25.6.17

Firenze, 1912 + 1. Le Giubbe rosse, Dino Campana e Federigo Tozzi (Attilio Lolini)

Attilio Lolini, poeta tra i più autentici e letterato tra i più fini, è morto tre giorni fa nelle campagne del senese, ove viveva. È stato molto a lungo collaboratore del “manifesto”, ove – in occasione dell'uscita delle Bestie di Federigo Tozzi, ha pubblicato il pezzo che segue, ricostruzione vivace, acuta e appassionata di una pagina importante di storia letteraria. Il titolo, ispirato a un bel libro di Leonardo Sciascia, è mio. (S.L.L.)

Si torna a parlare di un celebre caffè fiorentino: Le giubbe rosse, di Piazza della repubblica e non soltanto perché oggi, un po’ nostalgicamente, vi si tengono dibattiti culturali e presentazioni di plaquettes, ma per via di un libro di Sebastiano Vassalli, edito da Einaudi: L’Alcova elettrica che ricostruisce, con straordinaria vivacità, il processo che, nel 1913 il Pubblico Ministero presso il Tribunale Civile e Penale di Firenze Albini intentò contro la rivista Lacerba, di Giovanni Papini (e contro il «diavolo» futurista) nella persona di Italo Tavolato autore di uno «scandaloso» articolo Elogio della prostituzione, «progettato» e scritto per aumentare le scarse vendite della traballante pubblicazione edita dal tipografo Vallecchi, allora ai suoi esordi di Editore.
Già Vassalli si era occupato de le Giubbe rosse nel suo romanzo-verità (sempre edito da Einaudi): La notte della cometa, che ricostruisce, con un’imponente e accurata documentazione in gran parte inedita, la vita di Dino Campana, il poeta «matto» di Marradi, malvisto da Papini e Soffici e dalla società letteraria che frequentava Le giubbe rosse, un caffè che continuerà la sua ragguardevole «storia» fino agli anni cinquanta.
L’atteggiamento di Campana, nei confronti degli scrittori editori di Lacerba e della Voce (ai quali manda i propri versi) è, in genere, di sprezzo: «Ho verificato che per fare qualcosa di leggibile bisogna essere bastonati a sangue. Io farei altrettanto con quasi tutti gli scrittori della Voce». Lui chiama i già celebri personaggi parvenus della letteratura in assoluto dispregio d’ogni tattica, delle regole del gioco letterario che sono poi, scrive Vassalli, il trasformismo, il servilismo, l’adattamento all’ambiente. Papini e Prezzolini (ma anche Soffici, Marinetti e compagnia) risponderanno adeguatamente; si accaniranno a tal punto su Campana ancora dopo molti anni dalla morte nel tentativo di annientarne la fama, di cancellarne la memoria e, vanamente, il genio.
Dino Campana
Fu messa in giro anche la problematica storiella della vendita dei Canti orfici ai clienti delle Giubbe rosse, unico testimone Marinetti, vendita che il poeta faceva strappando alcune pagine del libro e dicendo al compratore: «Tanto tu queste non le capiresti».
Per i letterati del già noto caffè Campana è, veramente, un personaggio imbarazzante; la sua miseria è spaventosa; cammina, scrive Vassalli, scalzo per risparmiare le scarpe che porta unite per i lacci, a tracolla dalla spalla sinistra. Dorme all'asilo notturno e va a fangiare alla famigerata Società per il pane quotidiano; in realta digiuna arrangiandosi a fare in po' di tutto, dal facchino al fattorino.
La storia è nota: Soffici, al quale Papini “dirotta” il giovane poeta perderà i Canti Orfici, senza neanche averli letti.
I futuristi, chiamati in soccorso a Lacerba hanno colonizzato» Firenze: il 13 dicembre al teatro Verdi hanno organizzato una serata : sono elegantissimi; si chiamano Marinetti, Carrà, Boccioni, Cangiullo; l’uomo dei boschi, Dino Campana cerca Soffici alla Giubbe Rosse ma non lo trova, si reca al Verdi; è schernito dallo stesso Boccioni che esclama: «Signoreiddio, c'è ancora gente che va in giro con la pidocchieria!».
«La cercavo», dice Campana a Soffici, che sfoggia un monocolo incastrato con disinvoltura nel sopracciglio sinistro, «per darle una poesia che ho scritto sopra un suo quadro».
Soffici è seccatissimo: «Non vede che stiamo concertando lo spettacolo di stasera, risponde, vada a comprarsi il biglietto, piuttosto».
Il pittore Carrà è ancora più spietato; rivolto a Campana dice : «Se ci promette di venire a teatro vestito solo d’una pelle di capra noialtri gli procuriamo un biglietto hommage, non è vero Soffici?»
Campana chiede notizie delle sue poesie: «Basta», urla Papini, «io non ne so nulla!», butta il tovagliolo sul tavolo. «Da quando s’esce con Lacerba — dice Marinetti sconsolato — nemmeno a tavola si sta in pace».
Un altro grande sfiorò le Giubbe rosse in quegli anni: Federigo Tozzi; anche a lui Papini dedicò la medesima attenzione.
