21.6.17

Caproni, o della poesia (Walter Cremonte)

Giorgio Caproni
Se dovessi dire qual è, per me, il più bel libro di poesia del Novecento italiano, direi senza esitazione che è Il seme del piangere di Giorgio Caproni. Questo libro, apparso nel 1959 (ora in Tutte le poesie, Garzanti), rappresenta un momento della piena maturità poetica e in tutti i sensi centrale nella produzione di Caproni, di cui oggi forse si apprezzano di più le ultime opere, ispirate ad una radicalità negativa di straordinaria intensità espressiva e forza persuasiva. Ma Il seme del piangere, e in particolare la prima parte del libro, che ne è il cuore, gli amatissimi Versi livornesi, è quanto di più commovente la poesia del nostro tempo ha saputo creare, un vero miracolo di quella poetica “fine e popolare” che Caproni ha inventato.
In un testo quasi programmatico, quasi all’inizio del libro, il poeta, rivolto alla propria “mano” (alla propria poesia), scrive: “Mia mano, fatti piuma: / fatti Vela; e leggera / muovendoti sulla tastiera, / sii cauta. E bada, prima / di fermare la rima, / che stai scrivendo d’una / che fu viva e vera. ”. E poi: “Sii arguta e attenta: pia. / Sii magra e sii poesia / se vuoi essere vita. / E se non vuoi tradita / la sua semplice gloria, / sii fine e popolare / come fu lei...”.Lei è la madre del poeta, Annina, rievocata nella Livorno umile e ariosa, piena di vento e di odori, della sua giovinezza: in un’età favolosa, o mitica, che precede la nascita del poeta; un’età fuori della storia, di prima della storia (ma non del tutto: c’è la guerra che minaccia questo fragile equilibrio). Un’età di incontaminata grazia originaria. Per questa madre-ragazza il poeta scrive i suoi versi d’amore, o di contemplazione alla maniera della lode stilnovistica (senza però, di quella, la stilizzazione spiritualizzante). E se la fantasticheria lo può spingere per un attimo a sognarsi “fidanzato” di sua madre (“Dille chi ti ha mandato: / suo figlio, il suo fidanzato” dice rivolto alla propria “anima” nel congedo della poesia più famosa di questa raccolta, quella che inizia con “Anima mia, fa’ in fretta. / Ti presto la bicicletta, / ma corri...”), sarebbe un grosso equivoco sospettare in tutto ciò qualcosa di edipico. Sarebbe troppo facile, anche se certe parole chiave come colpa, errore, rimorso lasciano un’ombra di ambiguità su questi versi così lievi, agili, così cantabili come in pochi altri nostri autori del Novecento (Saba, Penna...). Ma il rimorso, che morde come un cane, è per qualche altra cosa, per il tradimento che la vita (il puro e semplice biologico atto del diventare adulti anche dei figli, staccarsi dall’innocenza di un’età anche solo sognata) ha teso a questa ragazza dai pensieri “alberati e freschi’ e alla sua giovinezza (“ Come scendeva fina / e giovane le scale Annina”). E poi Annina è morta (“Annina è nella tomba. / Annina, ormai, è un’ombra.”), e questo viaggio a ritroso nel tempo è solo un’illusione, un inganno (un autoinganno) che la morte non fa altro che rivelare. E il seme del piangere che non può, come in Dante, essere “posto giù” di fronte a una verità che salva assolutamente da ogni smarrimento (“Pon giù il seme del piangere ed ascolta...”, Purg. c. XXXI): qui il pianto semina il pianto, in un moto circolare inconcluso, sia che il poeta cerchi in un passato impossibile, irreale, il senso del proprio esistere; sia che si proietti — per un miracolo, diciamo, speculare — al di là del tempo, in un futuro in cui il poeta sia figlio di suo figlio e da lui possa ottenere il risarcimento alla propria sconfitta: in una raccolta successiva, Il muro della terra, il poeta scriverà i versi splendidi dedicati al figlio: “Portami con te lontano / ... lontano... / nel tuo futuro. // Diventa mio padre, portami / per la mano / dov'è diretto sicuro / il tuo passo d’Irlanda / - l'arpa del tuo profilo / biondo, alto / già più di me che inclino / già verso l’erba.”.
Il doppio scacco (impossibilità di ridare vita al passato, a ciò che è morto; impossibilità di prolungare nel futuro l’ansia di vita e di verità) riporta al presente, a questo presente che però si rivela come nulla, non essere: “Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. // Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai.”, scriverà anni dopo Caproni. Ma è importante osservare che il doppio scacco è determinato, in tutti e due i casi, da eccesso d’amore (che, come un vento, scuote questi versi fragili); così, se il prezzo da pagare a questo eccesso d’amore sarà una sorta di non-vita, il compenso sarà la durata di Annina, “che fu viva e vera”: la memoria poetica di una figura che ha saputo rivalorizzare la rima “in cuore e amore” (le “rime chiare, / usuali: in -are”, le rime “aperte, ventilate”, le rime “verdi, elementari”...), una memoria che non avrà mai fine. Intatta, incorruttibile, viva.


“micropolis, dicembre 2004

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