“Posto” con una certa
commozione le pagine (tratte dal settimanale “Pagina 99”) di una
scrittrice siciliana che – secondo i miei parametri – visto che
ha l'età dei miei figli è giovane. Di lei avevo letto pochissimo,
una o due recensioni nel domenicale de “Il Sole 24 Ore”, buone ma
non memorabili. E invece questo reportage di un viaggio nel lecchese
alla ricerca del Manzoni, che è anche un viaggio nel suo romanzo, un
confronto con il suo monumento, una interrogazione sull'essere
italiani e voler essere scrittori, mi è parso cosa assai pregevole,
nel suo piccolo un capolavoro, che raccomando a tutti gli
appassionati di belle lettere. (S.L.L.)
Villa Manzoni a Lecco |
La cucina tipica di Lecco
è indiana. O almeno è l’idea che me ne faccio quando, saltata giù
a metà tragitto dal regionale che dal capoluogo lombardo arriva fino
a Tirano, decisa a trascorrere una giornata sul ramo del lago di Como
che volge a mezzogiorno, cerco su Tripadvisor i ristoranti
consigliati. Altro che polenta e stufato, oggi Renzo e Lucia
godrebbero insieme a me di un riso alle mandorle e curry,
scambierebbero quattro chiacchiere con l’oste in turbante dai
lunghi baffi all’insù e Tramaglino brinderebbe: «Al pane –
pardon, al chapati – ci penserà la Provvidenza».
Gli entusiasti di
internet non sbagliano: ceno dando le spalle al lago, annego
nell’amaranto agrodolce della salsa, e intanto riavvolgo il nastro
delle ultime ore passate a camminare dentro e fuori il romanzo che ha
fondato l’Italia, mettendo in fila i luoghi da sempre immaginati e
finalmente calpestati.
Il viaggio è cominciato
così, chiedendo semplicemente dove fosse Villa Manzoni. Lecco è
piccola, giro con la cartina fra le mani, sono certa di andare nella
direzione giusta, ma ugualmente voglio domandare, interrogare la
gente. Facce perplesse, qualche indicazione approssimativa e infine
il consiglio migliore: chieda del centro commerciale, quello tutti
sanno dov’è.
A quanto pare la casa
paterna di don Lisander, come affettuosamente i lombardi chiamano
Alessandro Manzoni, è di fronte all’attrattiva principale del
luogo, la brutta costruzione moderna con le punte dritte al cielo per
fare il verso alle Alpi: lì dentro famiglie e comitive trascorrono
il tempo libero spingendo carrozzine, mangiando tacos, comprando
scarpe nuove, proprio come in ogni parte d’Italia. Che ingenua sono
stata a immaginare che la vita qui girasse intorno a un concittadino
immortale, come se non venissi da Messina e non sapessi che anche lì
il nome di Antonello non costituisce un’associazione immediata,
come se i suoi quadri più importanti non li avessi visti io stessa
in una mostra a Roma. Dico al cuore di stare a bada, di stare in
pace, ché tutto quello che sa dei Promessi sposi non c’entra
con l’urbanistica, «Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello
che è già accaduto», scriveva Manzoni e lo sapeva di nuovo Giorgio
Bassani, che scelse queste righe, di poco precedenti l’Addio monti,
come implacabile esergo del Giardino dei Finzi-Contini.
Ecco, la casa. Dopo
essere passata sotto un ponte e aver calpestato un marciapiede troppo
stretto per i pedoni, ne merito la visione: una villa dai muri
scrostati e dal giardino anonimo, ripiegata su se stessa, quasi a
scusarsi di essere sopravvissuta. Avrei dovuto prenotare la visita ma
ho sfidato la Provvidenza e ho vinto: niente oceano di scolaresche,
niente fila, niente spintoni, non devo tirare fuori un libro per
ingannare l’attesa, non c’è nessuno né prima né dopo di me.
