia e l’Europa e affrettarono la fine di un mondo, gustò con eleganza tutti i piaceri dei sensi e dello spirito. Fu un uomo abile. Chiese alla vita tutto quello che gli poteva dare senza mai chiederle l’impossibile. La sua sensualità si manifestava nel gusto per le belle forme, nel sentimento dell’arte e nella tranquillità filosofica; capì che la mollezza è nemica dei veri piaceri. Fu coraggioso, e assaporò il pericolo come il sale del piacere. Sapeva che un uomo deve pagare al destino tutto quello che riceve. Era gentile con tutti. Senza dubbio gli mancò l’ostinazione, il gusto delle cose estreme, l’amore delle cose impossibili, lo zelo e l’entusiasmo che sono caratteristiche degli eroi e dei geni. A quest’uomo felice mancò l’inquietudine e la sofferenza.
Scendendo la scala del quai Voltaire, la giovane irlandese, che molto aveva sacrificato alla patria e alla libertà, mormorò: — Le abitudini della sua vita non gli permisero di prendere le armi per alcuna causa. Aveva colto il difetto di quella esistenza.
Tale fu il barone Dominique-Vivant Denon. L’abbiamo ricordato a proposito di un breve romanzo intitolato Point de lendemain che di recente è stato stampato in pochi esemplari. Penso un po’ tardi che questo racconto, che è un gioiello, è forse un gioiello indiscreto, da conservare sotto chiave nelle librerie dei nostri onesti bibliofili. Meglio non parlarne qui. Dirò soltanto che non condivido le incertezze del nuovo editore che non sa se attribuire Point de lendemain a Denon o a Dorat. Questo leggero capolavoro è di Vivant Denon. Quérard e Poulet-Malassis non ne dubitavano.


Da Les amants, Lbb di Franco Maria Ricci, 1973

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