7.5.17

Quei Galli, altro che barbari! (Lidia Storoni)

Quando ero in prima media (avevo nove anni) le poesie che dovevo studiare a memoria erano scelte non per la loro bellezza ma perché inerenti al programma di storia; un metodo che non giovava alla formazione del guasto estetico ma, se non altro, serviva a ricordare gli aneddoti: "Mesta il console ha la faccia / parla il console sommesso / cupamente al muro guarda / e ai nemici che son presso / Pria che il ponte sia distrutto / l' avanguardia sarà qua / e se giungon sopra il ponte / chi più salva la città?". Ma ecco farsi avanti Orazio. Taglia il ponte, poi si butta a fiume con tutta l'armatura e torna indietro.
Ed eccoci al medioevo: "Forte esser devi / Rosmunda, bevi" dice l' efferrato Alboino, offrendo alla sposa la coppa ricavata dal teschio del suocero da lui ucciso "bevea Rosmunda / ma con lo sguardo / parea dicesse: re Longobardo / se la vendetta qui non mi langue / berrò il tuo sangue" - cosa che in seguito effettivamente fece.
Una di quelle poesie (di nessuna ricordo l'autore) riguardava Brenno, il capo dei Galli che nel 390 a.C. saccheggiarono Roma. Non contento dei danni che aveva provocato, d'aver massacrato i senatori (che attendevano i nemici immoti su i loro scranni, simillimi - scrive Livio – diis, parevano proprio dèi) prima di andarsene pretese dai Romani qualche libbra d'oro a guisa di riscatto (lo fece anche il visigoto Alarico, ottocento anni dopo, ma non se ne andò affatto; lo fece Kappler con la comunità israelitica romana nel 1943, ma dopo pochi giorni deportò tutti gli ebrei in Germania). Al momento d'incassare, lo sleale Gallo gettò la spada sul piatto della bilancia e pronunciò la frase famosa "Vae victis!" Guai ai vinti: "Guai, disse ai vinti e la sua spada irato / Brenno gettò su la bilancia in cui / comprava a peso d'or Roma e il Senato / vergogna e libertate ai figli sui". L'episodio, come tanti altri del ciclo leggendario riguardante le ostilità tra i Romani e i Galli, doveva imprimere nelle menti uno dei pregiudizi razziali degli autori latini: i Galli sono tracotanti, vanagloriosi, noncuranti del diritto, poco resistenti al caldo e alla fatica, dediti al vino e nella loro religione compiono sacrifici umani (così come i Greci, a loro volta, sono astuti e falsi, gli asiatici effemminati, gli africani lussuriosi) - i Romani, invece, tutti leali, austeri e coraggiosi. Prima che, tra folate di nebbia e turbini di neve, uscissero dalle foreste nordiche i Germani, prima che si imponessero come nemici irriducibili i Parti, per secoli Roma si scontrò con quelli che, come scrisse Cesare nel De Bello Gallico, "nella loro lingua si chiamano Celti, nella nostra Galli". La presenza di varie tribù celtiche in Italia settentrionale, poi in quella centrale, precede di due secoli almeno l'avvenimento più noto, la loro calata fino a Chiusi, a tre giorni di marcia da Roma. Si azzardarono così a Sud (ma è un pettegolezzo e non c'è da prenderlo sul serio) perché chiamati da uno sposo etrusco tradito; non potendo uccidere il rivale, dato che era figlio del Lucumone, pensò bene per vendicarsi di provocare la rovina della città; oppure, versione più ragionevole, perché, amanti com'erano del vino, vollero portarsi via delle pianticelle di vite dalla Toscana per fare delle loro vaste pianure altrettanti vigneti: e ringraziamo Dio che l'abbiano fatto.
Le incursioni armate, gli insediamenti (e gli scambi commerciali che li precedettero) sono raccontati con documentazione rigorosa e chiarezza narrativa in un agile volumetto dell'archeologa Maria Teresa Grassi I Celti in Italia Longanesi, pagg. 125, più illustrazioni, indici e bibliografia, lire 29.500); una lettura indispensabile per chi visita la mostra veneziana. Seguendo passo passo Polibio e Tito Livio, la giovane studiosa fornisce un gran numero di notizie, vale a dire ripercorre la storia di Roma dal V al II secolo a.C. Racconta tutti gli scontri delle legioni con i Celti, armate mobili e veloci, più atte alla guerriglia e alle imboscate che alle battaglie in campo aperto (Livio infatti parla sempre di "tumultus gallicus" e non di "bellum"). Si chiamava Gallia Cisalpina (e cioè, al di qua delle Alpi) il territorio che si stendeva nella pianura padana, (Transalpina quella al di là). Furono i Celti a fondare Milano, che rimase un semplice borgo agricolo fino a che i Romani, lentamente espandendo la conquista verso Nord, non ne fecero una città.
Il nome Gallia si estese all'Emilia, alle Marche - sempre a contatto con Umbri ed Etruschi, sempre in conflitto, con varie vicende, con i Romani. Nelle necropoli sono stati trovati elmi, spade, foderi, vasellame, scudi, fibule e i famosi "torques", "girocollo" d' oro che portavano i Galli, anche se completamente nudi. Il romano Tito Manlio assunse per sé e per i successori il nome Torquato per averne tolto uno a un Gallo, da lui ucciso in duello; in un trionfo su un carro ne furono caricati circa millecinquecento.
La spinta dei Galli verso Sud indusse i Romani a fondare colonie militari lungo il loro possibile percorso, Sena Gallica, (Senigallia), e poi Rimini, Piacenza, Cremona, Modena e infine, per accelerare gli eventuali aiuti da Roma, a costruire la grande arteria di collegamento tra l'Urbe e la Gallia Cisalpina, la via Flaminia; centocinquanta anni dopo, la via Emilia.
Quella lunga serie di guerre fu celebrata nell'arte, sui frontoni dei templi di Civitalba e di Talamone, specie dopo che, respinti i Galli dall'Asia Minore, il re Attalo I di Pergamo volle eternare nel bronzo, su un tempio dedicato ad Atena, quel successo sui barbari d'Occidente, ponendolo alla stessa stregua di quello d'Atene sui Persiani: opere splendide, di cui conosciamo copie romane in marmo (il Gallo morente, il Gallo suicida con la moglie). L'iconografia tradizionale li raffigura nudi, atletici, con lunghe chiome, e non manca di rispetto per il loro valore: atteggiamento tipico dei Greci di fronte al nemico, di Omero verso il troiano Ettore, di Eschilo verso i nemici Persiani.
Abbiamo ereditato dai Galli l'uso natalizio del vischio: i loro sacerdoti, i Druidi, andavano a raccoglierlo su gli alberi con un falcetto d' oro il giorno del solstizio d' inverno (21 dicembre) e se ne vede moltissimo sulle querce spoglie. In memoria del loro eroe, Vercingetorige, che si arrese a Cesare dopo la disperata difesa di Alesia, i francesi hanno posto una piccola lapide nel carcere Mamertino, dove fu strangolato la sera del trionfo del dittatore. La sua figura leggendaria, infine, sopravvive nei fumetti, è il valoroso Asterix, che si batte contro i cattivi Romani.


“la Repubblica", 2 agosto 1991  

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