C'è una sostanza chimica chiamata scopolamina
che non ha pari al mondo come medicina
essa indurrebbe il calmo Tutankamone
a ridere e a saltare come un salmone,
e la sua mummia a farsi una bella ballatina.
da Poesie, Oscar Mondadori 1967
Politica,storia,letteratura e varia umanità. Pezzi vecchi e nuovi d'ogni provenienza. Ogni lunedì una poesia. Borghesi e reazionari, pretonzoli e codini, reggicode e reggisacchi, ruffiani e pecoroni, tremate!
C'era una buona signora. Un limerick di James Joyce
C'era una buona signora chiamata lady Gregory
che disse:"Venite a me, poeti, se siete poveri".
Parole ahimé troppo imprudenti
poiché migliaia di studenti
all'istante proruppero: "Mi annoveri! Mi annoveri!".
da Poesie, Oscar Mondadori, 1967
che disse:"Venite a me, poeti, se siete poveri".
Parole ahimé troppo imprudenti
poiché migliaia di studenti
all'istante proruppero: "Mi annoveri! Mi annoveri!".
da Poesie, Oscar Mondadori, 1967
Venerdì e Robinson. I doni avvelenati dell'universalismo occidentale (Alfonso M. Iacono)
Alfonso Maurizio Iacono,
docente di Storia della Filosofia all'Università di Pisa, viene come
me dall'Agrigentino e viene dalla cultura del Pci. So che è buon
amico dei miei antichi compagni di Fgci e di partito, ma non ho avuto
fino ad oggi la fortuna di incontrarlo di persona. Ricordo però
perfettamente – e conservo tra i ritagli – un suo intervento sul
“manifesto” in cui argomentava il suo rifiuto alla proposta di
Occhetto di trasformare il Pci in un partito democratico di sinistra.
Utilizzava un racconto di Wells, Il paese dei ciechi,
un bellissimo apologo che sembrava costruito alla bisogna. Ho preso
dal “manifesto” il testo che segue, che risale allo stesso
periodo, ampio stralcio da una sua relazione a un convegno su Dialogo interculturale ed eurocentrismo. In
genere non amo leggere testi filosofici: ho l'impressione che spesso
la gergalità e la conseguente oscurità non siano affatto
necessarie, inerenti ai problemi affrontati e al tipo di approccio
scelto, ma ricercate per escludere i non iniziati. Non accade così
per gli interventi di Iacono e in questo in particolare, che mi pare
non abbia perso nulla della sua attualità. (S.L.L.)
Lo storico Immanuel
Wallerstein ha sostenuto che l’universalismo è sia
un’epistemologia sia una fede del mondo occidentale moderno. È
un’epistemologia in quanto si basa sulla convinzione che l’oggetto
della scienza è la ricerca di affermazioni universali dotate di
senso e riguardanti il mondo fisico e il mondo sociale, e che scopo
della scienza è quello di eliminare ogni elemento soggettivo. cioè
- specifica Wallerstein - storicamente determinato. Ma è anche una
fede. E questa fede è nella verità in quanto oggetto e scopo della
ricerca. Scrive Wallerstein: «La nostra educazione collettiva ci ha
insegnato che la ricerca della verità è una virtù disinteressata,
mentre invece essa è una forma autointeressata di razionalizzazione.
La ricerca della verità (...) è stata quanto meno consona al
mantenimento di una struttura sociale gerarchica, diseguale, sotto
una serie di aspetti particolari. I processi attivati dall'espansione
dell’economia-mondo capitalistica (...) hanno comportato una
quantità di pressioni al livello della cultura (...)».
Universalismo a
mano armata
«Molti .di questi
cambiamenti furono realizzati manu militari. Altri furono
ottenuti tramite l'opera di persuasione di "educatori'', la cui
autorità era sostenuta in ultima istanza dalla forza militare. Si
tratta di quel complesso di processi che talvolta definiamo
"occidentalizzazione”. o in modo perfino più arrogante
"modernizzazione” e che furono legittimati dal desiderio di
spartirsi la fede nell’ideologia dell'universalismo insieme con i
suoi frutti».
Secondo Wallerstein
c’erano due motivi dietro questi cambiamenti culturali:
l’efficienza economica e la sicurezza politica. Da un lato appariva
necessario adeguare il comportamento delle persone alle nuove norme
culturali e privarle di quelle antagonistiche. Dall'altro si puntava
all’«occiden-talizzazione» delle élites delle aree
periferiche allo scopo di prevenire o meglio evitare possibili
rivolte.
In questa interpretazione
storica di ciò che ha caratterizzato l'affermarsi del capitalismo,
della sua cultura, della sua ideologia, la nozione di universalismo
si mostra come il risultato paradossale di diseguaglianze fra popoli
e nazioni.
«C’era una trappola
nell’universalismo. - continua Wallerstein - Esso non si è fatto
strada come una ideologia libera, ma è stato propagato da coloro che
detenevano il potere economico e politico nel sistema-mondo del
capitalismo storico. L’universalismo è stato offerto al mondo come
un dono del potente al debole. Timeo Donaos et dona ferentes!
Il dono stesso nascondeva in sé il razzismo; perché il dono dava al
ricevente due possibili scelte: accettarlo, e con ciò riconoscersi
al livello più in basso nella gerarchia della saggezza acquisita;
rifiutarlo, e con ciò privarsi delle armi che potevano rovesciare la
situazione di un potere reale diseguale».
Ogni dialogo che parta
dal riconoscimento delle diversità delle culture e abbia ambizioni
di universalità non può non assumere come presupposto la stessa
diffidenza e timore che Laocoonte espresse a proposito dei Greci
(Eneide, II, 65). Un dialogo fra diversi è altra cosa da un dialogo
fra diseguali.
Questo secondo tipo di
dialogo che si svolge tra il potente e il debole, ricorda quello che
Robinson ebbe con Venerdì. A Robinson non sorse mai il dubbio che la
lingua ufficiale del dialogo fra lui e Venerdì potesse essere altra
che la sua, l'inglese. E si fece chiamare, naturalmente in inglese.
«padrone».
Il timore, di cui ci
narra Virgilio, che Laocoonte espresse nei confronti dei Greci e dei
loro doni, è evocato da Wallerstein a proposito di ciò che il dono
dell’universalismo nascondeva: il razzismo. La questione, che di
recente è stata sollevata dallo stesso Wallerstein e da Etienne
Balibar nel libro Razza, nazione, classe, riguarda il fatto
che l’immagine di un mondo moderno teso a superare i limiti delle
appartenenze locali e a proclamare la fratellanza universale
dell’uomo sta mostrandosi sempre più illusoria e distorcente.
Soprattutto, appare difficilmente sostenibile una visione della
storia come processo verso la realizzazione e il compimento dei
valori universali quali la fratellanza, l’eguaglianza, la libertà.
E appare altrettanto difficilmente sostenibile un’interpretazione
che veda nel razzismo, nel nazionalismo, nel sessismo, aspetti
inconciliabili con il processo storico di affermazione di quei valori
universali e, al contempo, rimovibili col progredire della storia
universale. Al contrario, razzismo, nazionalismo e sessismo appaiono
come complementari all’universalismo, o per meglio dire, al modo in
cui l’universalismo è stato offerto al mondo dai popoli
occidentali moderni.
Quando Hegel descrisse il
movimento della storia universale (Weltgeschichte) come un processo
che andava da Oriente a Occidente, da una parte riorganizzò in
termini moderni la tradizionale immagine cristiana che si era
affermata con Agostino e con Orosio, dall’altra escluse, come è
noto, i «negri» da essa. Scriveva Hegel: «Chi vuol conoscere
manifestazioni spaventose della natura umana, può trovarle in
Africa. Le più antiche notizie su questa parte del mondo dicono lo
stesso: essa non ha dunque, propriamente una storia. Perciò noi
lasciamo qui l’Africa, per non più menzionarla in seguito. Essa
infatti non è un continente storico, non ha alcun movimento e
sviluppo da mostrare: se qualcosa in esso, nella sua parte
settentrionale, è propriamente accaduto, esso appartiene al mondo
asiatico e europeo. (...) Ciò che intendiamo propriamente come
Africa è quel suo essere non storico e non dispiegato, che è ancora
tutto immerso nel grado naturale dello spirito (...)».
L’avanzata verso la
storia universale ha bisogno dunque di sacrifici e di esclusioni.
Dentro la dimensione del tempo storico l’universalità si trova
nella condizione paradossale di dover definire i propri confini e
dunque di doversi affermare attraverso la negazione di ciò che la
caratterizza come tale, cioè attraverso la negazione che, in
principio, alcuna cosa possa stare al di fuori dei suoi confini.
Il razzismo
cosmopolita
Il fatto che la storia
universale possa svilupparsi teoricamente con un processo che prevede
delle esclusioni significa appunto che l’affermazione di valori
universali tramite la storia non può essere che intensiva. Perché
vi sia universalità è sufficiente che un popolo incarni per tutti
quel determinato valore. In questo senso l’universalità non
soltanto ammette delle esclusioni, ma si esprime come dominio di una
parte sul tutto. Ma non si tratta solo di questo. L’identificazione
dell’universale in un popolo esprime il bisogno di conciliare la
rottura moderna dei vincoli comunitari e locali con il mantenimento
di forme e immagini di comunità atte a offrire i processi di
formazione delle identità collettive.
