27.6.17

Ben e Claretta amanti di regime. Una stroncatura (Patrizia Carrano, 1974)

Nell'aprile del 1974 era in corso la campagna per il referendum voluto dai clericali per l'abrogazione della “legge Fortuna”, quella che nel 1970 aveva introdotto in Italia l'istituto del divorzio. Tra i sostenitori del Sì all'abrogazione era in prima fila Giorgio Almirante, il segretario del MSI neofascista, e con lui tutto l'apparato del suo partito di estrema destra. In prima fila per il No all'abrogazione c'era l'UDI (Unione Donne Italiane), la storica associazione delle donne di sinistra, a quel tempo in grande crescita, insieme alimentata e scossa del vento del femminismo. Per il 25 aprile il settimanale dell'UDI “Noi donne” pubblicò uno speciale dal titolo I fascisti: sempre gli stessi contro la donna, sul maschilismo nel ventennio e dopo il ventennio. Ci sono ben due articoli dedicati al cinema, uno del critico Enzo Rava centrato sulla figura femminile nei film italiani degli anni Trenta e un altro di Patrizia Carrano su un film recente, il Mussolini ultimo atto di Carlo Lizzani, una “stroncatura” molto ben riuscita. Non sono del tutto d'accordo con la Carrano a proposito del film, ma il suo pezzo mi pare un notevole esempio della critica femminista di quegli anni, degno di essere fatto conoscere anche a 43 anni di distanza dalla sua stesura. (S.L.L.)


Nell’ambiguo film di Lizzani
Mussolini ultimo atto
è chiara solo una cosa:
per il capo fascista
la moglie sta a casa
e l’amante nell’alcova

Il vero, assoluto protagonista del film Mussolini ultimo atto è l’amore di Claretta Petacci e di Ben, come lei affettuosamente chiamava «il duce». Solo che, probabilmente Lizzani s’è confuso, e ha creduto di girare un film sulla tragedia di Mayerling, una versione in costume anni quaranta di Giulietta e Romeo, una interpretazione romanzata in panni semimoderni di Paolo e Francesca, e non come invece lui stesso sostiene « la ricostruzione del grande dibattito intorno alla fine di Mussolini che si svolse a Milano, nei comandi tedeschi, nelle ambasciate alleate, nelle zone partigiane ».
Infatti più che all’epilogo d’una tragica pagina della nostra storia noi assistiamo alla fuga di due amanti braccati: lui tetro, compreso di apocalittici pensieri eppure dignitoso e presente a se stesso. Lei disperata, piangente, romantica, felice finalmente d’essere vicina al suo «lui», che ormai da tanti anni divideva non solo con la legittima consorte ma anche con tutte le altre occasionali visitatrici di palazzo Venezia. Già, perché come tutti gli amanti della tradizione i due non solo sono ostacolati nella loro ricerca di felicità dal mondo esterno (e cioè alleati, partigiani, tedeschi tutti mescolati in un unico calderone), ma anche da una condizione oggettiva: lui è sposato, ama fervidamente lei, ma non si stacca dal talamo nuziale; la tiene presso di sé ma intanto telefona alla moglie (e, mascalzone, le dice anche che è l’unica donna che abbia mai veramente amato, mandando in vacca cosi il sentimento che lo lega all’amata e insinuando in noi il dubbio che sia un farabutto). Salvo poi riabilitarsi quando, «costretto» a salvarsi e a indossare un cappotto tedesco per sfuggire alla cattura, chiede che anche lei possa essere sottratta alla furia del popolo (che guardacaso sono gli antifascisti italiani). Alla fine però, queste due vite, vincolate dall’amore e divise dal fato si riuniscono nella morte. E c’è anche da chiedersi se non andranno in paradiso.
Carlo Lizzani ha con questa sua ultima fatica fabbricato un polpettone degno della campagna elettorale di Almirante. Fu Almirante infatti a dichiarare alla televisione italiana che «i missini non rinnegavano la resistenza e i suoi valori, ma neppure il fascismo e il suo contributo alla storia d’Italia»: anche questo film non rinnega niente e sotto un falso pretesto di oggettività racconta la storia di un uomo sconfitto sul campo delle armi (l’inizio mostra una grande cartina con le conquiste tedesche che pian piano si riducono sino a diventare quella stretta lingua di terra in Italia e in Germania in cui si svolsero i fatti dell'aprile del ’45) al quale, forse un po' troppo frettolosamente, viene fatta la pelle. Il Mussolini di Lizzani assomiglia paurosamente a Napoleone, forse anche per colpa di Rod Steiger che già interpretò la figura del condottiero francese nel film di Bondarciuk. Noi tutti sappiamo che Napoleone era un guerrafondaio, che la sua era una politica d'imperialismo sfrenato, che la sua «grandeur» era l’espressione duna ideologia reazionaria (come prova del nove basta ricordare che le leggi napoleoniche, poi applicate anche in Italia sono il condensato della misoginia e che considerano la donna come un oggetto di proprietà del marito). Però è anche innegabile il fascino dell'imperatore, un fascino a cui i francesi ancora non si sono sottratti.
Ora non vorremmo che film come quello di Lizzani contribuissero a irreggimentare quella sparuta truppa di nostalgici che ancora inneggiano alle camicie nere fasciste. Il Mussolini di Lizzani è in fondo un uomo probo e dignitoso, uno statista che ha fatto errori di valutazione, e che ha sopravvalutato la forza dell'esercito tedesco, un politico intelligente tradito da quei tristi fantocci dei suoi generali. Che se non fossero stati cosi stupidi, non l’avrebbero neppure condotto alla rovina. Tradito dai suoi, tallonato dai tedeschi, braccato dagli inglesi e dagli italiani, Mussolini diventa da carnefice vittima. E i partigiani degli algidi killer di maniera. C’è un solo momento in cui il film abbandona le cupe voragini della confusione e del qualunquismo: ed è quando i partigiani della brigata Garibaldi mobilitano gli operai della fabbrica per ingannare la colonna tedesca: ma anche lo sventolio della bandiera rossa, sulla ciminiera dell’officina ha ben poca efficacia: lo stile è quello d’un carosello per la réclame della pasta dentifricia. Lo stesso colonnello Valerio non riesce a conquistarsi le simpatie del pubblico: certo ha il bel viso di Franco Nero, ma in fondo tutta la platea finisce con lo sperare nella fuga di Mussolini in Svizzera e nel gioire di tutti gli impicci che si frappongono al compimento della missione dei partigiani.
Due possono essere le ragioni di un film tanto disastroso e ambedue non fanno certo onore a Lizzani: la prima è una oggettiva ambiguità nelle intenzioni politiche, la seconda è invece una sostanziale onestà d'intenti tradita dall'incapacità di realizzarli. In ognuno dei due casi il verdetto è sconsolante: e pensare che Lizzani è un regista al quale dobbiamo un film sul fascismo, appunto, come Il processo di Verona. Anche Claretta, che vista l'importanza data al suo personaggio avrebbe potuto essere la giusta occasione per fare un discorso sulla donna «nera», fascista, legata fino alla fine al mito del duce, dell’eroe, vittima dell'ideologia che delle donne ha saputo fare solo delle vittime è, nel film di Lizzani, un personaggio che ha accenti più isterici che critici.

"Noi donne", 23 aprile 1974

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