Milano 1962. Tifosi al derby. |
La solita squadra di
pirla vinceva due a zero e si fece rimontare: Inter-Napoli 2 a 2.
Beppe Viola, che era milanista ma umano, ci stava scrivendo il pezzo
per la “Domenica Sportiva” quando si accasciò sulla scrivania e
morì così, quarantatré anni da compiere a giorni, ed ecco perché
oggi non si può difendere dai complimenti.
Ora Quodlibet rimette
mano a un bel po’ di suoi scritti (ah, le rubriche su “Linus”!),
racconti e deliri vari, tutta roba buonissima, con Vite vere
compresa la mia, libro (qui ben arricchito) che uscì nell’81
grazie alla tigna di Oreste del Buono. Non che Beppe Viola sia
misconosciuto, certo, e va segnalato, per vederlo da un’altra
angolazione, anche il bel racconto della figlia Marina, Mio padre
è stato anche Beppe Viola (Feltrinelli, 2013). Ma sia: questo
libro va sullo scaffale degli omaggi e dei ricordi, roba da leggere
ghignando, come sicuramente ghignava lui scrivendo.
La Milano di Viola sa di
anni Sessanta (le origini), parla dei Settanta e sfiora appena gli
Ottanta. Viola se ne va che già la fabbrica di Vincenzina è in
ristrutturazione (vedi struggente canzone), ma ancora non ci sono il
luccichìo craxista, né il Pci migliorista, né tutto il brutto che
verrà dopo da Berlusconi (uno nato all’Isola, come Beppe) in poi.
Però c’era la nebbia, e Jannacci. C’era il Derby, inteso come
cabaret (avvertenza: la Milano del Derby è come la Bologna del Dams,
sembra che ci siano passati tutti, ma non è vero), c’erano Cochi e
Renato, Dario Fo – che c’è sempre, e meno male – e c’era il
Luciano Bianchi de La vita agra, il Tognazzi diretto da Lizzani, dal
romanzo di Bianciardi, che veniva in città per far scoppiare il
Pirellone: di grattacielo c’era quasi solo quello. C’erano un
sacco di cose, compresa (si diceva già allora) la “capitale
morale”, che a quei tempi – come oggi – voleva dire i dané.
Il mischione non sembri
casuale: se si mettono insieme le stralunate epopee proletarie di
Jannacci, le periferie gelate di Romanzo Popolare (ancora
Tognazzi e la sua Vincenzina, qui la mano era di Monicelli, e Beppe
figurava come “consulente per il dialetto milanese”), i bar
brutti e quelli belli, il boom e conseguente delusione, lo stadio e
l’ippodromo, Rivera e Mazzola, e molto altro, è perché era un
mischione vero. Insomma, sì, chiedo scusa, lo scenario è ampio,
Viola ne era una pedina preziosa, ma quel che si vuol dire qui è che
esisteva una contro-narrazione di Milano, quella che sarebbe
diventata “da bere” (maledetti!). C’era un solido racconto
della sua umanità, scontroso e satiricamente opposto alla vulgata
ufficiale.
Mi scusino i tifosi del
Beppe: per gli aneddoti e le battute strepitose leggete lui che è
meglio. Però va detto: grazie a lui e a quelli come lui, che erano
poi i suoi amici, Milano riusciva a non essere descritta nella
mono-dimensione dei soldi e degli affari (e delle fabbriche, allora).
Era una città con più udienza nell’immaginario del Paese, con più
peso: la sua lingua non era bandita (si pensi a Bramieri nella tivù
del sabato sera, oggi conclamatamente romanocentrica) e non era
ancora diventata il basic-italian burocratico-nordista delle reti
Mediaset. Era in qualche modo una città contemporanea ma non ancora
moderna, un po’ gaddiana, con quartieri popolari affacciati sul
salotto buono (come il Garibaldi, poi sciccosamente recuperato in
stile “volevo essere Parigi”); e di Sesto San Giovanni si diceva
“Stalingrado”, ma senza ridere.
Grazie a Beppe Viola e
alla sua mirabolante cosmogonia, insomma, si vedevano sfaccettature
di Milano non rintracciabili nella narrazione ufficiale, ma
abbastanza popolari da diventare mainstream, si pensi alla
famosa intervista a Gianni Rivera sul tram. E qui sta il punto.
Perché oggi esiste in effetti, per la prima volta dopo anni, una
narrazione milanese, approvata e consigliata. La vetrina sul mondo,
la propaganda ottimista-governativa, il dogma del “grande successo
di Expo” che guai a contraddire, la Bocconi che benedice,
l’eccellenza lombarda nonostante il ciellismo-Formigonismo, i
grattacieli di vetro dove una volta c’era un luna park scalcagnato
(e molto jannacciano), la moda, il design… C’è tutto, e anche
troppo: compreso il “modello Milano” da esportare ovunque,
toccasana per il paese stanco che Milano dovrebbe, nel caso,
energizzare.
Ma oggi la
contro-narrazione non c’è, non è data, non esiste. Ecco: in
questi casi si innesta di solito un mix tra simulazione e nostalgia,
e si immagina cosa avrebbe potuto dire un Beppe Viola di questo e di
quell’altro, della sharing-economy (traduco: utilitarie e
biciclette), o delle periferie, visto che al Corvetto è più facile
veder giocare a domino in djaballa che a biliardo in vestiti
dell’Upim, e la vera cucina milanese si chiama sushi. Sarebbe un
esercizio divertente, ma impossibile. E questo proprio perché Viola
– che viveva di sguincio le “vite vere” che raccontava – non
era solo: era immerso, e ne era motore e interprete, in una voce
collettiva che rivendicava una Milano per i milanesi (pugliesi,
calabresi e “terroni” compresi, ovvio) e non per una milanesità
da consiglio di amministrazione, international e cool.
Rileggere oggi il vecchio
Beppe, quello che “sono entrato alla Rai rispondendo ‘no’ alla
domanda: lei è comunista?”, quello dei panini di Gattullo e dell’
“Ufficio facce”, quello del “il derby di oggi è stato così
brutto che vi mostriamo le immagini di quello passato”, fa dunque
un effetto strano. Prezioso per quel che si leggeva (a suo modo un
classico), e al tempo stesso deprimente per quel che non si legge
oggi. Una prova che ad ogni propaganda è possibile rispondere con un
racconto alternativo e vivo, allegro e non conforme. Ma anche una
conferma che oggi quel racconto alternativo non esiste, silenziato
dalle ondate contrapposte di indifferenza o ottimismo obbligatorio.
Il “modello Milano”, ha oggi il suo canto e i suoi cantori, ma
non il controcanto e i saltimbanchi. Una città a una dimensione,
moderna, sì, vabbé. Ma il 3d che sapeva darle Beppe, così antico,
era più moderno ancora.
“Pagina 99”, 12
dicembre 2015
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