Il razzismo moderno
sembra essere una forma estrema di ricerca di un’identità
collettiva costruita su confini al cui esterno è collocato l'altro
che tanto più è espulso dai confini dell’identità razzista
quanto più si sono spezzati i vincoli tradizionali tra comunità e
popoli e, dunque, quanto più si è affermato l’universalismo del
modo capitalistico di produzione.
Razza, nazione, popolo.
Non si tratta dunque di nozioni che, per così dire, resisterebbero e
sopravviverebbero all’universalismo e al cosmopolitismo moderno. Si
tratta di nozioni complementari all’universalismo e al
cosmopolitismo. Esse hanno la funzione di indirizzare l’immaginario
sociale verso la costruzione di identità sociali e di comunità atte
ad assicurare una dialettica di coesione e di divisione fra uomini
che, dentro il procedere espansivo del mercato mondiale, come
individui risultano espropriati dalle loro concrete, storiche
appartenenze locali e come cittadini diventano membri di una astratta
società formale.
Proprio all'interno di
questa scissione fra individui e cittadini, tra soggetti e regole
istituzionali, vengono a collocarsi le forme comunitarie e le
identità collettive che rafforzano i loro confini sull’estraneità
dell’altro. Quanto più l’universalismo occidentale spazza le
originarie appartenenze locali e i precedenti confini comunitari,
tanto più riemergono nozioni quali razza nazione, popolo, che,
riproducendo un’immaginaria appartenenza egualitaria, trasferiscono
le diseguaglianze interne nelle differenze con l’altro che diventa
così l’estraneo. Tali nozioni esprimono la condizione paradossale
del bisogno ineliminabile di un universo collettivo, simbolico e
culturale, che l’universalismo occidentale sembra possa soddisfare
soltanto con la produzione di ciò che esso stesso nega, cioè la
trasformazione dell'altro nell’estraneo, la sua espulsione oltre i
confini di un mondo che non dovrebbe avere di questi confini.
"il manifesto", 25 maggio 1991
Dickens. Il cinema senza macchina da presa (Mariuccia Ciotta)
A metà dell’Ottocento
Charles Dickens già prefigurava «racconti per immagini» e, senza
cinepresa, inventava «dissolvenze», campi lunghi e close-up. Poi
venne D.W. Griffiith...
Foto di scena da Oliver
Twist (1922) di Frank Lloyd
|
«... Griffith sapeva
vedere tutto con nettezza e chiarezza dickensiana così come Dickens,
dal canto suo, possedeva qualità cinematografiche, come capacità
visiva senso compositivo dell'inquadratura, primo piano e alterazione
dell'accento attraverso l'uso di obiettivi speciali». Secondo
Ejzenstejn, il cinema delle origini è tessuto con le parole e il
ritmo dell'autore del Circolo Pickwick, anzi, il cinema
americano nasce con lui quando si svincola dalla narrazione lineare e
passa al montaggio parallelo. «Come si può raccontare una storia
saltando in questo modo?» si chiede il produttore di fronte a Enoch
Arden, un corto del 1908 dove l'azione si sdoppia in due set
lontanissimi nello spazio. «Bene - disse Griffith - forse che
Dickens non scrive in questo modo?». «Sì - replicò il produttore
- ma quello è Dickens, quello è un romanzo, è una cosa ben
diversa». «Oh, non tanto poi. Questi sono racconti per immagini».
L'autore della Corazzata
Potiemkin, il teorico del montaggio, ricorda nel suo celebre
saggio Dickens, Griffith e noi - Lo sguardo indagatore, «fermo
come l'acciaio» il pioniere americano (incontrato a Los Angeles nel
1930) capace di cogliere i dettagli, di catturare con un'inquadratura
un intero paragrafo dello scrittore che a metà Ottocento prefigura
«racconti per immagini», e che senza macchina da presa inventa
«dissolvenze», campi lunghi e close-up. Quella sua meticolosa
descrizione della scena considerata da alcuni stucchevole, frutto di
una tecnica codificata ha il sapore futuribile del cinema, del
Christmas Carol di Robert Zemeckis, per esempio, capolavoro in
motion-capture 3D che trasferisce il volo notturno di Scrooge
dal 1843 al 2009 e lo fa piombare nella stanza luccicante del Natale
presente, un Santa Claus gigantesco e ridanciano, seduto su una
montagna di leccornie, visualizzata così da Dickens: «Uno
sull'altro, sul pavimento a formare una specie di trono, c'erano
tacchini, oche, cacciagione, pollame, salsicce, tortine di frutta
secca, budini natalizi, barili di ostriche, caldarroste, mele dalla
buccia rossa arance succose, pere succulente, enormi torte di fine
d'anno, tazzoni di ponce bollente che offuscavano la stanza col loro
vapore profumato» (traduzione di Ottavio Fatica I racconti di
fantasmi, ediz. Theoria). Ejzenstejn lo scopre «intimista» al
pari di Griffith, il regista di kolossal come Nascita di una
nazione e di Intolerance, e ne rintraccia il doppio stile,
«provinciale» e «superdinamico». Il riconoscimento a Hollywood
passa tra le righe di Dickens e approda a David Wark Griffith «per
dirlo semplicemente e senza equivoci: una rivelazione... per noi
giovani registi sovietici degli anni Venti». E a proposito della
vena «fiabesca» dickensiana, sostiene che «le accuse
d'inverosimiglianza vanno attribuite unicamente alla nostra...
ignoranza di Dickens», letto in età infantile e mai più analizzato
nei suoi meccanismi complessi che rimandano ai paesaggi metropolitani
inglesi, dilaniati da un'industrializzazione spietata quelli di un
Oliver rinchiuso in orfanotrofio e così affamato che «mi viene
voglia di mangiare il ragazzo che dorme nel letto accanto».
L'indignato Dickens, figlio di borghesi caduti in miseria ha vissuto
l'esperienza delle workhouse, infami reclusori, luoghi di
sfruttamento minorile, e li rievoca nei suoi racconti, «romanzi
sociali» dove l'immaginazione è il frutto dei deliri di bambini
costretti a divorare gli avanzi dei cani, ridotti ad automi,
sopravvissuti per miracolo. Prodigi suscitati dalla disperazione,
allucinazioni visive come quella del grillo parlante (rubato
da Collodi per il suo Pinocchio) di The Cricket on the
Heart, novella del 1845 trasferita sullo schermo da Griffith nel
1909. Ejzenstejn cita con ammirazione il racconto, «Si può
immaginare qualcosa di più lontano dal cinema? Treni, cowboys,
inseguimenti... e Il grillo del focolari». Sì, si può,
seguendo l'input della novella «Incominciò la cuccuma...»,- un
bricco di caffè (in originale: the kettle) che bolle sul
camino - è la chiave del primo fotogramma di tutti i tempi. «Per
quando strano possa sembrare, in quella cuccuma bollivano anche i
film. Proprio da qui, da Dickens, dal romanzo vittoriano nascono i
primi elementi dell'estetica cinematografica americana». Ma, subito
dopo, il regista russo mette a confronto due elementi antitetici, il
furore metropolitano del nuovo mondo di Griffith e «la Londra
vittoriana pacifica e patriarcale dei romanzi di Dickens»,
contraddizione risolta con una deliziosa constatazione: la velocità
del traffico e la vertiginosa fuga dei grattacieli «non esistono»,
anche New York è lenta e provinciale. Non esiste, però, neppure «la
Londra vittoriana, pacifica e patriarcale». Quella di Dickens era in
realtà una macchina stritola poveri, emarginati e operai, Ejzenstejn
lo sa bene, ma sembra prendere le distanze da Hollywood, da un
Griffith liberale e umanitario, un po' sentimentale, e da un Dickens
che amava rappresentare i buoni vecchi signori e le care vecchie dame
dell'Inghilterra vittoriana». Il grande cineasta appassionato di
Chaplin e Disney, rivendica per il cinema sovietico l'aspirazione
verso «uno stadio nuovo (socialista)», la superiorità di un cinema
anti-naturalistico, dalle profondità intellettuali, contrapposto
alla rappresentazione hollywoodiana del mondo. Era il 1944 quando il
cineasta di Riga scrisse il saggio, la guerra non era finita,
e lui vinceva il premio Stalin per Ivan il terribile parte I dopo
aver subito la censura su diversi progetti non graditi, lontani dal
«realismo socialista». La seconda parte del film (La congiura
dei Boiardi) non fu approvata e uscì postuma (1958) mentre la
terza venne sequestrata e quasi interamente distrutta. L'entusiasmo
per Dickens, Griffith e noi si spense nell'amarezza di una
rivoluzione negata. Quel «noi» si era eclissato. Ejzenstejn morì
nel 1948 (di dolore, probabilmente) all'età di 50 anni. E si può
immaginare che solo quattro anni prima il formalista russo avesse
ancora «grandi speranze», che fosse affascinato dal corpo a corpo
tra individuo e società messo in scena e in pagina dai due amati
autori, e che ne cogliesse la magnifica relazione
(politico-culturale) con il suo cinema delle grandi masse popolari.
Tanti Oliver Twist sulla scalinata di Odessa... Dissolvenza.
