Il destino di un libro
come Le avventure di Pinocchio è d'esser nato come un
fantastico libro per bambini, per diventare poi, cammin facendo, un
grande libro per grandi, senza smettere mai d'essere un fantastico
libro per bambini. In questa duplicità, a tal punto ricorrente da
divenire, se così si può dire, permanente, stanno il suo fascino,
la sua illimitata disponibilità alla lettura, la sua capacità di
parlare a popoli e generazioni diversi e di rivestire, al di là
della versione originaria, altre forme e altri linguaggi in movimento
(dai balocchi ai cartoons, dai films di animazione, celebre una
reinterpretazione disneyana, ai films veri e propri, recente e
volenterosa, anche se non pienamente riuscita, la rielaborazione di
Roberto Benigni).
La molteplicità dei
significati e delle letture appaiono tanto più sorprendenti in
quanto le vicende della sua genesi riportano a un ambiente e a
tematiche apparentemente ristretti come quelli della Firenze
immediatamente postunitaria, che aveva alle spalle quella Toscana
granducale, della cui piccineria e ristrettezza d'orizzonti molti
scrittori e intellettuali del tempo (fra cui lo stesso Collodi, in
alcune deliziose operine d'impronta macchiettistica) avevano
discorso. Pinocchio, o, per citare il titolo esatto dell'opera, Le
avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, fu pubblicato a
puntate sul Giornale dei bambini a partire dal 7 luglio 1881. Fra il
luglio e la fine di ottobre di quell'anno apparvero, a scadenze
abbastanza regolari, i primi quindici capitoli, l'ultimo dei quali si
conclude con l' impiccagione del burattino da parte della losca
coppia Gatto e Volpe e la sua presunta morte. Sicuramente la storia,
nelle intenzioni dell'autore, doveva concludersi lì: non a caso
l'autore vi appose in fondo la parola fine, regolarmente passata alla
stampa. Non sappiamo per quale motivo Collodi decidesse di riprendere
la narrazione, ma c'è da sospettare che lo facesse per le insistenze
di Guido Biagi, vecchio amico suo e uno dei principali animatori in
quel momento del “Giornale dei bambini”. Fatto sta che, con il 16
febbraio 1882, i capitoli riprendono a uscire, a intervalli piuttosto
grandi compaiono lungo tutto quell'anno e l'ultimo, il XXVI, esce il
25 gennaio 1883 (...).
Carlo Collodi era, com'è
noto, un Carlo Lorenzini (nato a Firenze nel 1826), che aveva preso
il suo pseudonimo da Collodi, piccola frazione di Pescia, di cui era
originaria sua madre. La sua famiglia, è il caso di precisarlo, era
molto umile, il padre cuoco in casa del Marchese Ginori Lisci, la
madre sarta. Intorno a Collodi (il paesino, non lo scrittore) si
stende ancor oggi un paesaggio agricolo e naturale tipicamente
toscano: boschi, campi e campetti, uliveti, forre e burroni. Insomma,
il paesaggio che Collodi (lo scrittore, non il paesino) avrebbe poi
travasato nel suo libro, facendone la dimensione spaziale
privilegiata delle «avventure di Pinocchio», il luogo (paesano e
rurale) delle sue memorabili sgambate di desiderio o di paura. Dentro
le caratteristiche naturali di questa ambientazione visiva e
percettiva si colloca poi un paesaggio umano, e questo è davvero un
dato fondamentale, fatto d'incertezza, di precarietà e di miseria.
La fame, è appena il caso di ricordarlo, è un dato costitutivo
della vita contadina italiana (e anche toscana) di quei tempi. Molte
delle vicende narrate nel libro riflettono, attraverso il velo
fantastico della favola, questa dura realtà. Anche questo è
particolarmente affascinante: le descrizioni, anche quando invadono
il campo delle favole, non assumono mai l'aria zuccherosa e irreale
che contraddistingue la maggior parte della tradizione fiabesca. Il
fantastico c'è, eccome: il burattino che parla e si muove come un
bambino (ma non è mai, se non nella conclusione, un bambino vero e
proprio), la Fata turchina, gli animali variamente parlanti, la
discesa di Geppetto nel ventre della balena, il Serpente, ecc. Ma
attraverso l'invenzione i connotati del reale s'intravvedono bene
(...). La duplicità è dunque connessa alla struttura stessa della
narrazione collodiana: metà fiaba e metà «novella» (per
riprendere il nome proprio della tradizione narrativa toscana, alla
cui lezione Collodi attinse ampiamente). Si potrebbe parlare a questo
proposito di «struttura di compromesso». E del tutto evidente,
infatti, che Le avventure di Pinocchio sono finalizzate e
unificate da un intervento educativo, quasi inesistente all'inizio e
poi sempre più chiaro e definito (soprattutto dal momento in cui la
narrazione riprese), fino al punto di costituire il fondamentale
strumento di riorganizzazione retroattiva dell'intera vicenda, che
solo dalla conclusione assume davvero tutto il suo significato: il
burattino, dopo una lunga serie di prove, anche dolorose, si riscatta
dalla sua scapataggine e diventa «un bravo ragazzo» (...).
