Il personaggio di Kunti, la grande madre, nel serial televisivo indiano dedicato al "Mahabharata" |
Ci dovrà essere una
guerra grandiosa e terribile, durante la quale le forze del bene e
del male lotteranno fino all'estremo. Il bene risulterà vittorioso,
ma il prezzo da pagare sarà altissimo e gli stessi vincitori ne
resteranno sconvolti. La guerra servirà ad «alleviare» la terra:
così ha stabilito una superiore provvidenza per frenare una crescita
della popolazione ormai intollerabile. È guerra di uomini, anzi è
una lotta familiare che oppone fratelli e cugini nel corso di
generazioni; ma è, al tempo stesso, una guerra di dei: incarnatisi
in alcuni eroi, questi dei combattono altri eroi nei quali si sono
incarnati, a loro volta, demoni malvagi.
Ecco lo scenario in cui
si svolgono gli intrighi del Mahabharata, Iliade e Odissea
dell'epica indiana; quasi centomila versi (almeno nelle versioni del
Nord), il poema più lungo di ogni letteratura, scritto non si sa
bene quando né da chi, forse da successive generazioni di autori,
certo a strati e con continue interpolazioni, e di cui si può solo
dire che la forma nella quale oggi possiamo leggerlo risale a un
periodo tra il IV secolo prima e il IV secolo dopo Cristo: ottocento
anni! (Il lettore italiano ha a disposizione uno dei frammenti più
importanti ed autonomi, il Bhagavad Gita, pubblicato da
Adelphi. ne ha parlato su queste pagine Alfredo Giuliani. Ed ora
anche il primo volume di Mito e epopea di Georges Dumézil,
Einaudi, pagg. 264, lire 15.000, che è appunto un commento
dell'interp poema.
Mahabharata è «la
grande storia dei discendenti di Bharata»; ma solo gli ultimi sono
importanti per la trama. Il re Santanu ha un figlio che si chiamerà
Bhisma e che è l'incarnazione di un dio (Dyau, «il Cielo»). Bhisma
rinuncia a regnare per consentire al padre di sposare una seconda
moglie di cui è inna morato, e in cambio riceve uno straordinario
privilegio: morire solo quando lo vorrà. Diventa così una specie di
«deus ex machina»: zio-tutore, sarà lui con vari stratagemmi a
garantire continuità alla stirpe e ad accompagnarla lungo tre
generazioni.
Morti i due fratellastri
senza lasciar figli, Bhisma farà in modo che le vedove abbiano
egualmente .lenii eredi da un asceta, in segreto. Essi tuttavia
porteranno i segni di questa oscura nascita: Dhrtarastra, il
maggiore, nasce cieco perché la madre ha chiuso gli occhi durante
l'amplesso; Pandu, il secondo, nasce smunto perché la madre è
impallidita; il terzo, Vidura e addirittura bastardo, perché, non
volendo sottoporsi ancora una volta alla prova, la regina si era
fatta sostituire da un'ancella. Pandu è in grado di regnare,
Dhrtarastra no. I cinque figli di Pandu - i Pandava - saranno i
grandi protagonisti del romanzo; il maggiore dei cento figli nati dal
cieco Dhrtarastra sarà invece il capo del fronte nemico: il suo nome
è Duryodhana ed è una incarnazione del demone Kali.
Ma anche la nascita dei
cinque Pandava non è tranquilla. Bhisma, che continua a reggere i
fili, fa sposare a Pandu due donne, Kunti e Madri. Il regno di Pandu
è d'altra parte breve e singolare: non abita nella reggia ma vive
con le mogli nella vicina foresta. Lì, un giorno, mentre sta
cacciando, ferisce mortalmente una gazzella; in realtà si tratta di
un asceta che si era trasformato nell'animale per godere dei piaceri
dell'amore. L'asceta lo maledice: anche lui, Pandu, dovrà morire al
primo abbraccio con una donna. Ma Pandu vuole e deve avere degli
eredi. Kunti allora gli rivela di possedere un potere eccezionale, un
«mantra», una formula avuta da un bramino, pronunciando la quale
ella potrà far apparire, per una volta, il dio che preferisce e
avere con lui un bambino. Così, a intervalli di un anno, Kunti
convoca, d'accordo con il marito, gli dei Dharma, Vàyu e Indra, e da
essi ha tre figli: Yudhisthira, Bhima e Arjuna.
Ascesa al Paradiso
A questo punto anche la
seconda moglie di Pandu. Madri, chiede di poter usare della formula,
e Kunti glielo concede, ma per una volta soltanto. Madri rispetta
solo in apparenza la condizione: fa venire a sé i gemelli divini,
gli Asvin, da cui avrà due figli, pure gemelli, Nakula e Sahadeva. I
cinque Pandava sono dunque figli di altrettante divinità delle quali
conservano alcune qualità caratteristiche: Yudhisthira é la legge e
la giustizia; Bhima la forza fisica; in Arjuna la forza si unisce
alla bellezza; ed è una bellezza incomparabile quella che distingue
Nakula e Sahadeva, gli inseparabili gemelli.
Siamo con ciò solo
all'antefatto di questa epopea familiare e divina. Ho infatti
riportato una parte del contenuto del primo libro, intitolato «libro
dell'inizio». Ne seguono altri diciassette, diseguali per ampiezza,
rilevanza e anche stile, in cui la trama si dipana in una selva di
episodi collaterali e di ulteriori intrighi verso i preparativi dell'
immane battaglia che occupa il centro del poema; fino al «libro
della lunga marcia» in cui Yudhishira, ormai vecchio e stanco, coi
fratelli, la moglie Draupadi e un cane fedele (un dio incarnato
anch'esso!) cammina oltre l'Himalaya in direzione dei Paradisi, e
infine vi giunge (canto XVIII: «libro dell'ascesa al Paradiso»): lì
gli dei riprenderanno il loro posto, e finalmente i figli siederanno
accanto ai padri.