“alias il manifesto”,
4 febbraio 2012
“Ezra Pound, mio padre”. Intervista a Mary de Rachewiltz (Ernesto Gagliano 1986)
Ezra Pound con la figlia
Mary
|
TIROLO DI MERANO —
Al castello di Brunnenburg si arriva a piedi perché la strada è
stretta. Ma da quelle stanze, ricostruite su antichissimi ruderi, lo
sguardo scorre tra vigneti e montagne: Val Venosta, Val d’Adige e
un po’ di Val Passiria. Qui abitò per qualche tempo Ezra Pound,
quando nel 1958 lo rilasciarono dall’ospedale psichiatrico Saint
Elizabeth «in custodia alla moglie» Dorothy Shakespear.
« Viveva nella torre —
racconta Mary de Rachewiltz, figlia del poeta e della violinista
Olga Rudge — e i Frammenti,
l’ultima parte dei Cantos, li ha scritti proprio lì». Gli
piaceva stare nel castello; anche se non andava a caccia di
solitudine, preferiva «essere lasciato in pace». Detestava le
domande stupide dei giornalisti, le definizioni schematiche, l’ironia
su certe sue idee di colture agricole come quella delle «noccioline
americane». Uomo di città, credeva nella natura ed era contento di
quella figlia allevata da contadini tirolesi.
Mary de Rachewiltz, occhi
chiari e piglio cordiale, riceverà oggi il «Premio Monselice» per
la traduzione completa dei Cantos pubblicata da Mondadori nei
Meridiani: quarant’anni in cui ha mescolato affetto e poesia. «E’
stata la mia salvezza» dice. Perché? «Quel lavoro mi ha motivata,
mi ha evitato deragliamenti e anche il rischio di scrivere in
proprio». Di suo padre che cosa resta qui? Lei indica uno scaffale:
« Guardi quei libri, i suoi libri, sono tutti nei Cantos». È
l’epopea storica in cui Pound voleva raccontare il mondo — da
Omero a Churchill, da Saffo a Stalin attraverso la Cina —
ricavandone una morale universale. Un laboratorio linguistico per
evocare epoche e personaggi. Versi pieni di citazioni, allusioni,
nostalgie e rabbie.
— Quali maggiori
difficoltà ha incontrato?
«Ritrovare tutte le
fonti a cui si riferiva: la trascrizione per lui era un punto di
partenza creativo. E poi l’uso di certe parole. È stato Pound a
farmi tradurre i primi ’’Cantos”, mi aiutava a rifare la sua
poesia in italiano. Ma lui faceva a pezzi la lingua, inventava
parole. “Non si dice cosi? E’ ora che si dica!” Ad esempio,
Pound, ha inventato la parola "badogliare”».
— Che cosa le
insegnava.
«Mi diceva: "Posso
insegnarti solo il mestiere che conosco! E, naturalmente, l’etica
confuciana. Il rispetto per un certo ordine, per l’individuo, per
il bambino, non per chi pretende di avere un ruolo importante pur
seza aver fatto nulla».
Mary de Rachewiltz cita
alcuni versi del XXX Cantos: «E Kung minacciò Yuan Jang / più
vecchio di lui / Che diceva acquisir sapienza / musando lungo la
strada / E gli disse: / Vecchio idiota, smettila, / Alzati e fatti
utile». « Vede, Pound ci teneva a quel "musando" che
significava andare in giro facendo l’accigliato...». Fa un altro
esempio: There is not substitute for the lifetime, lui volle
tradurlo con: «Nulla surroga il campar».
— Suo padre, almeno a
parole, era fascista e antisemita. Lei considera troppo pesanti il
campo di concentramento e la lunga clausura nell’ospedale
psichiatrico?
«È stata pesante
l’ambiguità. Fu una follia postbellica metterlo in una gabbia al
Disciplinary Training Center, vicino a Pisa. Anche se qualcuno scrive
libri dicendo che gli piaceva quel ruolo. Certo, aveva il vantaggio
di vedere il mondo da tutti i punti di vista, anche da una gabbia per
gorilla...».
— In che senso parla di
ambiguità?
«L’accusa era di
fascismo e antisemitismo. Per un cittadino americano questo non
dovrebbe essere un crimine. Come Pound diceva: libertà di parola
senza libertà di parola alla radio vale zero. E poi lui aveva uno
spirito di contraddizione, un senso della sfida... Ma non voleva che
l’America facesse guerra all’Italia, tentò di parlare con
Roosevelt e qualcuno gli diede del matto».
— Forse non aveva
capito bene l’Italia di allora.
«L’ha idealizzata.
Mussolini gli era simpatico perché per lui rappresentava
l’italianità. Quando ci fu la campagna d’Abissinia, tuttavia,
ebbe parecchie perplessità, ma gli facevano rabbia la falsità
inglese e la plutocrazia. Guardi, aveva anche amici ebrei e di campi
di concentramento non ne sapeva niente».
Il castello di
Brunnenburg, dove visse per qualche tempo Ezra Pound
|
Mary de Rachewiltz si
accalora in un ritratto con tinte un po’ oleografiche in questa
difesa del padre che non vuole irretito da
etichette politiche. Dice che la Corte degli Stati Uniti non ha
trovato modo di restituire a Pound la personalità giuridica. «Hanno
colpito la sua opera, il suo testamento non è stato giudicato
valido... Quando era libero si è accorto di non essere libero, lo
hanno lasciato in custodia».
— Si lamentava?
«Lui non si lamentava
mai, si infuriava. Ha scritto ”With a bang not luith a whimper”,
con un’esplosione, non con un lamento...»
— Qui c’è un ricordo
di T.S. Eliot, un po’ manipolato...
«Sì, Eliot. Lo ha messo
nei Cantos. Si volevano bene. Quando Eliot è morto lui ha
detto: non c’è più nessuno che capisca un “joke”»
— Suo padre si è
pentito di qualcosa?
«Non credo che si possa
parlare di pentimento. Non si è mai pentito delle sue idee, ma se
mai di non averle espresse in modo chiaro. Non voleva del male per
nessuno. Ma quando il male lo vedeva si scagliava con parole
furenti...».
— Aveva dei segreti?
«Se li aveva erano
inconsci. Cercava se stesso, credo che si sia capito. Ci sono tante
biografie di Pound, ma la sua vita non è stata ancora scritta».
— E quel periodo di
ostinato silenzio?
«A noi dava fastidio. Ad
esempio, si era tutti a tavola, c’era gente, si aspettava che lui
dicesse qualcosa, anche una scemenza. Ma lui non diceva nulla. Credo
che mantenesse quel silenzio perché vedeva la discrepanza tra un
paradiso possibile e la natura umana».
— Era distaccato dalla
realtà?
«Non so se fosse
staccato o troppo dentro. Non era un mistico, era un credente».
— C'è un risveglio di
interesse per l’opera di Pound, anche in Francia è stata
pubblicata da Flam-marion la traduzione completa dei Cantos.
Eppure i critici sono ancora divisi: alcuni lo considerano
il più grande poeta
americano del secolo, altri un campione dell’artificio.
«Incomincia a diventare
di moda essere pro-Pound. Ora il consenso è maggiore, anche nelle
scuole strutturalistiche e post-strutturalistiche. E soprattutto lui
dà molto materiale per scrivere libri. E’ entrato nelle
Università, anche in Italia si discutono tesi».
— Esistono ancora
inediti interessanti?
«Epistolari, come le
lettere ai genitori che gettano luce sulle sue radici americane.
Adesso c’è perfino il progetto dì pubblicare in facsimile i
manoscritti dei Cantos’»
— Che insegnamento le
ha lasciato?
«L’onestà, la
sincerità. Far crescere qualcosa: sia i nipoti che i ravanelli nel
giardino».
Nel giardino è rimasto
un acero da zucchero. Pound ne aveva fatti mandare a Brunnenburg
perché nascesse una piantagione. Quella pianta è un simbolo della
sua fiducia nelle risorse naturali, negli scambi, contro
1’«imperialismo chimico» e l’«affarismo». Ma è anche
un’illusione: di lì zucchero non ne è venuto fuori.