Pago cinque euro in cambio dell’avvertenza che, nonostante il
prezzo pieno, la mia visita sarà monca, la pinacoteca è in
ristrutturazione, non potrò salire al primo piano per visitarla;
intanto al pianterreno un senso di vuoto, di scomposta dismissione
disturba ogni stanza. A prendersi l’attenzione è soprattutto la
culla del neonato Alessandro.
Secondo il volantino, fra
queste mura il futuro scrittore trascorse gli anni della nascita,
dell’infanzia e dell’adolescenza. In realtà, stando a quel
dovizioso scrigno di pettegolezzi che è La famiglia Manzoni di
Natalia Ginzburg, il bambino passava insieme al padre solo poche
giornate estive, in pausa da soggiorni più lunghi come quelli, molto
frequenti, nella casa contadina della balia a Malgrate, nei dintorni.
Qui invece siamo in
città, come mostra il plastico dell’epoca (non c’era quasi nulla
sul lago, solo campi su campi, ma la storica dimora dei Manzoni
sembra incastonata lì da sempre); per la precisione, ci troviamo nel
quartiere Caleotto, Caleòt in dialetto, la residenza festiva del
conte Pietro Manzoni.
Cesare Beccaria, insieme
all’amico Pietro Verri, individuò in lui, nobiluccio di campagna,
il marito ideale per la figlia Giulia. Pietro Manzoni aveva
quarantasei anni, era vedovo, senza figli, un gentiluomo minore,
naturalmente noioso agli occhi di un’indomabile rampolla di città
cresciuta in mezzo alla cultura pulsante dell’epoca, invaghita di
Giovanni Verri, fratello minore di Pietro, che non poté sposare
perché non abbastanza ricca, perché un matrimonio fra le due
famiglie, pure molto amiche, era improbabile. Con il conte Pietro
nulla funzionò mai, neppure all’inizio, nessuna illusione dorata
neanche per cinque minuti: Giulia Beccaria era troppo giovane, troppo
irrisolta e troppo disattenta ai bisogni di lui, incapace di essere
madre e amare il loro unico figlio, come rivela il ritratto di Andrea
Appiani in cui non le sfugge il minimo istinto di tenerezza per il
piccolo Alessandro che tiene sulle ginocchia, guarda altrove, verso
una felicità che non coincide neanche per un attimo con gli obblighi
familiari.
A Giulia servirono
vent’anni per riconciliarsi con il figlio, il tempo di rifarsi una
vita all’estero e soprattutto il tempo che quel bambino crescesse,
non più peso da accudire ma giovane uomo da portare in società,
maritare bene e coinvolgere nella conversazione brillante. Giulia,
regina dei salotti illuministi, amava l’arte e l’Europa, odiava
sia la casa umida del marito sui Navigli che la residenza campagnola
di Lecco, e odiò il padre per averle rifilato quel Pietro, tanto
diverso da lei. Lo lasciò per andare a vivere a Parigi col suo nuovo
uomo, Carlo Imbonati, bello, ricco e anticonformista; il padre
Cesare, con cui aveva sempre avuto un rapporto difficile, morì
all’improvviso lasciandole in eredità un cognome e un libro
osannato, Dei delitti e delle pene, così che la sua indubbia
intelligenza potesse godere di un inattaccabile biglietto da visita
per la società francese che tanto le piaceva.
Intanto, in Lombardia,
l’ingrigito conte Manzoni subiva la fine di un’epoca: quella del
suo secondo matrimonio, ma anche quella di una città assediata,
ormai confusa e decadente. Si rifugiava sempre più spesso nella casa
di campagna al Caleòt, dove raramente godeva della compagnia del
figlio che veniva a trovarlo dal collegio: un bambino non utile ai
genitori, una zavorra che ricordava a entrambi l’unione improbabile
che li aveva resi infelici. Mi sembra di vedere quel figlio
imbronciato e solo, tra le stanze paterne, alla ricerca di uno spazio
che gli somigli un po’.
