10.6.17

Che fine ha fatto il borghese (Federico Bertoni)

Banchieri
Che fine ha fatto il borghese, quel personaggio che ha inventato l’organizzazione capitalistica del lavoro, e ha reso il nostro mondo quello che è? Sembra essersi fatto di nebbia. È da questo apparente paradosso che muove l’ultimo libro di Franco Moretti, Il borghese Tra storia e letteratura, uscito in inglese nel 2013 e ora tradotto da Giovanna Scocchera per Einaudi.
Pensiamo che la nostra forma di vita corrisponda all’ultima fase evolutiva della borghesia, ma in realtà il borghese è scomparso: «Anche se il capitalismo è più potente che mai (soprattutto in termini distruttivi, degni di un golem), la sua incarnazione sembra essere svanita nel nulla», scrive Moretti. Non resta che evocarlo con quell’atteggiamento «negromantico» sul quale insisteva Michel de Certeau: la scrittura della storia come rito di sepoltura, dialogo con i morti, cerimoniale simbolico che risuscita il passato. Studiando le forme letterarie, nota infatti Moretti, «entriamo in un regno di ombre, dove il passato riacquista la sua voce e continua a parlarci». È questo il «possibile contributo» della storia letteraria «alla conoscenza storica».
Dunque un libro in cui l’analisi dei testi è strumentale alla ricerca storiografica, in cui la letteratura è solo un pretesto per parlare d’altro? A prima vista sembrerebbe di sì, ma è una impressione sbagliata. Il borghese riserva belle sorprese. L’impianto è articolato ma perfettamente chiaro: introduzione teorica; primo capitolo sul prototipo per eccellenza dell’uomo borghese, Robinson Crusoe, con dialogo a distanza tra Defoe e Weber; secondo capitolo sul «secolo serio», l’Ottocento, momento trionfale della letteratura borghese (forse il più discutibile, riscrittura di un saggio del 2001, dove Moretti cerca di ricondurre tutto il romanzo ottocentesco a un’unica dominante formale, i «riempitivi»); terzo capitolo sulla cultura vittoriana, baricentro ma anche punto di svolta del libro; quarto capitolo che si allarga «verso i margini del sistema mondiale moderno» (Brasile, Italia, Spagna, Polonia e Russia), dove la coesistenza di ancien régime e capitalismo produce mostri, vere e proprie «malformazioni nazionali»; ultimo capitolo su Ibsen dove va in scena il «regolamento di conti» del secolo borghese. Disseminate tra i capitoli due serie di rubriche fisse, intitolate Prosa e Parole chiave, che restituiscono la vera ossatura concettuale (ma anche metodologica) del libro.
Le parole chiave si basano sull’idea – tratta da Benveniste – che la lingua sia uno «strumento per dare un assetto al mondo e alla società»: dunque utile, efficienza, comfort, influenza, roba, serio (nella duplice versione serious e earnest) sono i principali mattoni lessicali con cui la borghesia europea ha costruito il suo sistema di valori e il suo orizzonte simbolico. La prosa è addirittura il «vero eroe di questo libro»: un eroe per caso, ammette più volte Moretti, promosso al rango di protagonista in modo preterintenzionale. Scoprire che il borghese si annidava soprattutto negli stili è stata «una sorpresa non indifferente»: «non era questo l’obiettivo; è semplicemente successo», «e ci sono momenti in cui mi stupisco ancora del fatto che le pagine sugli aggettivi vittoriani potrebbero costituirne il fulcro concettuale».
C’è qualcosa di sintomatico nelle formule con cui Moretti quasi si scusa di ciò che per un critico letterario dovrebbe essere ovvio: studiare le parole, le etimologie, i campi semantici, le opzioni stilistiche, le strutture narrative, le formazioni sintattiche e grammaticali – «persino il ruolo del gerundio in Robinson Crusoe (a prima vista compito tutt’altro che allettante)». Sintomatico perché è un tic che ormai contagia molti di noi, studiosi di letteratura, salvo quelli sordamente e felicemente rinchiusi nei loro minuscoli appezzamenti disciplinari. Ma quando vince queste inibizioni, analizzando appunto il ruolo del past gerund nella prosa di Defoe o l’uso «moralizzato» degli aggettivi nei testi vittoriani, Moretti tocca i nodi centrali del suo tema, mettendo a frutto con discrezione anche una delle sue ultime passioni, quella per gli strumenti informatici usati per l’analisi quantitativa dei corpora testuali (le digital humanities).