“Tuttolibri La Stampa”,
28 giugno 1986
I diari di Marlon (Goffredo Fofi)
Pacchi di registrazioni su cassetta ritrovate, un ologramma del volto di Marlon che sembra scaturire dal mondo di là e confessarsi ai viventi, e un mucchio di spezzoni di film accuratamente scelti, di scene di lavorazione, di documenti e interviste televisivi e cinematografici. La preoccupazione principale di Marlon Brando è stata certamente quella di cercarsi interrogarsi trovarsi, nella convinzione che fosse possibile andare al fondo della conoscenza e, in sostanza, guarire, trovare la pace nell’accordo tra la propria biografia e la propria psiche, trai fatti della società e quelli della coscienza
Il film Listen to me Marlon - rispettoso e intelligente - che Steven Riley e il suo gruppo di collaboratori hanno costruito a partire dalle confessioni di Brando, da questa mole di materiale, è il tentativo di mettere insieme i pezzi seguendo in sostanza le indicazioni dell’attore, di dare unità alla parte privata e a quella pubblica della vita di un uomo celebrato e chiacchierato, che per decenni è stato al centro dell’attenzione dei media e dell’interesse degli spettatori. Ma non si tratta soltanto di una curiosità prevedibile per uno dei rari miti duraturi dello show business e della mass culture statunitense, di conseguenza un mito quasi mondiale, quel che il film di Riley finisce per suggerire - e non importa se questo era nelle sue intenzioni - è molto di più, e questo di più è Brando stesso a indicarlo, nelle sue confessioni registrate, presumibilmente a futura memoria. L’attore vi cita non a caso Shakespeare e maledice biblicamente la sua sorte, dopo aver arricchito, dice, centinaia di psicanalisti e psichiatri (e, anche se non lo dice, guru d’altro genere) e si confronta con Dio, che ci sia o non ci sia fa lo stesso, per chiedersi cos’è l’uomo, e cosa sono il bene e il male e come si mescolano e rendono difficile il distinguerli. Cosa è lui, Marlon Brando, il figlio di una madre dolce e alcolizzata, di un padre macho e violento che è stato a sua volta figlio di un padre che non lo ha amato, il giovane provinciale che diventa newyorkese negli anni che succedono a una guerra che non ha fatto in tempo a fare e che si scopre attore, e che attore!, frequentando l’Actor's Studio da allievo, ci dice il film, più di Stella Adler, figura materna protettiva ma esigente, che non di Lee Strasberg o di quell’Elia Kazan che lo porterà al successo in teatro e in cinema affidandogli il ruolo dell’istintivo Stanley Kowalski nel Tram che si chiama Desiderio. Da parte del pubblico giovanile venne allora venerato appena un po’ meno di James Dean e un po’ più di Montgomery Clift, e alla pari con l’unica giovane attrice che poté eguagliare la loro fama, Marilyn Monroe, che cadde molto prima di lui, distrutta, si può ben dire, dalla nemesi del successo che distruggerà solo più lentamente la vita di Brando.
Una fama eccessiva impedisce una vita normale, è ben noto, anche e forse soprattutto se la si è cercata, voluta. Ecco dunque i trionfi di Marlon attore nuovo, che impone sullo schermo una fisicità di inedita forza e un modo di recitare complesso, intimo e però evidente in cui la presenza fisica si impone insieme all’introspezione più accanita. Diventa il segno di un’epoca e questo gli impedisce di essere solo un attore con una vita normale. I suoi grandi film sono in realtà rari (il Tram, Fronte del porto, Viva Zapata, Il selvaggio e dopo anni di sciocchezze e rare buone interpretazioni per Penn o Huston, Il padrino e Apocalypse Now ovvero “the horror”, di Coppola, e quell’Ultimo tango a Parigi in cui Bertolucci lo guidò a essere e fare se stesso, a svelarsi e scoprirsi impudicamente e dolorosamente e bensì trionfalmente, in un incontro-scontro attore-regista che sapeva per entrambi di ossessive pratiche psicanalitiche. (Tentò anche la regia, e il film era buono anche se non lasciò molta traccia e Riley non ne parla, così come non parla dell’interesse di Brando per avere nel cinema un erede in Johnny Depp, che, tradito dalla critica quando tentò a sua volta la regia, tradì il suo mentore ed è oggi una qualsiasi pallida maschera del conformismo hollywoodiano.)
Fu il successo il suo nemico, la sua difficoltà a potersene districare, e il suo amore, nonostante tutto, per quel che il successo gli portava, anzitutto il denaro. È accaduto tante altre volte e accadrà ancora e sempre, nel contesto capitalistico dell'american way of life e della società dello spettacolo, è la condanna degli "arrivati”, destinati così spesso a fini ingloriose e addirittura tragiche.
Quel che però ricaviamo da questo film, e più che dal film dalle confessioni di Brando a se stesso ma nell’ovvia speranza che qualcuno prima o dopo potesse ascoltarle, è che egli, nonostante gli ovvi processi di autogiustificazione, fu - almeno nei suoi ultimi anni e dopo tante tragedie famigliari e una vecchiaia ingloriosa, e la perpetrata, e se conscia o inconscia è secondario, autodistruzione della propria immagine fisica - una persona molto più intelligente di quanto non si potesse pensare. Per questo il film di Riley è un giusto complemento alla visione dei suoi film migliori, e la dimostrazione che Brando è stato la tragica vittima di una cultura dell’ego e della fama, a lungo consenziente e alla fine spietatamente cosciente del proprio fallimento e della difficoltà di trovare risposta alle domande, metafisiche come sociali, che non angosciano gli stupidi soltanto fin quando pensano di essere più forti della condizione comune e della comune, umana fragilità.
“Il Sole 24 ore – domenica”, 15 novembre 2015
30.3.17
Olimpiadi. Tosi e Consolini: epiche battaglie tra i duellanti del disco (Gianni Brera)
Adolfo Consolini e Giuseppe Tosi |
Per oltre vent'anni, dal
38 al 60, l'atletica italiana ebbe i suoi dioscuri nei discoboli Tosi
e Consolini. Venivano entrambi dalla campagna ed erano della medesima
schiatta celtico-lombarda: Tosi della riva destra del Ticino di
Novara, dove peraltro si erano insediati - nel Mille a.c. - i liguri
Laevi; Consolini, della riva veronese del Garda.
Tosi, di nome Giuseppe,
ignorava lo sport prima che, da carabiniere, fosse prescelto quale
corazziere del re. Era così alto ed imponente che, rifacendomi alla
letteratura epico-avventurosa, lo paragonai subito a Porthos. Gli
ficcarono un disco in mano quando era già espanso di trippe sopra le
gambe del longilineo. Nonostante che lo stile concepito da Comstock e
Oberweger fosse maledettamente costretto in dogmi abbastanza
arbitrari, capì subito quello che doveva: coordinato come pochissimi
al mondo, riuscì a tener la pedana a dispetto delle gambe assai
lunghe e conseguì risultati squillanti, ma per sua sfortuna marcia,
davanti a lui piroettava da tempo Consolini. Se Giuseppe Tosi era
Porthos, Adolfo Consolini era Aramis, però maggiorato di qualche
buon palmo in lungo e in largo. Soffriva molto il suo nuovo sanguigno
avversario dal vocione virile, motteggiatore bonario e perciò
efficace (perché non vi era ombra d'invidia nel suo modo di fare):
lui, Adolfo, aveva una voce in strano contrasto con la sua possa
scultorea: talvolta gli si rompeva in gola strappando cordiali risate
a Giuseppone, che non si dava pace di venir superato per sola virtù
di tecnica. Era comunque un bellissimo duello, tale da chiamare in
causa Freud e persino Pende, famoso endocrinologo pugliese.
Contro ogni apparenza,
Consolini era fragile come una fanciulla e la preponderanza pallica
di Tosi lo sconvolgeva fino a fargli spropositare i ritmi e le mosse.
Così accadeva che, dopo aver raggiunto distanze mondiali in
allenamento, Consolini perdesse malamente in gara con Tosi, che lo
annichiliva dall'alto del suo smargiasso agonismo. Fra i due, c'era
Giorgio Oberweger, longilineo di ingegno anche sottile. Suo padre era
stato funzionario austriaco: a Trieste aveva sposato un'istriana e
messo al mondo lui, che la prestanza fisica aveva subito indotto a
fare sport. Riusciva in tutto, nella corsa ad ostacoli e nel salto
con gli sci, nel nuoto e nel lancio del disco. Lo presero al Guf
Bologna e ne fecero un dilettante di Stato sui generis. Quando
venne iscritto alle Olimpiadi di Berlino, Giorgione Oberweger non era
ancora naturalizzato italiano: a Berlino trovò le due balene
americane, Carpenter e Dunn, e non potè andar oltre il terzo posto
con 49 metri e rotti. Poi, fece ben altro, non esclusa la guerra.
A Napoli superò il
record del mondo ma i giudici non gli credettero! Guardavano evoluire
un aereo: non si accorsero del punto in cui era caduto il disco e
quando pretese che appuntassero il picchetto, gli risero in faccia:
"Neh, guagliò, ma quello sarebbe 'o record do mondo!".
Oberweger se ne andò via per non piangere e maledisse il collega
aviatore che da Capodichino era venuto a distrarre quei coglioni
ineffabili. Oberweger fece il cacciatore in Africa e abbattè anche
degli spitfires con un aereo che non li valeva. Fu il solo a
confessarmi di aver dato penosamente di stomaco dopo aver volteggiato
a lungo nel cielo per scampare alla morte e magari infliggerla ai
nemici. Con Oberweger ho vinto tante Olimpiadi, stando seduto a
tavola, che quando mi garantì che ne avrebbe vinta un'ennesima con
Livio Berruti non gli credetti guari: presi note per non offenderlo
ma poi andammo insieme a pescare boccaloni con zio Pietro Petroselli
e mi dimenticai di scrivere e pubblicare l'intervista. Berruti fu il
mio primo glorioso abatino. Non vinse con due metri come giurava
Oberweger, però si aggiudicò l'Olimpiade e corse due volte i
duecento metri in venti secondi e cinque che era primato mondiale,
nello stesso pomeriggio! Io amo in Pietro Paolo Mennea la mia
disperata bruttezza di scorfano italiota; ammiro la sua ascesi
agonistica e se non temessi di esagerare direi che la venero: ma
corridori belli come Livio Berruti felicemente espresso dalle nostre
risaie mai sono riuscito a vederne in mezzo secolo...