* ** **
Non basterebbe
quest’immagine a rendere più simpatico agli studenti del secondo
superiore, oggi, l’autore del romanzo che sono costretti a
studiare? Mille anni prima di diventare il cattolico conservatore di
mezza età che li guarda da un ritratto distante, c’era un figlio
di separati, un ragazzino goffo e male amato, a caccia di ribellioni
che avrebbero potuto aiutarlo a trovare la propria identità
all’interno di una variegata famiglia ingombrante. A scuola, dai
preti, Alessandro si rifiutava di scrivere con la lettera maiuscola
le parole «papa» e «re», era il suo modo di dichiararsi contro,
di manifestare un entusiastico illuminismo, ma anche di attirare
l’attenzione di genitori distanti fra loro e da lui, presi da sé
stessi, una ragazza insoddisfatta che cercava disperatamente di
essere felice e un uomo col complesso di mediocrità barricato dentro
un piccolo mondo al tramonto.
Le notizie che arrivavano
dal collegio suonavano minacciose e amare, impensierivano il padre
sulla sorte e la disciplina del suo unico erede, finché, tagliandosi
all’improvviso il codino, Alessandro contrariò Pietro
definitivamente: se penso al conte che riceve la notizia dagli
insegnanti costernati del collegio non posso fare a meno di
sovrapporgli l’espressione di mia madre quando, negli anni Novanta,
tornai da Londra con il piercing al naso.
* ** **
Se neppure le
disubbidienze e i dolori del giovane Alessandro convincono i riottosi
quindicenni di oggi che l’incubo scolastico per eccellenza è stato
uno di loro, bisognerà provare con le parole che Umberto Eco
scriveva nel 1983: «C’è di che riconciliarsi con I promessi
sposi. Quel signore era forse poco simpatico, malgrado i buoni
uffici di Natalia Ginzburg. Ma il libro di quel signore, che bello!
Leggetelo e rileggetelo, ragazzi, sotto il banco, mentre il
professore parla d’altro. Vi invito a una lettura clandestina di
Manzoni, come se fosse un libro proibito. Forse lo amerete». Eco
chiude così l’analisi del primo capitolo, un’ampia panoramica
con carrellata, una discesa a volo d’uccello dai monti al lago con
gli occhi di una telecamera d’eccezione: la Provvidenza. Manzoni
sta facendo del cinema, insiste il professore per spiegare il motivo
di paragrafi tanto lunghi. Capito, ragazzi? Non è sfoggio sintattico
buttato lì per appesantirvi con l’analisi del periodo, è la scena
iniziale di un colossal.
Ho voglia di godermela
quella scena, ora che posso farlo dal vivo, ho voglia di comprare i
popcorn camminando di fronte e dentro lo schermo
tridimensionale del romanzo, mentre fuggo dalla triste dimora di
Pietro, la lascio alle spalle per andare incontro all’acqua
lacustre, al ponte Azzone Visconti, il ponte «che ivi congiunge le
due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa
trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda
rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive,
allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi
in nuovi golfi e in nuovi seni».
