12.5.17

Razzismo fascista. E la cultura disse 'sì' (Nello Ajello)

La servitù di un letterato, scrisse molti anni fa un illustre critico, Francesco Flora, è sempre volontaria anche quando è passiva. Dopo la pubblicazione del Manifesto della razza, intellettuali, letterati e giornalisti esercitarono la loro servitù in maniera particolarmente attiva. Non soltanto gli organi di stampa del razzismo ufficiale, come La vita italiana di Giovanni Preziosi, Il Quadrivio o Il Tevere di Telesio Interlandi, Il Regime Fascista di Roberto Farinacci, ma anche i quotidiani normali sembrarono animarsi al seguito di una missione, sia pure turpe. E per un certo numero di scrittori l'antisemitismo rappresentò una comoda palestra in cui esercitare virtù retoriche e talenti pedagogici.
Era stato proprio Interlandi, massimo divulgatore dell'antiebraismo littorio, a proclamare sulla Difesa della razza, fin dai primi giorni di agosto del 1938, che la campagna antisemita segnava una vera rivolta intellettuale, in quanto mirava alla liberazione dell'Italia dai caratteri remissivi che le erano stati imposti dalle precedenti classi politiche. Quale occasione migliore, dunque, per mostrarsi aggiornati e rivoluzionari, senza alcun rischio, anzi avrebbe detto Francesco De Sanctis, “con licenza de' superiori”? In un saggio intitolato Le persecuzioni razziali in Italia, pubblicato in quattro puntate sul Ponte, fra il 1952 e il 1953, Antonio Spinosa offriva una nutrita antologia di scritti, letterari e giornalistici, dichiara obbedienza razzistica; e altrettanto ricca, in questo senso, è la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo De Felice. Si tratta di documenti penosi, ma istruttivi.
Per questo genere di letteratura, il 1938 è naturalmente l' anno dei portenti. Esce appunto in quell'anno un saggio dello storico Gabriele De Rosa, intitolato La rivincita di Ario, in cui si sostiene l'identità ebraismo=comunismo, binomio contro il quale c'è l'asse Roma-Berlino. “Tutti sanno, - scrive De Rosa, - che noi combattiamo in terra di Spagna non l'iberico nemico, ma la terza internazionale ebraica, quella creata dall'ingegno giudaico-massonico del Komintern. Gli fanno eco, fra gli altri, giornalisti come Felice Chilanti e Ugo D'Andrea. Critici delle più diverse discipline s'impegnano, intanto, nel denunziare i danni che l'ebraismo infligge alla creazione artistica. Un noto musicologo, Francesco Santoliquido, definisce assurdamente, nell'agosto 1938, l'intera musica moderna un vero e proprio monopolio della razza ebraica. Poco più tardi, un critico letterario, Francesco Biondolillo, cerca invece di dimostrare che il pericolo maggiore è nella narrativa. Qui, da Italo Svevo, ebreo di tre cotte, ad Alberto Moravia, ebreo di sei cotte, si va tessendo tutta una miserabile rete per pescare dal fondo limaccioso della società figure ripugnanti. Moravia non era nuovo a simili attacchi.
Già otto anni prima, nel 1931, essendo andato a visitare Giovanni Papini, era stato accolto con una battuta sconcertante: “Lei collabora alla rivista Solaria. I solariani sono o zoppi, o ebrei, o omosessuali. Lei è tutte e tre le cose”. “Si trattava di una frase almeno in parte inesatta”, commenta ora Moravia. Ma si può aggiungere quel tipo di accoglienza rientrava nello stile di Papini, autore, proprio nel' 31, di un romanzo intitolato Gog e ispirato al più schietto antisemitismo. Fra gli scrittori contemporanei di Papini o anche più anziani, lo spirito antiebraico non era, d'altronde, ignoto. Per Alfredo Oriani (1852-1909) dopo Gesù gli ebrei non hanno più davvero creato: nella filosofia, nella scienza, nell' arte, nella politica, possono tutto sapere, tutto adoperare: creare no. Simili umori razzisti sarebbero stati condivisi da Enrico Corradini (1865-1931), giornalista, letterato e leader politico nazionalista, poi accostatosi al fascismo. Per non parlare di Ardengo Soffici (1879-64), ispiratore ideologico fra l' altro di quel Selvaggio che individuava il proprio nemico nella plutocrazia ebraica internazionale.