Dicevo prima di Freud e
di Pende. Oberweger venne detronizzato da Consolini squittente come
fanciulla pudica nel suo poderoso torace fidiaco. Gli insegnava e
imponeva regole folli, legate a mosse non molto dissimili da quelle -
astruse assai - di Mirone: solo quando sbagliava, notai, Consolini
faceva risultato! Il giorno che riconquistò il primato mondiale,
all'Arena ricordo benissimo di averlo maledetto per aver chiuso con
il disco troppo vicino al fianco: anch'io evidentemente ragionavo
secondo i dogmi comstockiani: poi, per chissà quali misteriosi
impatti, il disco prese a volare in alto roteando nell' aria senza
uno sgarro: planò oltre la metà del campo di calcio: venne misurato
il lancio: era di 55,27: con Tosi, esterrefatto, era anche Emile
Zatopek, forse il più strabiliante hilaris demens dell'intera
atletica mondiale.
Oberweger cercò di
incistare nel proprio inconscio il "fastidioso proiettile
Consolini": il dottor Sigmund parla in questi casi di
"rimozione" ma è termine improprio: niente si può
rimuovere se non con il bisturi: se una cosa sgradevole rimane
dentro, la devi forzatamente incistare: e Ober cercò di farlo
servendosi di Tosi e della sua pelle generosa. Tosi batteva Consolini
di almeno due metri a Perugia, durante la preparazione per Londra
1948. I dioscuri si rilanciavano l'attrezzo stando ciascuno sulle
soglie dell'area opposta: e Tosi annichiliva Consolini. Lo vedemmo
trionfante, allora, Ober ed io: dimenticammo però un particolare:
che lanciavano fuor di pedana, sul campo di calcio, e che posando
anche l'orlo di una scarpetta sul cerchio della pedana sarebbe stato
lancio nullo. Per Londra, era da temere Fortune Gordien, americano
sbruffone (o forse furbo, chissà: gli avrà pure detto qualcuno di
Aramis-Consolini e delle sue virginee trepidazioni). Gordien lanciava
normalmente sui 54 e andava dicendo che avrebbe cavato il titolo
olimpico da uno dei suoi lanci come suo padre prestidigitatore cavava
il coniglio dal cappello a cilindro. Solo Tosi aveva i cinquanta
metri nel braccio e nelle gambe non Consolini: ed Oberweger ed io
speravamo che Tosi battesse Gordien.
Quel fatidico giorno
piovve abbondantemente. Dalla pedana si schizzava fuori al minimo
accenno di piroetta veloce (per sfruttare la forza centrifuga). Il
solo a restare bene in pedana era Consolini, che aveva il centro di
gravità più basso rispetto ai due avversari. Volendo forzare,
Gordien non infilò che nulli. E Tosi gli fu appena superiore.
Consolini vinse con una misura che oggi fanno anche gli allievi,
oggi. Modestamente, ci vidi un segno del destino una strizzatina di
Apollo se non addirittura di Ercole semi-divino. Tosi fu medaglia
d'argento e ne rimase molto smorfiato. La pioggia lo aveva tolto di
mezzo, lui come Gordien lo sbruffone. Aramis Consolini conquistò il
titolo olimpico ed ebbe mezzo milione in premio dalla Fidal. Poco
dopo, ricevetti da lui presso il giornale un assegno di 25 mila lire
in segno di riconoscenza "per averlo sempre sostenuto e
incoraggiato". Nonché offendermi, la cosa mi commosse molto.
Rimandai l'assegno a quegli che era ormai un impiegato della Pirelli
e mi dissi spiacente di non poter accettare il suo amichevole dono:
un giorno, chissà, gli avrei chiesto di aiutarmi ad acquistare un
impermeabile con ragionevole riduzione...
Racconto questo
episodietto per dire quanto fosse onesto anzi candido Consolini. Io
non fui di un mignolo superiore a Carletto Uboldi, cursore mancato
della prima maratona olimpica: infatti, ho restituito il dono
precisando che io - e non altri - avrei dovuto mandare un assegno al
più grande discobolo della nostra storia. In seguito, Consolini
riconquistò il primato mondiale e fu secondo a Helsinki, dove era
convinto di poter vincere ancora. Due anni prima, a Bruxelles, aveva
puntualmente trionfato nei Campionati europei.
Erano giorni splendidi.
La vecchia "Gazzetta" faceva tiratura per l'atletica
leggera, cosa mai successa nella sua storia. Oberweger aveva
preparato Consolini e Tosi con lo stesso impegno (ma chi aveva letto
Freud sapeva dell'agognata rimozione). Io avrei tanto voluto che Tosi
vincesse finalmente un titolo degno della sua enorme classe e mi
concertai con un amico e collega ad esercitare dooping su di lui
(dooping è termine olandese e penso che significhi raddoppiare).
Ahimè: ero tanto mal pratico di queste diavolerie che pensai
bastasse propinare a Porthos il doppio della mia consueta razione di
pillole al fosforo e alla vitamina C per scatenarne la titanica
potenza (una ineffabile madame Bovary svizzera mi aveva insegnato
quel dooping: sulla scatoletta triangolare, in vendita presso tutte
le farmacie, erano solennemente promesse force endurance
energie). Porthos mi guardò dubbioso con i suoi occhi azzurri da
sopravvivente longobardo: si accorse che volevo sinceramente aiutarlo
e inghiottì pari pari. Poi scese in pedana muggendo come un Miura e
giostrò con tale furore che il disco, ad ogni veemente chiusura,
usciva sfarfallando dalla sua manona ciclopica. Breve: non azzeccò
un solo lancio degno della ciclonica potenza espressa in quei
vortici: il regolarista Consolini fu ancora primo e Porthos, senza
malanimo, si rassegnò a una sorte insopportabilmente ingiusta con
lui. Forse, nella sua fondamentale onestà, ebbe a spiegarsi
l'insuccesso con la innocente gherminella chimica: era così
intelligente che tutto poteva servire a consolarlo di vivere.
"La fortuna così
vuole" ripetè Porthos scuotendo il capo, e ne rise come una
certa sera che, ammiccando verso un cespuglio in ombra mi sussurrò:
"La Nina sta violentando Adolfino!". Sgranai tanto d'
occhi. Eravamo a Oslo, in occasione degli Europei 1946. La Nina era
priopriamente la gèante di Baudelaire e Porthos muggiva,
letteralmente, all' idea di non dormire, nonchalamment, à
l' ombre de ses seins. La bellissima Nina lo respingeva, pur
sorridendogli grata. Georgiana, forse contadina, evidentemente
obbediva ai criteri di selezione applicati dagli allevatori del suo
paese. Così, scelse il campione d' Europa, non il suo secondo. Forse
non aveva nemmeno letto Dumas e non sapeva di Aramis. Adolfo entrò
squittendo fra quei cespugli e obbedì ai doveri di classifica.
Giuseppe Tosi ed io ci bevemmo sopra. Che altro fare? Finalmente,
arrivò spennacchiatissimo Adolfo a dividere gli ultimi sorsi.
Scuotendo il capo con un sospiro spiegò: "xe sta ela che g'ha
vorsù". Porthos guardò il soffitto e bestemmiò, acre, tutti
gli dei del cielo.
“la Repubblica”, 24
luglio 1984
Cosmogonia. Una poesia di Jorge Luis Borges
Né tenebra né caos. La
tenebra
richiede occhio che veda,
come il suono
e il silenzio richiedono
l'udito,
e lo specchio, la forma
che lo popola.
Né spazio né tempo. E
neppure
una divinità che
premedita
il silenzio che anticipa
la prima
notte del tempo, che sarà
infinita.
Il gran fiume di Eràclito
l'Oscuro
non ha intrapreso il corso
irrevocabile
che dal passato va verso
il futuro
e che va dall'oblio verso
l'oblio.
Qualcosa già patisce. Qualcosa implora.
E poi la storia
universale. Ora.
---
Ni tiniebla ni caos. La
tiniebla
requiere ojos que ven,
como el sonido
y el silencio requieren
el oído,
y el espejo, la forma
que lo puebla.
Ni el espacio ni el
tiempo. Ni siquiera
una divinidad que
premedita
el silencio anterior a
la primera
noche del tiempo, que
será infinita.
El gran rio de
Heráclito el Oscuro
su irrevocable curso no
ha emprendido,
que del pasado fluye
hacia el futuro,
que del olvido fluye
hacia el olvido.
Algo que ya padece.
Algo que implora.
Después la historia
universal. Ahora.
Da La
rosa profonda, Adelphi, 2013
29.3.17
Ottocento. Roma Capitale: l'invasione dei “buzzurri” e il ponte di Ripetta (Lucio Caracciolo)
1878. Costruzione del Ponte metallico di Ripetta (Pinterest - Collezione Roma sparita) |
Dio ha maledetto Roma
Capitale? Il dubbio che una divina jettatura pendesse sull'Urbe
nacque appena due mesi dopo il fatidico 20 settembre 1870: le acque
giallastre del Tevere sfondarono gli argini a Ponte Molle e nella
città bassa, irruppero attraverso Porta del Popolo nel centro
storico, quasi a lavare l'onta inflitta dall' Italia laica al
millenario privilegio papale. Fiorì allora sui fogli "neri"
e sulla bocca di beghine, bigotti, semplici popolani, la leggenda
della "maledizione divina" su Roma italiana. Il governo di
Sua Maestà provvide poi - con una certa flemma - a bloccare il
flagello delle inondazioni, fortificando gli argini del Tevere.