Un'altra vicenda, più
vicina a noi, molto ai margini — visto che riguarda un piccolo
numero di studiosi — ma a suo modo non priva di avventura, è la
storia delle interpretazioni occidentali del Mahabharata, dal
colonnello De Polier a Georges Dumézil. Non più dèi, non più
eroi, non più guerre sullo sfondo mitico delle origini della cultura
indo-europea; ma schermaglie filologiche, colpi di scena
interpretativi a ridosso di un testo che sembra senza fondo.
Lo svizzero De Polier,
giovanissimo, presta servizio presso l'inglese Compagnia delle Indie:
siamo nel 1780. De Polier si appassiona alle tradizioni indiane e al
ritorno in Europa porta con sé dettagliati riassunti e commenti del
Mahabharata; queste carte, in seguito trascurate dalla
critica, danno materiale a un libro, cui seguiranno per decenni
indagini e dibattiti. Il poema va ricondotto a una serie di
avvenimenti reali? e quali? oppure il poema è la trasposizione
eroica di rappresentazioni mitiche?
La prima ipotesi (secondo
cui si tratterebbe di un abbellimento letterario di fatti storici) è
stata dura a morire; oggi comunque si sa per certo che è sbagliata.
La seconda (sostenuta con forza alla fine del secolo scorso da Alfred
Ludwig) era nella direzione giusta, ma soffriva delle idee riduttive
e semplicistiche che del mito si avevano in quegli anni. Nascerà poi
la cosiddetta «mitologia comparata» — comparazione tra i miti di
vari ceppi culturali anche assai distanti —; tuttavia questa
disciplina cresce male, estrae i miti dal loro contesto, fa
arbitrarie astrazioni linguistiche.
Questi studi decadono per
loro interna debolezza; riprendono vigore solo in tempi recentissimi.
Nel 1947 lo svedese Stig Wikander, in un articolo di poche pagine,
dimostra che il sistema teologico-mitico che presiede all'intero
poema è una «macchina» complessa e decifrabile: non un
abbellimento posticcio, ma una struttura culturale che viene da tempi
assai più remoti di quelli della presunta stesura del Mahabharata.
Il colonnello De Polier, nella sua ingenuità, lo aveva intuito
quando aveva ipotizzato che il poema si spiega come un momento delle
grandi discese divine presso gli uomini.
In Mito e epopea
Dumézil riprende e sviluppa le intuizioni di Wikander: intrigo
romanzesco e struttura mitica compongono un corpo unico e variegato
dove l'episodio fortuito e il dettato teologico si incastrano
mirabilmente. Alla base di questo meccanismo Dumézil identifica un
unico motore: la legge delle «tre funzioni». La divisione, già
indo-iraniana, della società in tre parti (preti, guerrieri,
allevatori/agricoltori), qui si presenterebbe come un complicato
gioco di funzioni, non più e non solo riportabili a condizioni
sociali, ma di tipo culturale-ideale, e assai più veritiere ed
efficaci nello spiegarci, attraverso un documento letterario, la
struttura di una mentalità.
Le ambizioni di Dumézil,
come è noto, si spingono ben oltre: il modo con cui è stata
raccontata la storia mitica degli antichi re di Roma, la mitologia
scandinava, l'epica di un piccolo popolo caucasico (gli Osseti),
unico ad aver mantenuto radici indo-iraniane — queste realtà così
distanti tra loro e apparentemente cosi clamorosamente discontinue,
presenterebbero notevoli tratti in comune, riscontrabili proprio
nell'elemento trifunzionale (la triade Giove/Marte/Quirino per
l'antica Roma, il pantheon scandinavo giocato su tre divinità
principali e così via). A tali comparizioni sono dedicati i
successivi due volumi di Mito e epopea (usciti in Francia nel
1971 e nel 1973).
Gioco di incastri
Un libro sul Mahabharata
ha il fascino di un gioco di incastri manovrato con straordinaria
abilità. Dumézil risolve le difficoltà di un gigantesco puzzle
districando la rete dei rapporti di parentela e degli scambi tra
uomini e divinità. Perché i Pandava sono cinque? Perché nascono in
quella successione? Come sono riportabili alle tre funzioni? Perché,
per una singolarissima casualità (un vero quiproquo), ad essi tocca
in sorte una sola e stessa moglie, Draupadi, e perché viene
accettato pur essendo così contrario alla morale vigente?
Ad ogni capitolo del
libro si addensano quesiti del genere, e Dumézil allarga via via il
raggio delle indagini, approfondendo la sua inchiesta, spingendola
all'indietro nella materia mitico-religiosa che è la linfa del
poema. Non tutti i pezzi vanno al loro giusto posto: perché, ad
esempio, i nomi degli eroi restano spesso inspiegati, cioè al loro
significato letterale non corrisponde la loro funzione? Da dove
provengono questi nomi? La casualità romanzesca e la necessità
dottrinale — come mostra Dumézil — si incrociano secondo un'arte
dell'invenzione narrativa che non finisce di stupirci; ma certo,
restano ancora delle ombre.
“la Repubblica”,
ritaglio senza data, ma 1982
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