È questa prospettiva un po’ schizofrenica a rendere, in fin dei conti, così interessante il libro. Senza esplicitarlo, Moretti fa sua una concezione che viene da lontano, passando attraverso Flaubert e Proust: lo stile come «modo assoluto di vedere le cose», non semplice «questione di tecnica» ma «qualità della visione». Così, la «mentalità» del borghese è fatta innanzitutto di «strutture grammaticali», «associazioni semantiche inconsce», perché «le minutiae della lingua rivelano segreti che le grandi idee spesso mascherano».
Non è una sorpresa da poco per uno che, un po’ sul serio e un po’ per épater les bourgeois, aveva teorizzato il metodo del distant reading (in un saggio del 2000, Conjectures on world literature), mostrando il quadro generico di una Letteratura vista da lontano (titolo di un libro del 2005) attraverso grafici della storia quantitativa, mappe geografiche e alberi genealogici della teoria dell’evoluzione.
Il borghese segna insomma una tappa particolare nel percorso critico di Franco Moretti. Da un lato è un libro di ricapitolazione e conferma, che ritorna su alcune strade già battute (Il romanzo di formazione, Segni e stili del moderno, Il romanzo, Atlante del romanzo europeo). Dall’altro è un saggio critico, perché ridiscute alcune certezze e riparte verso nuovi territori testuali. Non è un caso che a chiuderlo sia un drammaturgo e non un romanziere.
È qui infatti che emerge il significato politico del libro e si sciolgono alcune rigidità teoriche e interpretative, primo fra tutti l’assunto – mediato da Lukács, Althusser e Jameson – secondo cui i testi letterari sono soluzioni simboliche di problemi e contraddizioni sociali. Perché Ibsen non risolve proprio niente, come a suo modo Flaubert (che forse in un libro sul bourgeois meritava un ruolo maggiore): fa coesistere le dissonanze e le lascia aperte, in un mondo claustrofobico in cui non si respira, in cui non ci sono soluzioni né alternative alla duplicità atavica del moralismo borghese. È la coesistenza tra etica del lavoro e violenza predatoria che si vedeva già nella struttura ibrida del Robinson Crusoe. È l’ambiguità per cui azioni moralmente sbagliate possono essere formalmente giuste, non sanzionate dalla legge, nel paradosso di un’ingiustizia torbida, equivoca e spietata ma perfettamente legale.
Qui Moretti – e pour cause – non trova una parola chiave ma mutua un concetto da Primo Levi, la zona grigia: qualcosa di troppo pervasivo e conforme allo «spirito del capitalismo» per essere riconosciuto e nominato. E qui Il borghese diventa davvero un «libro di parte», come rivendica lo stesso Moretti, nel significato migliore del termine: non tanto perché menziona lo scandalo Enron o suggerisce un nesso tra l’Inghilterra vittoriana e l’american way of life, ma perché rilegge il passato mettendo in gioco la stessa postazione ideologica da cui lo osserva.
Quando Moretti parla degli «ideali» e della «legittimità borghese», di un «potere giustificato da valori», di una classe dirigente che comanda «perché merita di farlo», sembra di avvertire una sfumatura vagamente nostalgica, e in fondo si capisce: di fronte alle fantasie distruttive di squali senza scrupoli, meglio le virtù noiose ma oneste del buon vecchio realismo borghese.
Forse però la vera dissonanza sta nel fatto che lo squalo è l’altra faccia del bravo borghese, non il suo nemico ma il suo compagno segreto. E Moretti, che lo intuisce soprattutto attraverso Ibsen, avrebbe potuto spingersi più a fondo. Chissà che non avesse ragione Christian Buddenbrook, la pecora nera della famiglia: «A guardar bene, però, ogni uomo d’affari è un truffatore».

Alias – il manifesto,12.3.2017

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