Meno randagio di Campana ma non dissimile dal poeta di Marradi, Tozzi fu anche lui un grande camminatore, un ciclista in grado di pedalare da Siena a Roma, da Siena ad Ancona, che aveva in sprezzo gli uomini del caffè, la loro affettazione, le loro riviste e, in una parola, la loro mentalità. S’era invischiato in un’impresa come la rivista La Torre, in odio a Lacerba e ai costumi futuristi, con un personaggio come Domenico Giuliotti, fautore d’una destra terribile e pittoresca e gran nemico del «moderno» contro il quale chiamava ogni momento l’arma dei Carabinieri.
Federigo Tozzi
A Tozzi, in realtà, la politica interessava poco o nulla; la «congiura» contro Lacerba, o meglio la denuncia contro l’articolo di Tavolato: L’elogio della prostituzione, vede come attori il Giuliotti e il killer dello stesso: Ferdinando Paolieri, giornalista de La Nazionale.
Vassalli «ambienta» la scena della «congiura» a Siena in Piazza del Campo che, con ogni probabilità si svolse, invece, a Greve dove abitava Giuliotti e dove Tozzi si recava, spesso, in bicicletta tanto che una volta, sudatissimo e impolverato, fu fermato dai carabinieri che l’avevano scambiato per un famoso, e imprendibile, ladro di pollame.
Paolieri viene definito da Alberto Viviani: (autore di un introvabile ma interessantissimo libro edito nel 1933: Le Giubbe rosse): «bestemmiatore di piazza», a trentacinque anni, scrive Vassalli è un omaccione quasi completamente calvo, gran donnaiolo e autore da Nerbini: (detto lo Zanichelli dei sozzi) di romanzi pornografici da lui stesso scritti e tradotti. Tozzi, forse, lo detestava e anche Giuliotti non lo stimava molto; Paolieri «serviva», come giornalista e «spia», per la lotta che La Torre aveva dichiarato a Lacerba.
Nel maggio del 1913, racconta Viviani, avviene a Firenze, un memorabile incontro-scontro di Giovanni Papini con Federigo Tozzi; Viviani descrive Tozzi come un giovanottone vestito alla campagnola; «grassoccio e rubicondo, con l’aria di un prete di campagna vestito da uomo», tanto che Viviani — che gli era amico fin da bambino — non l’aveva neppure riconosciuto.
Ogni tanto Tozzi andava a Firenze, sia in bicicletta, sia con il treno: l’incontro con Viviani è casuale, quest’ultimo: «sull’angolo di Piazza Madonna con Via del Giglio, sta aspettando Papini che infatti di lì a poco arriva: a passo svelto e beccheggiante come l’albero di un navicello». Eccolo!, dice Viviani e a Tozzi si rizza subito il «pelo»: «come ai gatti quando stanno per azzuffarsi con il cane».
Papini saluta e rivolto a Tozzi dice: «Torno subito; mi aspetti. L’aspetto sicuro — risponde lo scrittore — non ho mica paura, sa?».
Papini sorrideva, nota Viviani con quel suo sorriso speciale che avrebbe levato gli schiaffi anche di mano ai santi, e sbirciava di sottocchi Tozzi che gli camminava a fianco sbuffando di caldo e di rabbia, ma più ancora per il desiderio di poter presto aggredire a suo modo il nemico.
La collera dello scrittore senese esplose di lì a poco, a voce alta e concitata ricopri d’improperi Lacerba, il futurismo e lo stesso Papini che, imperturbabile lo osservava più con curiosità che con interesse.
Tozzi così l’apostrofò: «Bécero, bécero: voialtri offendete tutti e non sapete dire o scrivere che parolacce. Ma vi si leverà noi il vizio; eh, ci credo...».
Il riferimento al «saggio» di Tavolato e agli stessi articoli di Papini: Gesù peccatore e Freghiamoci della politica, è esplicito. La Torre, la rivista di Tozzi, Paolieri e Giuliotti verrà, del resto, anche presentata alle Giubbe rosse, tra risa, sghignazzi: «Vedete — dice Ardengo Soffici — questo non è il giornale di Giuliotti ma di Dio. E’ Dio stesso che lo ispira».
Papini non reagisce alle invettive di Tozzi che fino a via de’ Pecori urlava all’indirizzo dell’autore di Un uomo finito. «Non voglio perdere il treno — disse — sennò verrei fin dentro a quel caffeaccio per dirvi a tutti il fatto mio».
«Venga un'altra volta — -gli propose subito Papini — noi ci siamo sempre».
Di lì a qualche giorno, racconta Viviani, Tozzi capitò davvero a le Giubbe rosse; ma quasi nessuno se ne accorse perché s’era messo a un tavolino mezzo nascosto tra la seconda e la terza sala. Non inveì contro nessuno, sapendo bene che Papini, Soffici, Lacerba e la stessa rivista La Torre non lo interessavano per nulla, lontano com'erano dal suo vero mondo, dai suoi interessi di scrittore. Giuliotti verrà “descritto” con feroce ironia nel suo ultimo libro, Gli egoisti. Morrà giovane a Roma, otto anni prima di Dino Campana. Pampini sopravviverà per tanti lunghissimi anni non rendendosi conto che quel giovanotto accaldato e vociferante che lo apostrofava ferocemente in via de' Pecori, era tra i maggiori scrittori del Novecento.


“il manifesto”, 19 aprile 1987

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