Osservando i caratteri del protagonista, si può scoprire che essi
sono perfettamente coerenti con l'impostazione ambigua, anzi
ambivalente, della struttura. Anzi, si potrebbe probabilmente dire
che questa ambiguità e ambivalenza ne discendono. Anche Pinocchio,
infatti, come protagonista è fondato su di una tipica «struttura di
compromesso». In poche parole, Pinocchio fin dall'inizio è qualcosa
che sta a mezzo fra un burattino di legno e un ragazzo, e come l'uno
o come l'altro verrà di volta in volta riconosciuto a seconda delle
situazioni in cui si trova o in cui gli altri lo guardano. In taluni
casi, è il burattino stesso a pensarsi come un ragazzo (...).
Giorgio Manganelli, che
su Pinocchio ha scritto un libro bellissimo, sostiene che sia
possibile leggere un altro libro su di un piano parallelo a quello su
cui si colloca qualsiasi testo scritto, insomma, il doppio vero e
proprio della carta stampata del primo. Per un testo come il nostro
(e spero che il senso di questo ragionamento sia a questo punto
abbastanza chiaro), molti e diversi potrebbero esserne proposti. Io
penso che Pinocchio possa (forse debba) esser letto, oltre che come
un libro di avventure per bambini oppure come un libro di proposta
pedagogica, come un libro di metamorfosi. Il meccanismo fondamentale
e al tempo stesso il tema radicale del protagonista è la
trasformazione, il continuo passaggio del protagonista da una
condizione all' altra. Persino l'incessante dinamismo, di cui abbiamo
parlato, e le inquietudini psichiche, da cui il protagonista non è
esente, sono indizi di una costante inclinazione alla trasformazione
(...). Questi «transiti» si compiono in un mondo in cui è
raramente dominante la luce del giorno. Anzi: si potrebbe dire che
Collodi colloca buona parte della narrazione (direi quasi sicuramente
più di un terzo, forse la metà) in un contesto notturno. Aggiungo:
questo contesto notturno è in genere tempestoso e invernale (spesso
il freddo s'accompagna alla fame). Ancora: nel contesto notturno
tempestoso e invernale si svolgono le (dis) avventure più
clamorosamente catastrofiche di Pinocchio (...). A questa
ambientazione notturna s'accompagna spesso, a turbare anche da questo
punto di vista il tranquillo svolgimento di un racconto di fiaba, la
vera e propria ossessione mortuaria, da cui Collodi sembra essere
tormentato (dalla morte di Pinocchio stesso, svoltasi e descritta in
maniera orribile, a quella della Fatina, con conseguenti ostentazioni
funerarie, ecc.) (...).
Se le cose stanno così,
allora una nuova conclusione potrebbe esser questa. Non possono
essere sottovalutati nella costruzione del personaggio Pinocchio
questo elemento del buio, della «notturnità», il terrore
dell'oscurità, che accompagna il rapporto di qualsiasi bambino con
quelle che non possono non apparirgli come le tenebre primordiali
(anche quando si tratti della normale oscurità notturna, che
quotidianamente segue alle luci del giorno). Se introduciamo anche
questa nuova dimensione nell'apprezzamento del racconto, la soglia di
comprensione si sposta e gli sdoppiamenti di Collodi e di Pinocchio,
si prolungano fino a rimettere in discussione quello che ad un certo
punto ci era sembrato il tranquillo punto d'arrivo dell'intero
processo. Evidentemente, come accade sovente nei temperamenti
estroversi, ironici, dissacratori (e quello di Collodi sicuramente lo
era), c'è un versante del suo carattere che s'affaccia sull'umor
nero, la «melancolia», il ripiegamento e la depressione. Insomma,
un Collodi saturnino e un po' perverso accanto o dentro un Collodi
motteggiatore e teatrante, macchiettista e freddurista (...).
la Repubblica, 4 gennaio
2005
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