Con Madre d’inverno
(Mondadori, 2016) Vivian Lamarque ha vinto in febbraio il Premio
Bagutta 2017. Una notizia che smentisce gli allarmi sullo stato della
poesia in Italia. Il libro ripercorre le tappe dolorose di un
distacco e insieme la ricomposizione di una memoria, perché rimanga
lì, collocata in uno spazio preciso della mente – che poi è
tutt’uno con il cuore, come ci dice Dickinson -, come il quadro
della madre, dopo la sua morte, è ben presente nel salotto di casa e
ancora interloquisce con la figlia. Lamarque ci ha abituati, nel
tempo e nei precedenti libri, a queste sue levità di tratto poetico
che sorvegliano e filtrano nella lingua una materia tutt’altro che
leggera, come già ricordava Giovanni Raboni, grande estimatore della
poetessa. Rossana Dedola, nella bella introduzione a Poesie.
1972-2002 (Oscar Mondadori,
2002), parla, a proposito della poetica dell’autrice, di un
“corteggiamento della morte” che emerge a più riprese e si fa
strada tra versi di natura più leggera e dal sapore fiabesco. E
ripercorrendo la poesia di Lamarque nei diversi libri e nelle diverse
stagioni di scrittura non si può non darle ragione.
Il tema della morte
(della madre) in questo libro è centrale, e tuttavia è ancora una
volta espresso con cadenze leggere, accennato, lasciato intravedere
tra le parole, sospeso nell’attesa, nei rituali di affetto e di
cura che la figlia presta alla madre in ospedale, nei piccoli gesti
di amore e accudimento dell’ambiente (sia l’acqua per i fiori dei
corridoi e della stanza, siano i dettagli ornamentali del Natale
prossimo), nelle apprensioni e nelle confidenze sussurrate, perfino
nel diffuso colore bianco circostante delle pareti, delle lenzuola,
della neve, della camicia da notte da dove si sporge un ricamo come
una margherita su un prato ancora dormiente. Un “congedo gentile”:
sono parole chiave di questi versi, un accompagnamento amorevole in
cui anche il colore luccicante rosa della flebo e il sacchetto d’oro
dell’urina sono punti luminosi delle “posizioni del dolore” che
scandiscono i momenti di una storia che si va a concludere nella
sofferenza (“Dal centro del dolore/ mi hai fatto un sorriso/ come
un sole”) e che nasconde come in un bosco misterioso le piccole
incongruenze della vita, dall’amica che scambia un’altra paziente
per la madre dell’autrice e si accorge dell’errore dopo molti
discorsi (“si accorse che non eri tu, stesso corridoio/ stesso
numero di camera aveva sbagliato/ piano, non eri tu, sbagliato
letto!”), alla “ricerca” (tema caro alla fiaba) delle vene da
bucare con la flebo, dell’infermiera per una necessità
contingente, dei visitatori che si aggirano per i corridoi in cerca
delle stanze dei propri cari. E la chiusa di questa sezione iniziale
sulla morte della madre riporta una frase lapidaria di Szymborska sul
tempo scaduto.
Una seconda parte, ancora
incentrata sulla perdita, viene inaugurata da una immaginazione
creatrice: la figura della madre ritratta in un quadro appeso alla
parete della stanza in muto colloquio con la figlia; sul quadro alla
parete riverberano, attraverso la finestra di fronte, i colori del
cielo, le forme dell’albero sottostante e dei fiori del balcone,
mutando continuamente l’immagine e la luce secondo le ore del
giorno, sovrapponendosi ai tratti del volto figure diverse riflesse
sul vetro, ornandosi di ombre, sprazzi di luce, brevi scintillii,
nuovi colori. “O sei tu/ ora madre alberata quelle foglie,/ tu quel
geranio rosa come/ il tuo nome, quel fiore/ che bagnavi da viva/ da
severa regina del balcone?”. Un riverbero di luci e ombre che è
anche un rispecchiamento, una trama colloquiale non finita in cui i
ruoli della interlocuzione sembrano alternarsi, in cui il dopo lascia
sbocchi e aperture imprevedibili, e la memoria diviene mobile,
transitante tra stati differenti di esistenza e di tempo. Un
colloquio che si anima di altre presenze, come quella del padre morto
in giovane età, anche lui appeso in fotografia sul muro: “Uno
sopra l’altra guardate davanti/ a voi lontano molto oltre/ questa
me che vi guarda dal divano”. Ancora una volta l’ambiente esterno
e i soggetti umani si interconnettono in profondità, e ciò che è
fuori non è semplicemente un “contesto” estraneo, penetra
nell’interiorità, ne muta i contorni. “Era ora, così si fa:/
d’inverno si nevica!/ Che fuori si nevichi dunque/ che dentro si
guardi nevicare”.