Nondimeno una qualche sorta di malocchio continuò a incombere sulla
città, tanto da indurre già Ricasoli a chiedersi se vi fosse
"dunque in questa Roma una fatalità, che deve rendersi
maledetta per l'Italia".
Fatto è che l'idea di
Roma - suprema missione unitaria che appassionò i più diversi
esponenti del Risorgimento, da Cavour a Mazzini, da Garibaldi a
Gioberti - per l'Italia è restata un mito astratto. La crescita
della Capitale è una vicenda di continui fallimenti di Stato e
Comune nel tentativo di orientarla secondo un progetto. È ormai più
di un secolo che Achille - la mano pubblica - s'affanna sulle tracce
di un'inafferrabile tartaruga - la speculazione privata. Di questa
corsa a handicap cominciamo qui a tracciare una cronaca certo non
esaustiva, sperando di illuminare, attraverso alcune storie
esemplari, cause e meccanismi di una "fatalità" nient'
affatto "celeste".
Converrà anzitutto
tenere a mente che la Roma finalmente ricongiunta alla patria non ha
nulla delle grandi capitali europee. Non gli ampi boulevards e
i moderni palazzoni ministeriali, non le industrie con l' annesso
squallore degli slums. Roma sorge come una gigantesca fattoria
in una campagna malsana e paludosa. Scrive un testimone del tempo:
"Di notte il silenzio della Città Eterna è punteggiato di
continuo dal canto dei galli, da ragli di asini e belati di pecore.
Pare d'essere in una città d'agricoltori, e questa impressione è
largamente confermata di giorno, dai branchi di pecore e di capre che
lasciano chiari segni del loro passaggio anche nelle strade
principali". Ancora nella seconda metà del secolo la malaria
miete le sue vittime ben dentro la cinta d'Onorio, a piazza del
Popolo, al Colosseo, al Viminale.
Roma è rimasta, grosso
modo, quella del Seicento, divisa come ai tempi di Nerone in
quattordici rioni. Duecentomila abitanti s' accalcano a Borgo, a
Trastevere e nell' ansa del Tevere tra piazza del Popolo e il Circo
Massimo. Il viandante che s' avventura per le anguste strade
cittadine resta stordito dal contrasto fra il fascino dei monumenti e
lo stato di abbandono delle case e delle vie, meandro inestricabile e
spesso impraticabile. Il marciapiede è considerato un lusso
transalpino; quei pochi esistenti sono in verità trappole per pedoni
distratti, essendo sistemati su dislivelli di un metro e più che si
aprono come baratri davanti ai piedi dei passanti. L'esiguo traffico
di carri, botti o sgangheratissimi omnibus ippotrainati s'ingolfa
improvvisamente intorno al Corso, che le colonnette patrizie,
irrinunciabile simbolo di dignità araldica, riducono a un
accidentato percorso di slalom speciale.
Il fondo stradale è
evocato dalle cronache come uno strumento di tortura che "storpia
chi si attenta a muovervi un passo, taglia il tomaio delle scarpe,
graffia ed iscorza le vernici delle ruote e, penetrando fra i quarti
delle unghie dei cavalli, azzoppa e fa barcollare le povere bestie".
La “Gazzetta di Firenze” annota malignamente che se i piedi
potessero votare per la Capitale d' Italia, certamente non
eleggerebbero la Città Eterna. E le case? Se escludiamo i palazzi in
pietra degli aristocratici, esse offrono un colpo d'occhio ben
misero. Sembrano tante casupole di campagna addossate l'una all'altra
dalla mano di un architetto cieco o folle. Luride e spesso
fatiscenti, emanano un insopportabile lezzo di cavolo - prodotto
dall'abbondante uso di erbe cotte, tipico della dieta romanesca - il
quale a suo tempo ispirò a Stendhal appassionate invettive contro le
abitudini igieniche dei quiriti.
In questa Roma attardata
convivono blandamente alto clero e plebe indigente, nobiltà e
piccolissima borghesia. La gran parte dei romani vive d'espedienti,
fra la certezza della broda elargita dagli ospizi di mendicità e la
chimera d'una vincita al lotto, la via più corta dalla miseria alla
ricchezza. Il solo ceto vagamente assimilabile alla borghesia
mitteleuropea è quello dei "mercanti di campagna", gli
affittuari del latifondo pontino. Tolta una manciata di botteghe di
fabbriferrai che in qualche statistica assurgono al rango di
industrie, e quei pochi lanifici che fino al 1870 vegetano dietro lo
scudo dei dazi pontifici, non v'è traccia d' industria.
Roma sembra dar ragione
ai suoi più astiosi avversari, per i quali la città è destinata a
vivere alle spalle del mondo, "prima con la preda, poscia con lo
scrocco". Per Roma l' arrivo degli italiani è una rivoluzione.
Un equilibrio secolare è stravolto. Mentre Pio IX si esilia nei
palazzi vaticani, donde scaglia anatemi contro i "figli di
Belial", "rappresentanti della più velenosa bava d'
inferno", in città si riversa un'orda di "buzzurri",
soprannome non benevolo (significa "venditori di castagne")
con cui i popolani designano i loro liberatori. Da Firenze arrivano a
migliaia gli impiegati dello Stato. Dall'alta Italia accorrono
commercianti, finanzieri, speculatori, attratti dal miraggio di una
nuova capitale da costruire. Dal Mezzogiorno ecco premere un esercito
di braccianti, accattoni, avventurieri, avvocati. Roma è un sogno a
buon mercato, una promettente California. L'ondata d'immigrazione
triplica in poche settimane il prezzo degli affitti. Il Comune è
costretto a requisire financo i fienili. Cantine e sottoscala vengono
disputati come alberghi di lusso. Un foglio locale segnala che
all'albergo della Ghiffa, a piazza Montanara, si spendono pochi
centesimi per dormire "con tutt' er comido", cioè soli in
un letto, e quasi nulla per un materasso sul quale nel corso della
notte possono adagiarsi altre due persone. I meno fortunati
s'accomodano a frotte sulla scalinata di Santa Maria Maggiore, in
aperta campagna, buscandovi le febbri.
Che ne sarà di questa
città arretrata e infida? Raggiunta infine la meta dei padri del
Risorgimento, l'"arca del nostro patto", l'"ara del
nostro dritto", gl'italiani s'accorgono di non saper bene che
farne. Un uomo solo - un "alpinista solitario", come ama
definirsi - sembra avere le idee chiare: Quintino Sella, industriale
di Biella, intellettuale e uomo di governo fra i maggiori della
Destra storica. La sua voce parla alto: "Non è soltanto per
portarvi dei travet, che noi siamo venuti in Roma!". Roma è per
Sella sinonimo di civiltà e di progresso; l'Italia ha emancipato la
sua capitale dal dominio clericale per farne il centro della scienza.
"La scienza per noi a Roma è un dovere supremo", proclama
lo statista piemontese. "Fuori i lumi! Fari elettrici anzi
devono essere, imperocchè abbiamo a che fare con gente che si chiude
gli occhi e si tappa le orecchie, abbiamo a che fare con gente che
vuol pigliare i giovani fin dall'infanzia, avviarli alle proprie
scuole secondarie e poi vuol dare a costoro i più alti uffici che si
possano affidare all'umanità".
Dunque è chiaro: occorre
costruire ex novo "una Gran Roma italiana che faccia equilibrio
a Roma papale". In termini urbanistici la direttiva selliana
significa edificazione di nuovi quartieri sui colli, soprattutto
Esquilino e Viminale (qui devono sorgere i grandi centri di ricerca
scientifica), e nell'area intorno a via Venti Settembre, modernamente
concepita come "asse attrezzato" lungo il quale si
scaglioneranno i ministeri. Simbolo della nuova capitale è l'enorme
palazzo del ministero delle Finanze, vero tempio della burocrazia,
innalzato per volere di Sella a pochi passi da Porta Pia. A perenne
monito contro le mire reazionarie del clero temporalista, Sella
suggerisce di erigere nel cortile del palazzo un monumento al
centurione romano, che piantando l'insegna esclami: "Hic
manebimus optime!".