È una tiepida giornata
di primavera, c’è la luce nitida e ossidata dei pomeriggi che
vengono dopo un accenno di pioggia; le case e i posti che turisti,
studenti, professori di lettere e beniculturalisti chiamano «i
luoghi manzoniani» mi si snodano intorno in un continuo gioco fra
ciò che è reale e ciò che bisogna indovinare, come la “presunta”
casa di Lucia. Le presunte case in realtà sono due: una nella
frazione di Olate e l’altra in quella di Acquate. Lucia, però, non
abita più qui: un personaggio talmente poco contemporaneo che è
impossibile rintracciarlo oggi negli sguardi maliziosi e già adulti
delle adolescenti. Una ragazza mi dà le indicazioni per Pescarenico,
ha la pelle nera e un forte accento lombardo. Ringrazio e mi
incammino verso quello che Manzoni descrive come un borgo di
pescatori per vedere dal vivo quel che resta di un luogo per qualche
tempo sparito, il convento dei Cappuccini nato alla fine del
Cinquecento, soppresso nell’Ottocento e da poco restaurato. La
chiesa è intitolata ai santi Materno e Lucia, quest’ultima
probabilmente aggiunta in omaggio a Manzoni: non trovandosi più
Lucie sul territorio, si invocò la santa. Qui stavano i frati
Cristoforo e Galdino, alle spalle del monte Resegone; in piazza
(«piazza Fra’ Cristoforo») un ossario ricorda i francescani morti
di peste nel Seicento. Prima che faccia buio, torno verso il centro;
lungo i nuovi golfi e seni dell’Adda, gli abitanti di una
benestante cittadina lombarda vanno a correre per tenersi in forma
dopo il lavoro, o portano i cani a fare i bisogni.
* ** **
Alberto Arbasino, che sui
Promessi sposi ha scritto una brillante e precisa critica alla
mancata carica erotica del romanzo dando a Rodrigo dell’imbranato e
a Lucia della grulla, in Lombardia fantasma racconta le coste
lecchesi come i luoghi che diedero i natali a Plinio il Vecchio,
«quell’inverosimile Borges dell’antichità», nato a Como nel 23
d.C.
Arbasino condensa in
poche righe la geografia lacustre con il suo carico di natura e
cultura: «Comincia forse da quelle remote Follies pliniane,
ai margini dei boschi appena percorsi da Norme e da Druidi, quel
freddo delirio barocco settentrionale che inventerà la botanica
frenetica della vigna di Renzo e il donchisciottismo bibliografico di
Don Ferrante, fra i tanti mulini a vento sventolanti spagnolissimi
entro la cerchia dei Navigli; e il riciclaggio della pestilenza in
sottoprodotti edificanti all’ombra del nasone di San Carlo
Borromeo; e la mnemotecnica penitenziale dei Sacri Monti arredati
come Viae Crucis nazional-popolari ai confini della Riforma, con
raccordi e svincoli di Passione & Morte e belvedere con pic-nic
rustico sul Calvario…».
* ** **
In quell’ora in cui
l’acqua si fa grigia e i monti si incupiscono, mi muovo fra
campanili e alpi scoscese con le ultime promesse di neve in cima; la
proverbiale depressione lacustre è amplificata dall’incontro con
la depressione di provincia, ben visibile dietro i sorrisi, le borse
dello shopping, i tacchi alti al pomeriggio, le passeggiate veloci
lungo l’unico rettilineo del corso.
I luoghi manzoniani, a
parte le funeree stanze di Villa Manzoni, sono tutti esterni:
facciate, profili, prospetti di case private, il contrasto tra il
palazzotto di Don Rodrigo e il castello dell’Innominato, ovvero il
castello di Samasca. Quest’ultimo, fuori città, sovrasta il lago,
mentre il primo ci si nasconde in mezzo; la differenza emblematica
fra i due proprietari viene fuori fin dai nomi, il «castellaccio» e
il «palazzotto» («castellotto» in Fermo e Lucia, a rimarcarne la
cuginanza), l’imponenza principesca e la feudalità rurale.
Alessandro Manzoni non descrive mai niente per uno scopo decorativo,
sconosce l’ornamento statico dello stile, rappresenta per narrare
un’azione, un distacco o un sentimento, così nel raccontare le due
dimore ci spiega che Rodrigo si mischia col popolo per far pesare la
sua superiorità, è un prepotente e un ostentatore, mentre
l’Innominato fugge la folla per bearsi della solitudine che solo la
ricchezza può dargli. Rodrigo è un provinciale, l’Innominato un
vero uomo di potere. Eppure com’è umano quel provinciale grezzo,
dai desideri capricciosi, che si invaghisce di una donna senza avere
il coraggio di andarsela a prendere, né l’ossessione che lo
porterebbe a tormentarla di persona, preferendo delegare ogni mossa a
un’altra strada, al bivio dei Bravi, a minacciare un parroco senza
arte né parte (e ha ragione Arbasino a sottolineare che il suo
comportamento non è per nulla erotico, né romantico).
