21.6.17

Il drago e Messalina. Natura e potere negli incubi di Plinio (Mario Vegetti)

La mostruosa effigie del dio Manduca adorato nell'isola di Gaster
Plinio dichiara che la sua zoologia non intende essere che un compendio e una prosecuzione di quella di Aristotele. In realtà egli omette completamente sia la struttura portante — la conoscenza degli animali attraverso la dissezione anatomica, dunque la conoscenza di animali morti — sia la principale conseguenza, la classificazione degli animali sulla base della struttura degli organi interni (per la quale i delfini non sono pesci ma mammiferi, perché hanno polmoni e utero, e così via, come l’occidente ha imparato una prima volta da Aristotele e una seconda da Linneo e Cuvier).
Dimenticato questo Aristotele, ciò che a Plinio interessa davvero è l’animale vivo, o almeno favoleggiato come tale: le notizie sulla ferocia, l’astuzia, l’intelligenza degli animali. Può allora iniziare la sua zoologia, del tutto incongruamente rispetto alla razionalità aristotelica, con l’elefante: perché è il più grande degli animali, il più passionale (si raccontano sue storie d’amore con fioraie di Alessandria), il più intelligente (sarebbe capace di scrivere in greco, e avrebbe addirittura una sua religione basata sulla venerazione degli astri), e soprattutto il più vicino al potere (si genuflette di fronte al re, è allevato dagli imperatori romani, sognarlo — come insegna Artemidoro — significa sognare i potenti).
A partire dall’elefante, la classificazione di Plinio è contrassegnata da «una crudele mancanza di metodo», come vogliono i critici positivisti, o piuttosto da un altro principio d’ordine; le associazioni di idee, meglio ancora, le transizioni metonimiche. Per cui ad esempio il coccodrillo, come animale nilotico, trascina con sé l’ippopotamo (entrambi classificati come «quadrupedi terrestri»), e questi, in quanto animale che sa curarsi da solo, apre la via dell’ibis, un uccello tanto egizio quanto autoterapeuta. Oppure: da una sommaria descrizione della riproduzione di uccelli e serpenti, Plinio trascorre a quella degli animali terresti, poi a quella degli uomini: e qui hanno gran parte le performances erotiche di Messalina, capace di reggere 25 amplessi nelle 24 ore.
Ma qual è la regola profonda che governa queste sequenze di transizioni metonimiche? Plinio narra di lotte crudeli e implicabili che si svolgono in lande deserte fra l’elefante e il dragone. Chiedendosi il perché di queste lotte, non ha che una risposta: la natura sembra aver voluto allestire uno spettacolo per sé sola. Di qui in poi, il tema dello spettacolo della natura, o della natura come spettacolo, diviene dominante nel testo pliniano. Ma non si tratta di uno spettacolo edificante, governato dalla Provvidenza o dalla Ragione: piuttosto di uno spettacolo crudele e terrifico, comunque estraneo a un qualsiasi ordine finalistico. Tutto questo rinvia con chiarezza a un’esperienza dominante nella concezione pliniana della natura: l'esperienza del ci5rco, dell'uccisione dell'animale non a scopi di utilità né di teoria, ma di divertimento spettacolare. Plinio immagina la natura come un circo immenso e variegato: ai fronte ad essa, il circo appare un aleph, una replica intensiva e microscopica dello spettacolo del mondo.
Il tramite fra la natura e il circo è il potere: allestendo giochi e trionfi, esso offre un pubblico agli spettacoli della natura che si svolgerebbero altrimenti nella solitudine dei deserti e delle foreste, ne replica la ferocia primordiale al centro stesso del mondo civile. Ma nel gioco delle repliche e delle imitazioni, l’esperienza del circo come organizzatore del discorso sugli animali, la concezione della natura come spettacolo, si piegano su se stesse. L’attenzione si sposta sugli spettacoli allestiti artificialmente, e sul motivi di queste repliche perverse: il piacere, la crudeltà, il vizio Nuove. figure cominciano a popolare questo quadro: non più eleganti e dragoni, orche e balene, ma i potenti: Pompeo, Antonio, Tiberio, Nerone, Caligola. Questo è lo snodo che connette la zoologia di Plinio con la sua antropologia.
Che è di un pessimismo senza equivalenti nel pensiero antico. La natura è “triste matrigna” per l’uomo; egli è il solo animale che nasce nudo, piange fin dalla nascita, cresce legato mani e piedi dalle fasce.
Fra tutti gli animali, l’uomo è il solo a conoscere il lutto, a provare lussuria, superstizione e ambizione; è anche il solo a prendersi cura dei sepolcri e della sopravvivenza dopo la morte — credenza questa che deriva dal delirio di una «mortalità avida di non cessare mai». Animale superbissimo (perché crede a torto di essere il solo a disporre dell’intelligenza), l’uomo è per molti aspetti il peggiore: a differenza di leoni e serpenti, è persino antropofago (come l’etnologia di Plinio sembra confermare); ed è anche l’unico ad essere sempre in calore e a praticare, come Messalina, l’eccesso del piacere.
Se l’uomo è il più infelice e vizioso degli animali, c’è per Plinio una ragione: il potere e la ricchezza, che lo corrompono al di là del limiti che la natura matrigna gli ha comunque imposto. Il potere (simboleggiato da figure sinistre come Caligola e Nerone) è per Plinio istrionico e crudele, nella sua commistione continua con gli spettacoli del circo e del teatro, che rinviano alla sequenza natura-spettacolo intorno alla quale si organizzava 11 suo discorso zoologico.
Il segno sotto cui Plinio inscrive l’istrionismo del potere è quello della luxuria: il teatro, di cui i potenti sono registi e a volte (come nel caso di Nerone) anche attori, si presenta come una continuazione del circo. La confusione del potere con il mondo degli istrioni è contigua alla commistione di uomini e animali che si attua nel circo con le repliche perverse dello spettacolo della natura.
Questa doppia esperienza determina la chiusura pessimistica dell’antropologia pliniana.
Che, con la zoologia, è portatrice di un suo significato profondo, radicato nell’esperienza che organizza entrambe. Questa esperienza — il circo, il teatro, il potere crudele ed istrionico — fa sì che in Plinio affiori lo straordinario documento di un’epoca, la sonda di un immaginario sociale che non può venire assunto a tema di un discorso esplicito ma vi si sottende affiorando qua e là attraverso le metonimie, le metafore, la comparsa improvvisa di figure inquietanti, da Messalina a Nerone agli istrioni.
Il significato di questo documento non può essere quello di una ’’denuncia”, cui corrisponda una qualche indicazione di mutamento. Plinio è fino in fondo un romano del I secolo, lui stesso partecipe del sistema delle ricchezze e del potere, amico dell'imperatore, comandante di una sua flotta; egli non può pensare a un mondo troppo diverso da quello che pure lo atterrisce, ma che ritiene radicato non solo nella natura umana ma nello spettacolo della natura in assoluto.
Se non è nella denuncia, il luogo della zoologia e dell’antropologia pliniane andrà piuttosto concepito come quello dell’incubo: un incubo popolato di figure e di spettacoli meravigliosi e terribili che si ripetono all'infinito creando sgomento ma non teoria né consapevolezza. Appunto, l’immaginazione onirica degli scultori medievali troverà in Plinio una delle sue fonti principali.

P.S. Queste considerazioni sui libri VII-XI della Naturalis Historia di Plinio, in occasione della traduzione dell’opera presso l’editore Einaudi, a cura di G.B. Conte, derivano da un saggio comparso su Aut-Aut, 184-185, 1981.


“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1981

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