Ma ora, nei tardi anni Trenta, quei lontani precedenti si amalgamavano in una parola d'ordine unitaria, e gli intellettuali antisemiti diventavano una pletora. Fra i più zelanti fu Guido Piovene, autore, sul “Corriere della Sera” del 15 dicembre 1939, di una recensione entusiastica a un libro immondo, Contra judaeos di Telesio Interlandi. La virtù principale di quest'opera consisteva, a suo parere, nell'aver ridotto all'osso la questione ebraica. Secondo Piovene, comunque, salvarsi dagli influssi semitici non era difficile: si deve sentire d'istinto, e quasi per l'odore, quello che v'è di giudaico nella cultura. Nel libro La coda di paglia (1962), lo scrittore avrebbe poi abiurato queste posizioni, confessando di aver obbedito da schiavo, senza sentirsi mai partecipe alle direttive del regime e aggiungendo che, nel ricordo, il fascismo era diventato per lui la figura stessa della sua umiliazione, umana, e soprattutto intellettuale. In altri casi, come quello di Amintore Fanfani il quale, in un saggio del '39, sosteneva che per la potenza e il futuro della nazione gli italiani devono essere razzialmente puri un'abiura altrettanto recisa e penitenziale non c'è stata. E neppure c'è stata nel caso di Gioacchino Volpe, storico insigne (1876-1971), al quale nel 39 la politica della razza parve una tappa verso la costruzione di un'Europa veramente unita e solidale.
Ma torniamo a letterati e giornalisti. Con lo scoppio della guerra l'antisemitismo diventa un condimento abituale nei racconti degli inviati speciali. Dal ghetto di Varsavia, nel '39, Paolo Monelli scrive sul “Corriere della Sera”: “Nulla ci pare di aver in comune con questa schiatta ebraica, con la sua strana lingua, le sue insegne illeggibili, gli esotici costumi, i gesti paurosi, l'andare sbilenchi il più rasente al muro possibile”. Dalla Jugoslavia gli risponde, due anni più tardi, Alfio Russo, affermando sulla “Stampa” che “Stato Maggiore, Chiesa ortodossa, ebrei agivano nascostamente da tempo, preparavano la vanga per scavare la fossa della Jugoslavia”. Dalla Cecoslovacchia, Curzio Malaparte denunzia sul “Corriere” il pericolo sociale che rappresenta, per le città boeme, l'enorme massa del proletariato giudaico; mentre Giovanni Ansaldo scopre sulla “Gazzetta del Popolo” che sono stati gli ebrei a volere il conflitto mondiale: i rabbi di Nuova York, spingendo l'America alla guerra, hanno seguito l'istinto e la tradizione della razza.
Ci sono poi gli ossessi, come Mario Appelius e Marco Ramperti. Per il primo, Israele, traditore del mondo è un bersaglio continuo, alla radio e sui giornali. Per il secondo, “più che dalla stella gialla gli ebrei si riconoscono dalla ferocia dello sguardo”. Così scrive nel dicembre 1941, e continua: “gote livide, bocche ferine, occhi di fiamma ossidrica, spianti e perforanti di sotto in su. Se potessero, gli ebrei farebbero una strage”. E fra gli ebrei, Ramperti ne elegge uno, destinatario privilegiato dei suoi furori: il più sozzo, il più ripugnante, il più disumano e nemico è Charlot... l'avaro Charlot, l'indecente Charlot, il montecatto Charlot. E qui siamo alla trascrizione letterario-anedottica, con l' aggiunta di una furibonda retorica, delle teorie di Giovanni Preziosi e di Julius Evola.
Furono tutti così? Sostenerlo sarebbe fuori luogo. Perfino nell'intellighenzia fascista si riscontrano casi di adesione soltanto parziale al razzismo, o addirittura di ripudio. Nella prima categoria va inserito per fare qualche rapido esempio Giuseppe Bottai che, a detta di un suo biografo, Alexander J. De Grand, fu in grado di limitare l'applicabilità alla cultura delle teorie antisemite; nella seconda, Filippo Tommaso Marinetti, che espresse la sua disapprovazione fin dal novembre 1938. In ambiente cattolico, Giorgio La Pira fu tra i più ostili alla campagna antisemita. A divisioni significative si assiste anche nel dibattito sul tema arte e razza. Ugo Ojetti si riconosce nel fanatismo razzista. L'ex futurista Carlo Carrà si schiera invece con coraggio sulla trincea opposta: “Chiamare ebraizzante l'arte moderna italiana, non potendo chiamare ebrei gli artisti che oggi meglio la rappresentano, è tutto sommato molto puerile”. Siamo nel dicembre del ' 38. Pochi giorni prima, il 28 novembre, si è suicidato a Modena, gettandosi dall'alto della torre Ghirlandina, un intellettuale ebreo: il sessantenne editore Angelo Fortunato Formiggini. Era un uomo colto, con una vera di caustico anticonformismo, come dimostra un suo pamphlet del 1923 contro Giovanni Gentile. Aveva creato una casa editrice di buon livello. In una lettera indirizzata alla moglie poco prima di uccidersi, scrisse che sentiva un dovere impellente: dimostrare l'assurdità malvagia dei provvedimenti razzisti. Forse Formiggini non immaginava, con queste parole, di dettare un'epigrafe. Su se stesso e su un momento assai triste della storia d' Italia.


“la Repubblica”, 12 luglio 1988  

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