* ** **
Nell’aria nebbiosa
della sera, avviandomi verso il ristorante indiano, resta il
rimpianto degli interni che posso solo immaginare. Secondo Italo
Calvino, I promessi sposi, il romanzo degli illetterati, ha una trama
sottotestuale molto forte tutta incentrata sulle biblioteche. La
parola scritta è minacciosa e negativa, la cultura è corruzione,
saper leggere e scrivere rimane il modo migliore per imbrogliare:
Azzecca-garbugli parla difficile per intimorire i clienti e truffare
la legge, la biblioteca di don Ferrante è il museo della falsa
scienza, mentre è un po’ più aperta l’Ambrosiana fondata da
Federigo Borromeo. Calda, seppur limitata, la biblioteca del sarto
che ospita Lucia dopo la conversione dell’Innominato, esempio di
casa popolare dove l’editoria ha bussato per lasciare solo tre
libri, i best seller dell’epoca: il Leggendario dei santi,
il Guerrin Meschino e i Reali di Francia.
Allora devio, rubo altro
tempo e faccio un giro per le librerie di Lecco, me ne piacciono
soprattutto due: la sezione dell’usato in una di catena, dove mi
carico a dismisura di classici e non resisto a un cd di Paolo Poli
che legge I promessi sposi (lo sto ascoltando anche adesso
mentre scrivo), e la bellissima neonata libreria Volante, fondata da
due trentenni, Serena e Andrea. Fuori dalla porta ci sono libri
appesi per la collottola, volanti per l’appunto, la libreria si
trova in una piccola strada secondaria e mi sembra un ottimo trucco
per incuriosire i passanti; dentro, Serena ha creato uno scaffale per
l’Italian Book Challenge, la sfida dei lettori che in un anno
vogliono leggere cinquanta libri che rispondano a cinquanta categorie
diverse, alcune più banali (un libro pubblicato nel 2016, uno che ti
faccia ridere) e altre più creative (uno in cui il protagonista
faccia il tuo stesso lavoro, uno che racconta un fallimento). Ogni
lettore sceglie per sé, ma Serena ha avuto l’idea di suggerire
cinquanta titoli diversi tra cui pescare, che immagino modifichi di
settimana in settimana con i nuovi arrivi.
Ce ne sono molti, e
interessanti, ma il romanzo di quel signore concittadino non c’è,
continua a dover essere letto di nascosto, a scontare la colpa di
essere studiato ogni anno per volontà ministeriale. Eppure è
talmente versatile che potrebbe stare in molte di quelle categorie: è
scritto da più di cento anni, fa ridere, parla di libri, racconta un
viaggio, ne è stato tratto un film, è ambientato nella tua regione…
Tutti i lettori lecchesi che hanno più di quindici anni potrebbero
usarlo per partecipare al gioco proposto dai librai, e invece niente.
L’anatema dell’imposizione scolastica colpisce ancora, non si
riesce proprio a liberarlo dal ruolo, a considerarlo un libro come
gli altri. Un po’ perché non lo è, come non lo sono Ivanohe
e Don Chisciotte. Voglio dire, non puoi inventare il romanzo
moderno e poi cercare di mimetizzarti: resterai il totem monumentale
che i giovani scrittori vogliono abbattere, convinti che la
tradizione non contenga eroi sufficientemente ribelli con cui
identificarsi.
