Un uomo ribelle, ironico, con simpatie sovversive: questo
l'inconsueto ritratto di Kafka, come emerge dal libro di Michael Löwy
Kafka, sognatore ribelle (Eléuthera, pp. 136, euro 13). Löwy
ricorda i contatti di Kafka con gli ambienti anarchici praghesi e la
«passione antiautoritaria», da cui prende origine la sua opera
letteraria. La sua ribellione contro l'autorità patriarcale possiede
una dimensione storica e politica, presente anche nei romanzi
maggiori. Il Processo - secondo Löwy -, oltre ad essere un
resoconto di disperazione esistenziale, compie una critica radicale
del potere burocratico, che domina lo stato del Novecento. L'autorità
contestata da Kafka non è solo quella familiare e paterna, ma è
l'impersonale e anonima burocrazia, che la sostituisce in forma
sempre più radicale nel corso del secolo passato (come mostreranno
gli studi sull'autorità e la famiglia della Scuola di Francoforte).
Sembra che Kafka abbia affermato in una conversazione: «Le catene
dell'umanità torturata sono di carta protocollo», riferendosi agli
immani meandri e apparati amministrativi dello stato moderno, in cui
l'individuo viene stritolato come una rondella insignificante. Il
«Castello» dell'omonimo romanzo è il simbolo stesso di questa
anonima impenetrabilità. Secondo Löwy, i romanzi di Kafka
descrivono il passaggio epocale da un'autorità fondata sulla
dipendenza personale, ad un potere astratto che si impone «come il
meccanismo impersonale del congegno» (Löwy), destinato a uccidere i
condannati nel racconto Nella colonia penale.
In realtà, più che ad una completa eliminazione del potere arcaico
e personale assistiamo nell'opera di Kafka al suo inedito connubio
con una tecnologia «sofisticata, moderna, esatta, calcolata,
razionale» (Löwy). Il più arcaico e il più moderno si fondono
nell'ottusa brutalità dei funzionari kafkiani, che sono nonostante
tutto i rappresentanti di un'autorità astratta e insondabile. Come
già aveva osservato Walter Benjamin nel suo saggio su Kafka, il
diritto e la burocrazia sono le incarnazioni moderne del destino, che
impedisce la libertà e l'autodecisione. La reificazione burocratica
è un'espressione di quella generalmente imposta dal capitalismo, di
cui sembra che Kafka abbia affermato: «Il capitalismo è un sistema
di dipendenze che procedono dall'alto al basso e dal basso all'alto.
Tutto è dipendente, tutto è concatenato. Il capitalismo è una
condizione del mondo e dell'anima».
Una lettura così dichiaratamente politica dell'opera di Kafka non
esclude tuttavia altri piani di lettura - teologico, esistenziale,
psicoanalitico -, collocandoli in una prospettiva critica e non
convenzionale. Così, la meditazione teologica di Kafka non ha nulla
in comune con le rassicuranti interpretazioni del suo amico Max Brod,
per cui il Castello rappresenterebbe la Grazia o il governo di
Dio. Come già avevano intuito Adorno e Benjamin, quella di Kafka è
una teologia radicalmente negativa, in cui ogni Legge ed ogni Chiesa
positiva hanno perso intima vitalità e si sono trasformate in
apparati astratti al servizio del potere. «La non-presenza di dio
nel mondo e la non-redenzione degli uomini», caratterizzano secondo
Löwy la teologia negativa kafkiana. Come Benjamin, egli crede
tuttavia in una «debole forza messianica», che sarebbe rimasta in
possesso dell'umanità e sosterrebbe la sua resistenza contro il male
e l'apparato del dominio. Come Bloch, Scholem e lo stesso Benjamin
nei primi due decenni del secolo, Kafka è incline a una sorta di
paradossale «anarchismo religioso»: la redenzione messianica
richiede la cooperazione dell'uomo e questa si manifesta
innanzittutto nella distruzione degli apparati di costrizione e di
potere: «Il Messia verrà solo quando non sarà più necessario»,
scrive in tal senso Kafka in un aforisma del 1917, «non all'ultimo,
ma all'ultimissimo giorno».
Anche l'ebraismo di Kafka va considerato alla luce della sua passione
antiautoritaria. E' probabile che nella stesura del Processo
Kafka sia stato influenzato da alcune condanne per «omicidio
rituale», e dall'antisemitismo morboso che ne era derivato (in
particolare quella contro Mendel Beiliss, del 1913). Esse gli
ponevano innanzi in modo inconfutabile la maledizione del paria, che
poteva colpire alla cieca e in modo irrazionale ogni ebreo (questa
nozione è al centro di un grande saggio di Hannah Arendt del 1944).
Tuttavia, questa condizione viene da lui progressivamente
universalizzata. K. nel processo rapresenta la condizione ebraica,
eppure allo stesso tempo la sorte che sempre più frequentemente può
toccare ad ogni individuo sottoposto agli apparati giuridici della
modernità. I romanzi di Kafka sono scritti «dal punto di vista dei
vinti» (Löwy) e descrivono la reificazione che invade ormai ogni
piega dell'esperienza soggettiva, senza risparmiare quel «foro
interiore», che perfino Hobbes riteneva intangibile dalla violenza
del potere. La corruzione della più intima soggettività è
l'aspetto più inquietante dell'opera kafkiana, che Arendt ha
indicato come interiorizzazione della colpa e identificazione con
l'aggressore.
Alla fine del Processo, K. si lascia uccidere quasi senza
reagire, come rassegnato e convinto della propria colpa. In realtà,
per quel poco che sappiamo della sua vita, egli non è colpevole per
avere resistito o trasgredito a qualche legge, ma per aver
partecipato senza protesta all'apparato anonimo e impersonale, che
ora lo colpisce personalmente. Burocrate egli stesso, K. è
solitario, narcisista e indifferente alla sorte degli altri. Egli ha
compiutamente interiorizzato la legge dell'apparato, prima di subirne
e comprenderne sul suo corpo la cieca violenza. Il male compiuto da
K. è una «banale» pertecipazione all'indifferenza e alla passività
collettiva, come quelle che poi realmente permetteranno la creazione
dei totalitarismi e dei campi di sterminio. Il romanzo descrive il
risveglio doloroso della sua coscienza e la sua tardiva decisione a
lottare. Come spesso Kafka ripete nella sua opera, il rinvio e la
sospensione indefinita conducono a perdere l'attimo propizio, che
precipita inesorabilmente nel tempo mancato.
il manifesto 20 aprile 2007
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