L'utopia selliana di Roma
"cervello supremo della nazione", città della burocrazia e
della scienza, non inquinata da una "soverchia agglomerazione di
operai che considero pericolosa e sconveniente", è troppo
astratta per resistere all' assalto dell'immigrazione di massa e
della speculazione fondiaria. Il piano di Quintino Sella sarà
travolto, proprio quando cominciava a realizzarsi, dall'espansione
indiscriminata dell'edilizia privata, vera padrona di Roma. Ben prima
che il Comune possa varare nel 1873 il primo piano regolatore, la
febbre edilizia comincia a stravolgere il volto della città. La
grande finanza internazionale, piemontese, toscana, si getta alla
conquista dei terreni. Nascono nuovi imperi finanziari. La Compagnia
Fondiaria Italiana diventa nel 1875 proprietaria di un terzo della
superficie compresa entro le mura urbane, estendendo i suoi
possedimenti intorno all' Esquilino e a Porta Pia. Qui sorgono i
primi "casermoni", mastodonti di cinque-sei piani destinati
agli impiegati ministeriali. La Italo-germanica si accaparra
centomila metri quadrati al Castro Pretorio e ai Prati di Castello,
dove ha grossi interessi anche la Banca di Credito romano. Non più
di sei o sette gruppi capitalistici monopolizzano in breve il mercato
dei suoli e degli immobili. Il Comune cerca di regolare la spinta
all'urbanizzazione "selvaggia" col sistema delle
convenzioni, che in teoria dovrebbe basarsi sul reciproco vantaggio:
il municipio appalta terreni, concede incentivi, provvede a costruire
strade, fogne, condutture di acqua e gas, e ne affida l'edificazione
a imprese private, che costruiscono, secondo i loro tempi e le loro
necessità, case a reddito continuo. Quanto al piano regolatore, vale
poco più di un pezzo di carta. A che serve accennarvi uno schema di
sviluppo urbano monodirezionale, indirizzato sui quartieri alti,
quando la stessa giunta approva un ordine del giorno in cui il piano
regolatore è ridotto a "piano di massima", mentre si
avverte che "il Consiglio si riserva di discutere partitamente
ogni tratto di lavoro allorquando verrà l'opportunità dell'
esecuzione"? Mentre il Campidoglio "si riserva" o deve
fare i conti con sedicenti architetti che, fiutata la possibilità di
guadagno offerta dalle necessità di una nuova capitale, si lanciano
in ardite proposte come quella di impiantare la Camera dei Deputati
al Colosseo, coprendolo con una volta di cristallo, le imprese
immobiliari spadroneggiano. Non è ancora entrato in vigore il piano
regolatore, e già il Comune ha firmato sette convenzioni per
quartieri localizzati al di là delle mura cittadine.
La partita decisiva tra
gruppi privati e pubbliche istituzioni si gioca sulla riva destra del
Tevere, attorno a un terreno melmoso invaso da ortaglie e vegetazione
spontanea, incassato fra Monte Mario e la fortezza di Castel Sant'
Angelo: i Prati di Castello. Un consorzio di finanzieri di
Francoforte, Amsterdam, Vienna, Torino, Napoli e Roma vi ha subito
individuato il cuore della futura città e ha acquistato a prezzi
agricoli quell' area paludosa. Nel 1872 l'architetto Cipolla presenta
su incarico del consorzio il progetto di un grande quartiere
residenziale, solcato da un boulevard che dovrà collegare
Piazza del Popolo a Piazza San Pietro, sventrando il Borgo. Due ponti
collegheranno il nuovo quartiere al centro storico. Stato e Comune si
incaricheranno di rafforzare gli argini del Tevere per impedire le
inondazioni. Accogliere questo progetto significherebbe stravolgere
l'idea dello sviluppo unidirezionale verso Est, sostenuta dai
proprietari di quelle aree, da Sella e dalla maggior parte dei
pubblici amministratori. La commissione tecnica del Comune si orienta
perciò a riservare i Prati di Castello per "grandi piazze,
fiere di bestiame, ippodromi, mercato di commestibili, locali di
pubbliche esposizioni, stabilimenti di bagni e cose simili".
Sulle pendici di Monte Mario si progetta addirittura un "Tivoli",
un enorme Luna park servito da una funicolare.
La contesa fra
"prataroli" e "monticiani" (i fautori dello
sviluppo sui colli) è anche l'occasione di un'aspra disputa
politico-ideologica. A favore di Prati si schierano i liberali
radicali, i mazziniani, gli anticlericali intransigenti, Garibaldi in
persona. Costoro vedono nel futuro quartiere borghese a ridosso di
San Pietro una sfida laica contro il "papa prigioniero".
Lì, a un passo dai sacri palazzi, l'Italia moderna costruirà un
Palazzo di Giustizia, emblema della civiltà liberale, monito contro
le velleità temporaliste del clero. Campione di questo partito è
dal 1872 il sindaco Luigi Pianciani, democratico mazziniano, che non
perde occasione per denunciare l'oppressione spirituale del "prete".
Per contro la stampa clericale e l'opinione pubblica moderata
considerano la riva destra del Tevere un "cuscinetto" fra
Italia e Vaticano, fra la Roma tuttora devota al papa re e i
"buzzurri" che si stanno installando nei quartieri alti. Lo
scontro resta impregiudicato per lunghi anni. Il piano regolatore del
1873 esclude in via di principio l'edificazione dei Prati, salvo
prevedere per essi un "piano speciale di ampliamento". Il
progetto Cipolla è respinto dal Consiglio comunale perché "astratto
e quasi speculativo", come con raffinata ambiguità s'esprime un
membro della giunta. È chiaro che la riva destra del Tevere non
potrà accogliere in eterno paludi malariche e piante selvatiche, ma
la prassi pilatesca del Comune facilita l' urbanizzazione "spontanea"
pilotata dai trust finanziari.
Non scegliendo il Comune, scelgono infine i privati, i quali non acquistarono certo 65 ettari di terreno edificabile per coltivarvi broccoli o cavoli. E allora, siccome in Prati non sarà possibile costruire nulla fintanto che non sarà possibile un collegamento diretto con la sponda sinistra, i proprietari delle aree perdono la pazienza: nel 1878 costituiscono una società-ombra e affidano alle officine Cottrau di Napoli la costruzione di un ponte di ferro a Ripetta. Prima, i romani che avessero voluto attraversare il Tevere a quell'altezza non disponevano che della celebre barca di Toto, mitico fiumarolo che deteneva il monopolio dei traghettamenti in quel tratto d'acqua. Da tempo immemorabile Toto trasportava al di là della corrente i pochi romani che s'avventuravano nella selva di Prati. Solo la domenica il traffico s'infittiva: borghesi e ministri, aristocratici e popolani s'imbarcavano su quel barcone a fondo piatto per guadagnare le osterie suburbane e gustare le "fittuccine al pomidoro", il pollo spezzato "alla padella" o l'abbacchio alla cacciatora. Il ponte di ferro spazza via Toto e, quel che è più grave, l'antico porto di Ripetta. La via ai Prati è aperta. In pochi anni sorge dal nulla un quartiere residenziale per decine di migliaia di abitanti. È la fine dell'espansione orientata solo verso Est. D'ora in avanti Roma crescerà sempre intorno al suo centro antico, a macchia d' olio.
Non scegliendo il Comune, scelgono infine i privati, i quali non acquistarono certo 65 ettari di terreno edificabile per coltivarvi broccoli o cavoli. E allora, siccome in Prati non sarà possibile costruire nulla fintanto che non sarà possibile un collegamento diretto con la sponda sinistra, i proprietari delle aree perdono la pazienza: nel 1878 costituiscono una società-ombra e affidano alle officine Cottrau di Napoli la costruzione di un ponte di ferro a Ripetta. Prima, i romani che avessero voluto attraversare il Tevere a quell'altezza non disponevano che della celebre barca di Toto, mitico fiumarolo che deteneva il monopolio dei traghettamenti in quel tratto d'acqua. Da tempo immemorabile Toto trasportava al di là della corrente i pochi romani che s'avventuravano nella selva di Prati. Solo la domenica il traffico s'infittiva: borghesi e ministri, aristocratici e popolani s'imbarcavano su quel barcone a fondo piatto per guadagnare le osterie suburbane e gustare le "fittuccine al pomidoro", il pollo spezzato "alla padella" o l'abbacchio alla cacciatora. Il ponte di ferro spazza via Toto e, quel che è più grave, l'antico porto di Ripetta. La via ai Prati è aperta. In pochi anni sorge dal nulla un quartiere residenziale per decine di migliaia di abitanti. È la fine dell'espansione orientata solo verso Est. D'ora in avanti Roma crescerà sempre intorno al suo centro antico, a macchia d' olio.
la Repubblica, 18 novembre 1984
Inghilterra, l’ultimo gioco in città. Scopri in che classe stai (Roberta Carlini)
Frotte di capi azienda, e
neanche un addetto alle pulizie. La prima notizia della più grande
indagine sulle classi sociali mai compiuta è che hanno risposto alla
chiamata soprattutto gli abitanti dei piani alti. La seconda è che
il gioco appassiona, e tanto. Lo racconta Mike Savage, il
sociologo-antropologo inglese che ha ideato e diretto il progetto
contando sul potente supporto tecnico (e mediatico) della televisione
pubblica inglese. «Quando la Bbc ci ha convinto ad aiutarli a
disegnare la loro indagine sul web, davvero non avevamo idea
dell’interesse che avrebbe generato. Chi mai poteva preoccuparsi di
dedicare venti minuti del suo tempo a rispondere a una batteria di
oscure domande sui propri interessi, attività nel tempo libero,
gusti culturali, reti sociali e situazione economica?».
Risposta: 161.000 persone
in poche settimane, solo nel primo round del questionario. Quantità
poi raddoppiata con la seconda puntata dell’indagine, giustamente
(data l’ampiezza) battezzata Great British Class Survey. Quando
poi, sulla base di quei risultati – che già in sé davano un
dataset tra i più ampi mai avuti a disposizione da uno studioso, da
indagini di questo tipo – il team di Savage con il supporto tecnico
della Bbc ha elaborato il “class calculator”, gli esiti sono
stati ancora più sorprendenti: sette milioni di persone sono entrate
nel sito per calcolare esattamente qual è la propria posizione
sociale.