Forse solo il libro Cuore
di De Amicis si è preso più invettive dei Promessi sposi,
chissà don Lisander che direbbe del paragone, chissà che direbbe di
questo fatto curioso, di aver scritto il romanzo più importante
degli ultimi secoli, quello da cui non si può prescindere e che
quindi nessuno ha voglia di nominare. A parte, s’intende, qualche
coraggioso come l’ingegner Gadda, che ne era ossessionato. Racconta
Pietro Citati che in punto di morte gli chiese di leggergli e
rileggergli l’ottavo capitolo, la notte degli imbrogli in cui
succede tutto, i cattivi tramano e i buoni anche, si consuma il
distacco dal paese natio, si prova l’intera gamma dei sentimenti
dalla paura al dolore. È facile immaginare che, mentre stava per
lasciare questo mondo, Gadda per rimanerci attaccato chiedesse aiuto
al sussulto dei colpi di scena, all’ansia divoratrice che ti fa
chiedere soltanto come va a finire la storia quando non vuoi pensare
a come va a finire la vita. Mangio indiano e penso che una giornata è
poco, è nulla per capire Lecco, figuriamoci per ripensare la
geografia di un monumento come I promessi sposi, domani devo
ripartire presto, prima o poi voglio prendermi un altro giorno per
tornarci con calma. Il punto, con don Lisander, è che questo giorno
dura da più di vent’anni, periodicamente riapro il suo romanzo e
torno a farci i conti, l’ultima me lo sono portato dietro sulla
Salerno-Reggio Calabria, sbirciandolo sul sedile posteriore di una
macchina accanto a mia cugina quindicenne. Che, ovviamente, leggeva
un best seller contemporaneo e mi guardava inorridita.
Quando mi chiedono
perplessi, increduli, ma davvero quel libro ti piace tanto?, quando
mi guardano come se li stessi prendendo in giro, quando mi confessano
per l’ennesima volta di averlo subito a scuola e averne avuto
rigetto, di aver provato a rileggerlo da soli e non averci trovato
nulla di speciale, confesso di essere stata fortunata, per averlo
scoperto e amato presto, da sola.
* ** **
Oggi si classificano gli
scrittori dividendoli fra quelli che preferiscono la trama e quelli
che scelgono la lingua, e spesso lo si fa sottintendendo che una è a
discapito dell’altra, come se a un narratore corresse l’obbligo
di impoverire il linguaggio e un devoto dello stile potesse
permettersi di fare a meno di far capitare nella sua storia eventi
che seducano l’attenzione del lettore. Quando si afferma che uno
scrittore inventa una lingua, di solito è una banalità: tutti i
libri ne inventano una o più d’una, bisogna vedere quanto poi
saranno condivise al di là dei loro venticinque lettori. Alessandro
Manzoni l’italiano l’ha inventato per davvero, e inventandolo
sceglieva di scrivere per tutti, distanziandosi dai dialetti per
finire ovunque, anche nella biblioteca di un piccolo sarto di Lecco,
senza rinunciare a costruire un grande romanzo storico e insieme
d’amore, di formazione e d’avventura, dove trovano posto l’etica
e la poesia, l’ironia e la compassione.
L’estate prima del mio
quinto ginnasio trovai in casa una copia dei Promessi sposi
non commentata, scritta in corpo piccolissimo e anche bruttina. Ero
spaventata all’idea che mi sarei annoiata a leggere un solo
romanzo, che per altro non mi ispirava affatto, e che quel tedio mi
avrebbe tenuta occupata per tutto un lunghissimo anno tenendomi
lontana dai miei fumetti e dalle riviste per adolescenti che mi
piacevano, così decisi di prendere il programma scolastico in
contropiede attaccandolo da sola, con la segreta e secchiona speranza
di portarmi avanti con lo studio. Quattro giorni dopo ero ancora sul
divano, incollata a quelle pagine. Lo lessi come leggevo i romanzi
per ragazzi, come avevo letto L’isola del tesoro, La
figlia del capitano e i primi gialli di Agatha Christie.
Lo lessi di nascosto, clandestinamente, senza interrogazioni e senza
apparato critico, e forse è troppo tardi per dire al professor Eco
che aveva ragione da vendere: funziona lo stesso, anzi di più.
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