Tutta la produzione
poetica di Lamarque, si potrebbe dire, si ascrive a un
autobiografismo proposto secondo moduli di racconto che appartengono
a un immaginario bambino. Una lingua semplice, quotidiana,
impreziosita qui e là da scelte lessicali alte, numerose inversioni,
numerose iterazioni di parole (soprattutto aggettivi e avverbi) o di
formule linguistiche specifiche come nel linguaggio delle fiabe o
nelle filastrocche, come nell’uso frequente dei verbi
all’imperfetto; molte rime, assonanze, consonanze e giochi fonici
che ritmano e rendono mobile il tessuto del verso, creano sorprese
fonico-semantiche, incuriosiscono, spiazzano il lettore; molte
domande e interrogazioni alla ricerca delle risposte fondanti della
vita, come di chi si affaccia nella prima adolescenza alla vita
stessa, desidera comprenderla nella sua smisurata eterogeneità e
complessità; molte citazioni da testi letterari, fiabe, canzoni,
opere liriche, intercalati nel testo, dati in esergo alle diverse
sezioni dei libri, trascritti mescolando le parole altrui alle
proprie in una scrittura colta e comparativa, in certi tratti del suo
lavoro. Questo mondo infantile in cui si muove Lamarque, che è anche
traduttrice e apprezzata autrice di fiabe e narrazioni per bambini,
non è un mondo ingenuo o lezioso: è improvvisamente scosso da
lacerazioni e angosce profonde che si intuiscono, si intravedono tra
le righe, o da spaccature aperte in modo imprevisto tra le parole.
Partendo dal tema fondativo dell’assenza, dalla ferita originaria
di esser figlia di una doppia maternità (la madre biologica che l’ha
abbandonata a nove mesi e quella adottiva che l’ha allevata e
amata, ed è dunque la madre), con una conseguente alterazione di
rapporti con la realtà. “Dopo qualche decennio di Jung, / di Dott.
B.M., ora ti chiamavo/ mamma come bere un bicchier/ d’acqua, prima
mai, non me ne/ accorgevo che non ti chiamavo mai”.
Anche l’ironia
appartiene all’autrice, e in questo libro della piena maturità
sporge da numerosi testi che riprendono temi di sempre: “ Invece
l’anima dove?/ anche lei in giro per casa?/ o clandestina in noi/
non avvistabile da tac?/ forse al riparo/ di un’orecchietta di
cuore?/ particola?/ Sim?”. Oppure vengono riscritti in nuove
versioni-inversioni: “Allora non è facile fare una poesia?/ non
basta prendere un pezzo di carta/ e una matita? non è come per la
terra/ fare un filo d’erba, una margherita?”, che rovescia in una
diversa versione un testo presente con altro titolo in Poesie.
1972-2012, si interroga sulla scrittura di poesia e testimonia un
continuum di temi e di scrittura da un libro all’altro, da una
stagione di vita all’altra, con variazioni che rendano permeabile
nei diversi tempi la realtà, la rendano dicibile in modi differenti.
Niente è dato per definitivo, terminato, assoluto, finché si è in
vita. Anche la morte pervade la vita, si insinua con inquietudine
nell’animo dei viventi, confina e tocca la vita stessa come il
cielo con la terra, controbilancia le attese e resta là, porta
finale del vivere che tutti attraverseremo e solo allora, da quel
momento, ci sarà veramente la parola fine, come ricorda in una
poesia intitolata Post scriptum nel libro Poesie.
1972-2002: “Siamo poeti./ Vogliateci bene da vivi di più/ Da
morti di meno/ Che tanto non lo sapremo”.
Questo doppio che
costantemente attraversa la sua vicenda personale le fornisce uno
sguardo ambivalente, capace di guardare più situazioni divergenti da
diversi punti di osservazione, leggendone gli aspetti positivi e
negativi, contraddittori, ma mai in maniera assoluta. Non c’è una
mediazione forzosa oppure un facile desiderio di pacificazione delle
alterità, è la vita stessa che è piena di piccole e grandi
incongruenze, contraddizioni, e l’azione di cura del mondo in cui
viviamo, che appartiene ai temi cari all’autrice, deve partire da
una scelta di responsabilità consapevole. Così la poesia intitolata
L’albero, anch’essa nuova versione e drastica riduzione di
un testo assai lungo già presente nella raccolta del 2002, tocca
alcuni punti nevralgici della sua scrittura. Quello che nella
versione precedente era un matrimonio con l’albero ( “Se eri un
pioppo/ ti sposavo ti salivo/ fin lassù”), qui è una presenza
umana sull’alto dei rami, ma il colloquio con i morti lassù è il
medesimo: “Morti ma come vi hanno messi?/ divisi per millennio? per
secolo?/ per causa di decesso? per precocità?/ o siete tutti in
disordine come stracci/ là? o siete polvere quieta come di mobili?”.
La particolare dislocazione aerea permette di osservare e dialogare
con quelli che stanno sopra, nel cielo (i morti) e la realtà
sottostante, cui appartiene l’autrice e l’albero stesso: il mondo
materiale, la vita comune degli esseri viventi, animali e vegetali
compresi, e sopra e sotto il cielo le medesime questioni: “Anche il
cielo/ era un sottosuolo come mancavano le belle sere/ d’estate le
chiacchere le luci basterebbe anche solo/ un bar e dei fiori tipo
margherite e viole e papaveri/ e non ti scordar di me// e di noi che
aspettavamo un dio o un premier/ equo ma va là una febbre leggera
febbricitava/ il mondo le sue gote, colline come rosse guance/ come
d’autunno fard// certi giorni non amava nessuno/ solo il mondo
intero nella sua sfericità”.
Un libro complesso, ricco
di aperture e ridefinizioni, mobile nello stile (parlato, dialogico,
lirico, narrativo) e pur riconoscibilissimo, che pone al centro la
figura della madre, le madri, anche madri simboliche (Szymborska), e
si chiude con una serie di testi sulla poesia “coinquilina poco
prevedibile”.
dal sito della “Società
delle letterate”
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