20.5.17

Il mostro mite. Intervista a Tullio De Mauro (Fausto Marcone)

Dal sito de “l'Indice” riprendo l'estratto da un'intervista a Tullio De Mauro di qualche anno fa sull'analfabetismo, soprattutto di ritorno, sui livelli scarsi delle attività di lettura, sugli effetti sociali, civili, economici di tutto ciò. (S.L.L.)

Lei è lo studioso che più insistentemente in quest’ultimi anni ha continuato ad avvertire dei pericoli dell’analfabetismo, condizione di gruppi crescenti di italiani e non, e tuttavia anno dopo anno nulla è cambiato e i dati mostrano situazioni peggiorate. Ma, provocatoriamente, perché l’analfabetismo è la così grande iattura che si descrive? Se ci sono così tanti analfabeti e la vita nazionale scorre più o meno come sempre, perché dobbiamo preoccuparcene?
Tanto più in tempi di internet, lettura e scrittura di testi e almeno elementari capacità di calcolo e di lettura di una tabella o di un grafico sono un filtro indispensabile di utilizzazione di servizi e risorse informative, di esercizio di attività produttive di qualche contenuto tecnologico, di acquisizione e controllo critico di informazioni di ogni tipo. Gli analfabeti o semianalfabeti si ingegnano con mirabili astuzie per celare il loro handicap, ma pesano in modo terribilmente negativo sulla vita produttiva e sul reddito del paese. Pesano sulla lettura e sulle capacità di maturare insieme orientamenti meditati nella vita sociale e politica. Cerco di occuparmi non solo del mio mestiere di linguista, ma anche di scuola. E so da tutte le indagini internazionali in materia che la condizione culturale di famiglie e ambiente si riverbera negativamente sugli apprendimenti scolastici di ragazze e ragazzi: la scuola è costretta a lavorare in salita, fa molto, ma non può fronteggiare l’imponente descolarizzazione degli adulti, insomma l’analfabetismo di ritorno.

Quale motivazione dovrebbe spingere le classi dirigenti, in primo luogo la dirigenza politica del paese nel suo complesso, ad allargare le basi della comprensione e dell’intelligenza sociale, a favorire l’aumento e la redistribuzione del capitale culturale? Non sono esse in fondo espressioni di élites ed élites esse stesse? E dunque perché dovrebbero attivare processi che vanno a minare la loro esistenza? Non sarebbe, da parte loro, più desiderabile una popolazione debole dal punto di vista delle capacità critiche e dunque una popolazione più manipolabile?
La motivazione esplicita c’è ed è nell’articolo 3 della nostra Costituzione. Le disparità di livello sono un grande ostacolo alla partecipazione effettiva alla vita sociale e politica del paese. Sì, forse, come le sue domande implicano, è proprio questo che si vuole evitare. Certo più volte negli anni ho constatato che vi è una certa freddezza nei gruppi dirigenti, e non solo a destra, nel tenere conto di ciò che stiamo dicendo.

Nelle nostre società occidentali non c’è piena abbondanza di tutto. Vi sono infatti beni che sono scarsi o diventano scarsi, pensiamo oggi all’aria pulita, agli spazi urbani, alla qualità del cibo e altro ancora. Bene, la capacità di interpretazione del testo scritto e il fare su di esso inferenze medio-alte non potrebbe essere un bene scarso e accettabile in quanto tale?
È un po’ quello che pensa un mio antico allievo e amico, oggi valoroso collega, Raffaele Simone: ci fronteggia e ci sovrasta un “mostro mite” che un po’ alla volta, per carità senza (troppa) violenza, ci imbonisce e poi succhia l’ossigeno di cui il nostro cervello ha bisogno. Aldous Huxley e George Orwell dipinsero quadri, ancora impressionanti per la loro precisione profetica, delle tecniche del mostro mite e dei risultati della loro applicazione. Ma anche Piero Calamandrei ha scritto pagine memorabili (ora riedite da Sellerio) sulla “mite” progressiva svalutazione e atrofizzazione di scuola, magistratura, realtà autonome che potrebbero produrre anticorpi contro il mostro.

Un grande pianista diceva che se non suonava per un giorno se ne accorgeva solo lui, ma se non suonava per due giorni se ne accorgeva anche chi lo ascoltava. Perché insomma in questa Italia si corre il rischio di andare 11/13 anni a scuola, o anche più, e poco dopo perdere ciò che si è acquisito? Che cosa manca o che cosa vi è di perverso?
C’è un fatto fisiologico: in età adulta si calcola che regrediamo dappertutto di cinque anni rispetto ai livelli massimi di competenza conquistati a scuola, se le attività conformi a quei livelli non vengono esercitate. Domando a mia volta: in una terra senza vere librerie (sarebbero, queste, solo 300) e con più dei tre quarti dei Comuni senza una biblioteca di pubblica lettura, dove e come, uscita da scuola, la popolazione adulta può continuare a esercitare le capacità di lettura e intelligenza acquisite a scuola?

Perché l’istruzione degli adulti è la chiave di volta di un pensiero che progetta e cerca la riduzione degli indici dei vari analfabetismi? Perché non sarebbe del tutto valido un sapere esperienziale, senza la capacità di interpretare lo scritto? Si possono non possedere quelle capacità di lettura e interpretazione o di calcolo, ma si può avere un saper fare ricco di vita, ricco delle sue inferenze e dei suoi calcoli.
Quel che lei dipinge fu vero nelle società a base produttiva contadina, cioè in Italia fino ai primi anni cinquanta. Ho conosciuto quel mondo e so quanta intelligenza ospitasse. Ma oggi? Chi non sa leggere e capire palesemente non sa guidare un’automobile o, se purtroppo lo fa, combina disastri, non sceglie bene alimenti al supermercato, finisce preda delle cento e cento vannemarche sparse nel paese e esibite dalle televisioni. Ed è curioso (o no?) constatare che le abilità di un sapere di vita prezioso e prealfabetico, che abbiamo stolidamente dilapidato tra anni cinquanta e sessanta, oggi appaiono coltivate soprattutto, anzi quasi esclusivamente (a parte solo il cucito) dalla fascia più colta degli adulti e delle adulte.

Non era raro negli anni cinquanta trovare analfabeti che ascoltavano la musica colta, la lirica, piuttosto che la canzonetta leggera. Oggi lo spostamento in basso del quadro valoriale comune costituisce una minaccia per la capacità individuale di critica e di scelta?
Sì.

In un suo studio, realizzato con Adolfo Morrone, Livelli di partecipazione alla vita della cultura in Italia (Fondazione Mondo Digitale, 2008) ci ha colpito il dato, che potrebbe essere singolare ma certamente non lo è, che gli strati più attivi e più competenti culturalmente sono anche quelli che più si dedicano ad attività pratiche minute.
Vede, appartengo a quelli che credono che il cervello sia uno, una l’intelligenza nelle sue forme diverse. Probabilmente soltanto chi fa funzionare l’uno e l’altra ha gusto per quelle attività materiali che Benedetto Croce chiamò una volta “banausiche”, proprie di quella che Kant chiamava cultura della sopravvivenza. Ma altolà con l’anticrocianesimo facile. È di Croce una grande pagina in cui si spiega che opere non sono solo quelle dell’ingegno, rinomate nei secoli, ma anche le “opere di vita”, il saper attendere al quotidiano, il coltivare gli affetti. E temo (non so usare altro verbo), temo che anche di queste opere oggi siamo poveri nel nostro paese e che pochi, ormai, sappiano “l’odore dei limoni”. Riusciremo a tornare ricchi?


“L'Indice” Dicembre 2009 – anno XXVI – n. 12

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