Tutti a teatro
Ai ricercatori del gruppo
di Savage (London School of Economics) sono state riferite scenette
strane: gruppi di pendolari sui treni che confrontavano i rispettivi
risultati al gioco delle classi; e finanche simulazioni scolastiche,
nelle quali gli studenti replicavano in aula gli schemi su cui
avevano sudato i sociologi ispirati nella costruzione della propria
indagine dal pensiero di Pierre Bourdieu. Un altro aneddoto racconta
che nella prima settimana del sondaggione web le vendite dei
biglietti del teatro a Londra sono schizzate in alto del 191%:
essendo la frequentazione dei teatri uno degli elementi che andava a
misurare il “capitale culturale”, che insieme a quello delle
relazioni sociali e (ovviamente) al background economico era preso a
criterio di misura per riscrivere le nuove classi sociali del XXI
secolo.
Cosa era successo? Gli
inglesi sono impazziti per le classi? Casi editoriali come il
bestseller mondiale di Thomas Piketty e la sua megastoria delle
diseguaglianze, episodi politici come gli strani socialisti
rimbalzati sulla scena politica anglosassone, o anche successi più
pop come Downton Abbey, serie tv ad alto concentrato di questioni di
classe, avevano già fatto capire che la materia scalda, eccome.
Provando a distanziarsi
dal sorprendente exploit della propria ricerca, Savage medita che
«simbolicamente, la classe è un parafulmine delle ansie provocate
dalla discrepanza tra la nostra condizione economica e le nostre
aspettative». Così scrive il sociologo, nel libro da poco uscito
che, a due anni di distanza dalla kermesse on line, tira le fila di
quella ricerca. Il volume, Social Class in the 21st Century
(Penguin books 2015), ha un titolo speculare a quello del best seller
di Piketty (Il capitale nel 21mo secolo, Bompiani 2014), e
volutamente: sappiamo che le diseguaglianze nella nostra parte di
mondo sono aumentate, quel che vorremmo capire è come questo
allargarsi della forbice tra ricchi e poveri ha cambiato e riscritto
la gerarchia sociale.
Savage e i suoi usano la
mega -indagine fatta con Bbc per tracciare questa mappa, e arrivano a
dividere il nuovo panorama sociale in sette classi. Dunque,
dimenticate il piccolo mondo antico nel quale c’era un’alta
società, un ceto medio e poi la classe operaia: nella nuova
classificazione, quel che somiglia di più al passato è l’élite,
e lo strato inferiore che adesso viene chiamato “precariato”; nel
mezzo c’è un mondo dai contorni sfumati e – questi sì – un
po’ ansiogeni.
Anche perché, come si è
detto in Italia per l’inflazione (quando c’era), c’è una
differenza tra la classe “percepita” e quella reale, e tutto il
gioco tira in ballo aspetti e aspettative che vanno ben oltre il dato
meramente economico.
I campioni del
campione
Un primo indizio di
questa complicazione c’è già nella fisionomia dei rispondenti, e
in quell’assenza, citata all’inizio, dei lavoratori delle
pulizie. Non c’è nessuno che tira a lucido la casa perfetta in cui
tutti vorremmo abitare? Falso, ovviamente. Così come è falso
pensare che 4 inglesi su 100 fanno i Ceo, gli amministratori delegati
di una qualche società: eppure le risposte al sondaggio on line
diedero questo risultato, con i Ceo sovrarappresentati di almeno 20
volte, una generale iper-presenza degli esperti (professionisti,
scienziati, ricercatori, giornalisti), e una sparuta pattuglia di
servizi basici. Per non parlare di etnie e geografie: presentissimi
bianchi e londinesi, sottostimati i non bianchi, assenti Irlanda del
Nord e Scozia. Dunque, il campione della “Great Britain Class
Survey” (Gbcs) non è rappresentativo, ma le sue stesse distorsioni
sono significative. Ovviamente vanno corrette, e questo avviene
integrando i dati del campione con quelli di altre indagini e dei
censimenti: che ci permettono per esempio di dire che l’élite, la
classe al top che nel campione Gbcs pesava per il 22%, è in realtà
il 6% della popolazione.
Ma allo stesso tempo la
survey consente di entrare nelle caratteristiche di ciascuna
classe, in particolare grazie al set di domande fatte nella ricerca,
che vanno a valutare non solo il “capitale economico” (reddito e
ricchezza) ma anche i gusti, gli interessi e le attività culturali,
nonché la rete di relazioni sociali, familiari e associative di
sostegno.
È qui l’interesse
principale – e la fonte del maggior rimescolamento – della
ricerca. Per fare un esempio: se un nullatenente vince 1 milione di
sterline alla lotteria, non è che lo troviamo dal giorno dopo
nell’élite. In altre parole: «La classe sociale è collegata alla
diseguaglianza. Ma non tutte le diseguaglianze economiche sono una
questione di classe». Pesa «il bagaglio storico dei vantaggi
accumulati nel tempo».
E allora eccole, le sette
classi del XXI secolo, in ordine decrescente negli inferi sociali:
l’élite, poi una classe media spaccata in due (tra quella
tradizionale e consolidata, e quella “tecnica” arrivano al 31%
della popolazione), i nuovi lavoratori benestanti (15%), la classe
operaia tradizionale (14%), i nuovi lavoratori del terziario (19%),
il precariato (15%).
L’élite non coincide
con l’ormai famoso “top 1%”, quelli che stanno sul gradino più
alto nella scala della ricchezza e del reddito: a fare lo status ci
sono anche, oltre a soldi case e patrimoni, lo score dei contatti
sociali e il capitale intellettuale, sia tradizionale che emergente.
Ne consegue che all’élite così definita appartiene il 6% della
popolazione britannica, reddito medio annuo di 89.000 sterline,
risparmi a 142.000 e valore della casa sulle 325.000 sterline; assai
concentrata a Londra, con età media di 57 anni e una percentuale di
minoranze etniche al suo interno del 4%. Al polo opposto, il
“precariato” (definizione preferita a quella di underclass), che
pesa per il 15% della popolazione, con reddito annuo di 8.000
sterline, patrimonio prossimo allo zero, punteggi bassi in tutti gli
altri campi (tranne che nel capitale culturale emergente, nel quale
sta un po’ sopra la vecchia classe operaia). Età media: 50 anni. I
giovani invece stanno soprattutto nella classe emergente nei servizi.
Età media 32 anni, sono quasi un quinto della popolazione.
I nuovi lavoratori del
terziario sono economicamente e come status al di sotto nei nuovi
professionisti balzati in alto della net economy (che piuttosto si
trovano nella classe media tecnica e nei nuovi lavoratori
benestanti), guadagnano pochino ma comunque più della classe operaia
tradizionale (21.000 sterline l’anno, contro 13.000), non hanno
case né patrimoni ma hanno un alto capitale di relazioni sociali e
il più alto punteggio di tutti in “capitale culturale emergente”.
Mentre i nuovi lavoratori “benestanti” e la classe media tecnica
hanno molti più soldi che non contatti e libri.
Emergenti ma
sfigati
Insomma, se la classe non
è acqua non è neanche così trasparente e limpida, quando andiamo a
mettere dentro tutti i markers, non solo quelli economici. Pure, dal
puzzle delle classi sociali del XXI secolo emerge qualcosa di chiaro:
la polarizzazione tra élite stratosferica e precariato infimo; lo
spargimento della vecchia classe media in tanti rivoli, in su e (di
più) in giù; e l’emersione di una nuova categoria: giovani colti
ben connessi tra loro e abbastanza poveri. Sembra di vedere qualcosa
di familiare? «Non è una novità neanche per il mondo anglosassone,
la laureata che va a fare la commessa», commenta il sociologo
Antonio Schizzerotto, uno dei maggiori studiosi della composizione e
dei movimenti delle classi sociali in Italia. Che però preferisce un
ancoraggio maggiore – come da scuola tradizionale – a ciò che
definisce strutturalmente una classe: l’economia, il lavoro che
fai. Le altre variabili, quelle culturali e relazionali che
caratterizzano il lavoro di Savage, vengono dopo, dice Schizzerotto.
«Quello che è successo è che, in molti Paesi tra i quali il
nostro, il settore che si è espanso di più è quello dei servizi
non manuali a basso livello di qualificazione». E magari quei lavori
sono stati occupati da persone con una istruzione superiore al
necessario. Con una catalogazione diversa, quella tradizionale che va
dagli imprenditori e liberi professionisti ai lavoratori manuali non
qualificati, anche il risultato della ricerca di Schizzerotto per
l’Italia accende un faro su quelli che qui si chiamano “impiegati
esecutivi e lavoratori non manuali del terziario”: unica classe
cresciuta, nel passaggio dalla generazione nata nel ’54-’59 a
quella nata dal ’70 all’85. Nel primo gruppo, erano circa il 15%,
nel secondo sono quasi il 19%. Un effetto della mancata crescita del
sistema economico: «Solo le fila del proletariato dei servizi si
stanno ingrossando».
Pagina 99, 30 aprile 2016