“Un cadavere vivente»:
così Benito Mussolini, Duce del fascismo ridotto dopo l’8
settembre del 1943 nella meschina Repubblica di Salò, ostaggio
dell’ex allievo e alleato Adolf Hitler, si giudica davanti
all’amante Claretta Petacci, la sola persona che gli parli da
«vivo», non da «cadavere», come uomo e politico. L’ostaggio
di Salò, Mussolini e la tragedia 1943-1945, ultimo libro dello
studioso Mimmo Franzinelli (in uscita per Mondadori), ha due chiavi.
La prima, storica, documenta, grazie a nuovi archivi da poco aperti,
la verità che troppa propaganda, fascista e no, ha occultato. Che
Mussolini fosse davvero «prigioniero» dei tedeschi, fantoccio che
non riesce a mandare un telegramma cifrato, ad avere una sede di sua
scelta, mentre le SS germanizzano il Nord Italia - a Trieste,
perfino, cancellano targhe e iscrizioni dedicate al «Duce». Le
serali telefonate clandestine alla Petacci vengono registrate,
Mussolini sospetta anche dei camerati, della moglie Rachele, del
figlio Vittorio.
Costretto in un acquario,
il Duce irride in privato la Repubblica di Salò che si batte contro
«angloamericani» e partigiani, politico troppo astuto per non
comprendere come pochi reparti, male armati e peggio schierati, non
incidano sulla campagna d’Italia. Quanto alla «Repubblica», al
fascismo «sociale» rinverdito per contrastare il tradimento del Re,
l’ex socialista e agitatore del Popolo d’Italia sa di non
affascinare più gli italiani, feriti dalla sconfitta.
Alla «prigionia
politica» si accompagna la prigionia esistenziale, seconda chiave
del saggio. Liberato dal Führer con il colpo di mano in Abruzzo, il
Duce lamenta i «sessanta anni», ripete ossessionato che «la voce
del sangue» gli rivela il tramonto del proprio «astro», del
proprio «destino». Non più capace di dedicarsi alla strategia
militare, disciplina in cui per arroganza e ignoranza mai ha
brillato, scivola nella superstizione, impreca contro il «venerdì»,
giorno che gli porterebbe male. Di venerdì, annota Franzinelli,
Mussolini finisce nelle mani dei partigiani e all’esecuzione.
È un uomo in cui sembra
di riconoscere quella che oggi chiamiamo «depressione» in senso
clinico, smarrimento dell’identità, il passato che schiaccia il
futuro. Avessimo in Italia registi come Oliver Hirschbiegel e attori
come Bruno Ganz, il libro di Franzinelli offre già - con le note a
piè di pagina e una ricca appendice di documenti - la perfetta
sceneggiatura per un film come La caduta, gli ultimi giorni di
Hitler. Mentre il Paese che ha portato in guerra senza ragioni
soffre morte, fame, deportazioni, l’ombra del Duce si trascina in
riva al Garda, schiumando di odiare i laghi, di amare il mare e i
fiumi che, colmi di energia, collegano le montagne alle spiagge.
L’acqua lacustre gli sembra metafora del marciume in cui vive.
Rachele Mussolini,
travolta dalla fucilazione del genero Galeazzo Ciano e dalla rottura
tra l’adorata figlia Edda e il padre, è per Mussolini secondina in
casa, tra amarezze e scenate. Sola resiste, ed esce nella storia con
candore di amante, Claretta Petacci. Che invita Mussolini a tornare
quello della Marcia su Roma del 28 ottobre 1922, a farsi nazista con
Hitler, mentre il fratello Marcello, uomo corrotto e impopolare, fa
perdere tempo al Duce con disegni grotteschi. Appaiono davanti a
Benito Mussolini, uomo già perfetto in quella che Curzio Malaparte
definisce nel suo libro migliore Tecnica del colpo di Stato
(Adelphi), piani da caffè di provincia, l’arma segreta
dell’ingegnere Grassi a metano liquido, l’alleanza «proletaria»
«Mussolini, Hitler, Stalin» contro le «democrazie massoniche».
Intanto la lettera di un vescovo, che chiede al Duce di intercedere
con i nazisti perché almeno i condannati a morte abbiano i conforti
religiosi negati dalle SS, non riceve risposta.
La Petacci alza il tono
con l’uomo che ama e che potrebbe esserle padre: «Guardo te: te
come uomo, te come Duce, e dico che precipiti verso la completa
rovina. Sei - inconcepibile ma vero - nello stato di nervi di prima.
Sei travolto dagli avvenimenti: non li domini. Sei soffocato nel
marasma, perduto nella nebbia di una serie di pettegolezzi, di
giudizi mal dati, di affermazioni infondate, immiserito in un
ambiente che senti inadatto al tuo spirito di comando, e che invece
di provocare in te una giusta reazione calma e fredda e decisa ti
sopraffà e ti sconvolge il sistema nervoso, per cui tu ti dibatti
come l’aquila contro la rete…». Cade Roma, città imperiale,
alla vigilia dello sbarco in Normandia nel giugno del 1944, e
Mussolini cede all’impotenza. Claretta incalza: «Io non posso
accettare un simile decadimento spirituale in un uomo che ha ancora
nelle mani i destini di un popolo, e ancora può salvare la civiltà
e la storia».
Nel dicembre del 1944,
per un solo giorno, Benito Mussolini torna «Duce». Va a parlare al
Teatro Lirico di Milano, culla del suo movimento. Ritrova lo smalto
nel comizio, tra camicie nere e gagliardetti, mentre i partigiani
sorvegliano preoccupati la piazza. Fa «politica», nega che a
tradire sia stato «il popolo italiano» come insinua la propaganda
nazista, accusa il Re, le cricche, giura che «la Valle del Po» sarà
difesa con «le unghie e con i denti», invita Germania e Giappone a
riconoscere lo sforzo bellico di Salò. È un trionfo effimero: da
Berlino l’ambasciatore Anfuso comunica che la Cancelleria non ha
gradito la velata polemica e ha censurato il testo. Il maestro del
colpo di Stato è finito.
Mimmo Franzinelli disegna
l’ultimo atto del Duce con rispetto di fatti e personaggi, con
prospettiva politica, libero dai pesi ideologici che dal 1945 hanno,
comprensibilmente, orientato la ricerca. Solo raramente la sua
scrittura cede agli orrori del tempo (una spia è definita «lurida»),
altrimenti ha distacco ed equilibrio. Come quando racconta di Priebke
e Kappler, uomini del Führer a Roma e criminali delle Fosse
Ardeatine, che con la stessa lucidità degli antifascisti migliori
spiegano nei dispacci che il consenso del fascismo è perduto per
sempre e nulla che venga da Benito Mussolini e dal regime sanguinario
e imbelle della Repubblica Sociale avrà più efficacia.
“La Stampa” 3
dicembre 2012
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