Da un numero di “Pagina
99” del 2015, quando il settimanale aveva come direttore editoriale
Emanuele Bevilacqua e come condirettore Roberta Carlini, riprendo un
pezzo assai interessante tra finanza e letteratura. L'autore,
economista, eccellente divulgatore e appassionato di belle lettere ha
pubblicato per Longanesi nel 2014 Quasi un romanzo. L’economia
raccontata a chi non la capisce. (S.L.L.)
Emile Zola |
A Boston l’Union
Atlantic sta affondando. Siamo negli anni della finanza allegra,
prima della crisi del 2008 (ma sono finiti davvero per sempre quei
tempi?). Siamo anche nell’immaginario di un romanzo: ma quante
banche così, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, ci sono
ancora? Ormai è un banchiere centrale, che è stato chiamato al
capezzale di quell’istituto di credito. Si chiama Henry Graves ed è
il presidente della Federal Reserve di New York: un personaggio
d’altri tempi, espressione di una moralità molto progressista e
East Coast. Ma pronto anche ai compromessi, ad adeguarsi alle
esigenze dei nuovi ricchi della finanza.
Sulla scia di
Lehman
Union Atlantic è
un romanzo uscito cinque anni fa. Uno dei tanti, con dirigenti di
banche e trader come protagonisti: è parte di quell’ultima ondata
che, puntuale, scattò dopo il crack della Lehman Brothers. Venne
fuori anche un bel po’ di robaccia. Ma non questo libro, opera
prima di Adam Haslett, salutato con ammirazione perfino da un certo
Jonathan Franzen. Haslett, laureato in Legge a Yale, non aveva mai
lavorato come trader. Ma passò otto anni a preparare il suo romanzo,
che terminò proprio in quel fatidico autunno 2008.
Investimenti a
rischio
Union Atlantic è una
normale banca commerciale, che a un certo punto si lancia
nell’investment banking: inizia a utilizzare i soldi dei
bravi padri di famiglia per i suoi “giochini” con i derivati
(come il Monte dei Paschi). Finirà male. E sarà anche la
responsabilità di Henry Graves, il banchiere centrale, che fa tanto
il buonista. Mentre a Boston i problemi lievitano, lui si ritrova in
riva al mare, una sera, a Miami. D’un tratto il ronzio di un
ventilatore in albergo lo porta a riflettere sulla globalizzazione,
su come quell’anonimo oggetto sia il risultato finale di un giro
del mondo, dal ferro della miniera indonesiana con cui è stato
prodotto fino al grossista di Atlanta che l’ha importato. «La
mente di Henry», scrive Haslett, «calcolava ogni passaggio dal
magro salario dei minatori fino al costo dell’immobile: mutui,
linee di credito, denari presi a prestito, l’immane slancio
creazionistico dell’interesse composto, cieco artefice del mondo
moderno». Amen.
Walt e i banchieri
Talvolta i banchieri
spuntano fuori quando meno te l’aspetti. Walt Disney decise di
trasferire sullo schermo la saga di Mary Poppins, inventata dalla
scrittrice Pamela Lyndon Travers. Il padre dei bambini, accuditi
dalla bambinaia volante, è Mr. Banks: un nome, un programma. Lavora
nella City londinese e un giorno decide di portare Jane e Michael nel
suo ufficio. Nel libro la scena termina sugli scalini della
cattedrale di St Paul, dove una vecchietta vende mangime per
piccioni. Ma il perfido Walt Disney, che tante volte si era visto
rifiutare crediti per le sue megaproduzioni, andò avanti. I due
ragazzi entrano nell’istituto dove Mr. Banks lavora. Incontrano Mr.
Dawes e il figlio (già vecchio, pure lui), i due avidi banchieri. Il
più anziano cerca di convincere Michael ad affidargli i suoi due
penny. Ma il ragazzo li vuole dare alla vecchietta e ai suoi poveri
uccelli… Seguirà un tale tafferuglio, che i clienti nei corridoi
della banca crederanno a un’imminente bancarotta. Si scatena uno
dei fenomeni più temuti dai banchieri, la corsa agli sportelli,
vista anche in Grecia pochi mesi fa: tutti rivogliono i loro soldi.
Jane e Michael fuggono. Per loro fortuna s’imbattono in un
simpatico spazzacamino.
Stangata ante
litteram
Incredibile, poi, come in
un romanzo uscito nel lontano 1891 siano già spiegati i meccanismi
(e le disfunzioni) del mondo finanziario: Il denaro. Émile
Zola immagina la storia di una speculazione all’epoca del Secondo
Impero. Immagina fino a un certo punto, perché da bravo giornalista
di storie simili ne aveva trattate così tante. Il denaro illustra la
vicenda della Banca universale di Aristide Saccard: un’istituzione
che, dietro il paravento dei progetti di Hamelin, ingegnere
idealista, attirerà una miriade di investitori, la fauna composita
della Parigi di allora. Finirà male, pure stavolta. In Il denaro
c’è già tutto. L’idea di un’economia globalizzata e i
progetti infrastrutturali in mezzo mondo, in particolare in Medio
Oriente. Sì, la caccia ai Paesi emergenti. Tutto il castello di
sabbia costruito da Saccard si sgretolerà a causa degli attacchi del
rivale, il banchiere Gunderman, a suon di vendite allo scoperto, lo
short selling, che è ancora un male della finanza di oggi (e
una delle specialità di George Soros). Saccard, che per convincere i
malcapitati risparmiatori, sfoggia la sua fede cattolica, novello
crociato in Terra Santa, ricorda un Calisto Tanzi qualsiasi, il
patron della Parmalat, che andava a messa ogni domenica e lo faceva
sapere. O un Bernard Madoff, l’usurpatore di Wall Street, che
andava alla sinagoga tutti i sabati e lo faceva sapere. Così
rassicuranti. A un certo punto Maxime, il figlio di Saccard, ne
approfondisce la psicologia. Il padre non vuole accumulare e basta.
Ama il denaro: «Se ne attinge a tutte le sorgenti, è per vederlo
scorrere a torrenti». «Lui venderebbe voi, me, chiunque, se potesse
essere oggetto di un qualsiasi mercato. E agirebbe così da uomo
senza coscienza, e insieme superiore a tutto, perché è veramente il
poeta del milione, lui, talmente il denaro lo rende pazzo e
canaglia…».
Pagina 99, 25 novembre 2015
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