La domanda che sorge
cent’anni dopo è: che cosa mosse Edgar Rice Burroughs, nato a
Chicago nel 1875 e buon conoscitore dell’ultimo Far West, a
inventare nel 1912 la figura pulp di Tarzan? Ne scaturì
immediatamente un mito popolare che Burroughs coltivò, avventura
dopo avventura, in 26 libri di successo fino al 1947, quando il mito
era già divenuto un culto hollywoodiano e fumettistico, lasciando
all’industria disneyana una tardiva interpretazione (1999), con
l’eroe bambino ridotto a una mistura di Mowgli e di Bambi.
Ma da quale archivio
culturale, o mentale, saltò fuori Tarzan? L’evoluzionismo
darwiniano? Un’esaltazione del machismo? Il fascino di terre
esotiche, alimentato da romanzi allora popolari sulle giungle
dell’Africa o dell’India - di Rider Haggard, Kipling, Conrad -
che raccontavano storie di colonialismo europeo, affiancato da scorci
di paesaggi misteriosi perduti dall’Occidente? Il West americano
che a fine Ottocento concludeva la sua epopea di cancellazione del
Nativo e di terra vergine? Nostalgia di un Eden come alternativa al
progresso? Un interesse ‘pseudoantropologico’ per l’Africa (di
moda nelle coeve avanguardie europee), dei cui umiliati discendenti
l’America era colpevolmente popolata? E ancora: un obliquo venire a
patti con i razzismi? Oppure, un semplice ecologismo umano, come ha
sostenuto Gore Vidal? Domande che oggi a un rilettore adulto vengono
sollecitate da Tarzan Racconti della giungla (Donzelli,
traduzione di Nello Giugliano, con 22 tavole di Burne Hogarth), sesto
libro del ciclo, apparso negli USA nel 1916, e in seguito illustrato
da numerosi cartoonists, da James Alien St. John a Rex Maxon, da Hai
Forster all’espressionista «michelangiolesco» Burne Hogarth.
Le dodici storie iniziano
in medias res, con un Tarzan («pelle bianca» nella lingua delle
scimmie) bello, glabro e muscoloso, «la reincarnazione di qualche
antico semidio», tormentato dal primo innamoramento. L’oggetto del
desiderio è la «bella» compagna di giochi infantili Teeka, la
quale lo preferirà a un corteggiatore dalla pelle più folta di
peli. C’è molta gelosia da parte dell’«uomo scimmia», orfano
di un Lord inglese (ma di quanta americanità è plasmato Tarzan!) e
nutrito alla nascita dal «seno di una ripugnante e pelosa femmina di
scimmia», proprio come Romolo e Remo (così pensava Burroughs),
figli di latte di una lupa che i romani avrebbero imparato a venerare
come Tarzan venera la memoria di Kala, la madre adottiva uccisa da
una tribù di uomini neri - i Gomangani -, sui quali egli si accanirà
inesorabilmente. Dopo lungo struggimento cederà Teeka al giovane
maschio Taug, scoprendo d’improvviso di essere un «uomo»,
destinato ad andare «solo» nella giungla perché ogni creatura
appartiene a una diversa specie: scimmia con scimmia leone con
leonessa e così via.
Ha inizio in questo modo,
con una patetica ricerca di affetto, il ciclo dei racconti rivolto ai
giovani lettori, quelli che, come il giovane Burroughs, sanno
«sognare a occhi aperti» di un mondo alternativo e più disinibito,
tradotto dalle illustrazioni di Burne Hogarth nella fantasiosa realtà
cartacea (né Burroughs né Hogarth erano mai stati in Africa) di
colori splendenti e ombreggiature di foglie, l’ultimo reame
incontaminato della natura che, con i suoi abitanti legittimi, ospita
l’atletico campione dai capelli corvini e i limpidi occhi azzurri.
Persa Teeka, a Tarzan
mancherà l’amore di una ragazza, o di una madre, o persino di un
balu (un figlio), fino a spingerlo a cercare il Dio amorevole di cui
ha imparato a leggere nei libri abbandonati dei suoi veri genitori.
Si tratta tuttavia di un’entità difficile da riconoscere: «E
cos’era Dio? Com’era fatto? Tarzan non ne aveva idea ma era
sicuro che tutte le cose buone venissero da Dio». E, forse grazie a
Dio, egli non sarà mai solo in queste avventure di sopravvivenza e
di salvataggio, situate in una fase della sua biografia che ancora
attende l’arrivo di Jane Porter. È vero, Tarzan ha molti
antagonisti: il leopardo Sheeta, il serpente Histah, il leone Numa,
il gorilla Bolgani; ma anche qualche aiutante: l’elefante Tantor,
la bertuccia Manu, e soprattutto lo scintillante pugnale da caccia
recuperato dalla capanna dei genitori. Il pugnale della civiltà è
l’unico elemento a renderlo competitivo nel mondo animale, quasi
fosse vago ricordo del pragmatismo di Robison Crusoe, un modello che
Burroughs poteva avere in mente nelle sue modeste ricerche sui
naufragi, ma con il quale Tarzan non ha nulla da spartire. Familiari
invece risuonano le consonanze con il mondo civile, con i soliti
buoni e cattivi nella lotta fra bene e male, fra sconfitta e rivalsa.
Congiunture moralistiche che non diminuiscono le suggestioni di
sostegno al mito del «buon selvaggio».
Il ritmo di azioni
fulminee tiene uniti brani della narrazione e commento visivo. I
racconti seguono un passo veloce rispondente al pericolo in agguato,
un passo incrementato dalla mobilità aerodinamica delle liane che
avvolgono anche il lettore in acrobatici spostamenti. Ed è questo
tratto dello stile di Burroughs che Hogarth, studioso e maestro del
più posato disegno anatomico, cercò di rendere quando si candidò a
illustrare quattro dei racconti qui raccolti, alternando staticità e
movimento, comprimendo in una sola tavola - con gradualità di enfasi
e di sfondi prospettici - diversi momenti della vicenda e limitando
la funzione delle didascalie a mera conferma (non disambiguazione)
delle sovrapposte entità semantiche implicate nella tecnica
pittorica.
È difficile
circoscrivere il risultato di Hogarth al solo gusto estetico (e
consumistico) della sua epoca: persino il fotografismo del poster
pubblicitario, o il fermo «muralismo» espressionista del New Deal
ne escono rianimati. Più facile pensare a un’intenzionale
integrazione di citazioni da più culture visive: il colorismo
«fauve», le decorazioni floreali del Liberty (i racemi che spesso
fanno da trono a Tarzan), il dinamismo di Superman, la posatezza
della statuaria classica nei magistrali ritratti dell’eroe a
‘riposo’. Tappe variegate di una storia dell’arte figurativa
che si va avviando verso la riabilitazione del Pop.
“alias domenica – il
manifesto”, 4 marzo 2012
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