25.6.17

Nazismo. Un Reich fondato sul lavoro coatto (Sergio Bologna)

Negli anni Ottanta del 900, alcuni storici “revisionisti” tendevano a negarne il carattere prevalentemente piccolo-borghese del nazismo tedesco e inserivano la classe operaia o una parte fondamentale di essa tra le componenti del nazionalsocialismo hitleriano. Alcune fondazioni e alcuni centri sociali italiani e tedeschi organizzarono proprio in quegli anni un ciclo di ricerche un ciclo di ricerche originali sul tema della base sociale del nazismo e della partecipazione operaia alla costruzione del regime. La libreria Calusca pubblicò nel 1994 i risultati di alcune ricerche in un volume collettaneo dal titolo Classe operaia e nazismo. Sergio Bologna, storico e sociologo del lavoro tuttora attivo, era autore di una relazione da cui è tratto questo estratto che fu pubblicato su “il manifesto”. A me sembra che per più di una ragione le scoperte e acquisizioni di quella ricerca siano oggi più importanti che allora. (S.L.L.)

Le politiche occupazionali del nazismo 
dopo la presa del potere
Il legame con uno «Stato sociale», su cui molto avevano puntato sia la socialdemocrazia che i sindacati per dare senso di cittadinanza alla classe operaia nella Repubblica di Weimar e per inculcare in tal modo fedeltà alle istituzioni repubblicane, si frantuma e questo scollamento contribuiva a creare un ulteriore senso di estraneità della classe rimasta senza lavoro nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni: quindi quando si dice che la classe operaia non difese adeguatamente la democrazia repubblicana occorre tenere presente che questa democrazia rappresentava ormai ben poco agli occhi del nucleo centrale della forza lavoro.
Ricacciando i disoccupati nel sistema dell’assistenza comunale si formava un esercito di persone che andavano a chiedere la carità a un funzionario che doveva, molto spesso sulla base di un’impressione soggettiva, giudicare dei loro bisogni; si formava così una massa di milioni di persone ricattabili e, quel che più importa per il successivo regime nazista, di schedati.

Disoccupazione nascosta
Ma non basta. Come abbiamo detto, il sussidio erogato dai Cornimi era soggetto all’obbligo di rimborso; si formava così una massa di indebitati a vita con le finanze comunali (nel 1935, con abile mossa, Hitler emise un decreto con cui venivano cancellati tutti i debiti degli assistiti nei confronti dei Comuni).
Queste circostanze spiegano allora perché, con il progredire della crisi, un numero sempre maggiore di persone rinunciò a ricorrere a qualunque forma di assistenza e andò ingrossando così sempre più il numero di coloro che non erano più registrati come disoccupati.
Nasce quindi il problema politico, economico, sociale e statistico della cosiddetta «disoccupazione nascosta» durante la Grande Crisi; all’inizio della crisi le persone che godono di un diritto al sussidio di disoccupazione sono la grande maggioranza di assistiti; nel 1933, mese di marzo, quando Hitler è già al potere e la disoccupazione raggiunge il suo culmine, sono diventati minoranza; la grande maggioranza è finita nel terzo contenitore, se immaginiamo questo sistema come un sistema di vasi comunicanti; si tratta di milioni di persone compietamente in balia del sistema comunale di assistenza alla povertà.
A questi vanno aggiunti naturalmente coloro che, stufi di essere sottoposti a un sistema altamente discrezionale, di essere schedati e per di più di dovere un domani rimborsare i magri sussidi, andavano a ingrossare le file della «disoccupazione nascosta».
(…) Nella memoria di chi ha vissuto quegli anni il rapporto con l’ufficio di assistenza è sempre di tipo conflittuale; sono testimonianze che si riferiscono sia al periodo della Grande inflazione (1923), sia al periodo successivo della Grande razionalizzazione (1924-1928), sia al periodo della Grande Crisi (1929-1933).
Questi avvenimenti riducono in povertà persone di diversi ceti sociali, impiegati, commercianti, artigiani, che si trovano a fare la coda assieme agli anziani, alle ex prostitute, alle donne sole con figli, ai marinai senza imbarco, agli operai di fabbrica disoccupati, a giovani coppie prive di mezzi, ad invalidi.

Burocrati arroganti
Una volta al giorno, una volta alla settimana, una volta al mese costoro devono convincere i funzionari di turno della legittimità delle loro richieste, devono raccontare le loro storie personali, ripeterle, con un misto di umiliazione e rassegnazione.
Il partito comunista, sin da quando il sistema di assistenza fu sancito per legge, fece opera di agitazione e mobilitazione tra gli aspiranti all’assistenza perché superassero, con comportamenti collettivi, l’intenzione della burocrazia di dividerli e perché non accettassero di presentarsi con atteggiamento dimesso ma con atteggiamento di chi rivendica un diritto.
In tal modo il comportamento degli assistiti, grazie alla propaganda comunista, divenne sempre più perentorio e aggressivo, creando forti reazioni nei funzionari e un irrigidimento della struttura. Nell’ultimo numero della rivista Werkstattgeschichte, vengono riportati le testimonianze di decine di episodi di assalti, di scontri, di minacce ai funzionari, con continui interventi della polizia.
(…) Se questa situazione provocava tensioni e disagi già nei periodo precedente alla Grande Crisi, si può immaginare quanti ne abbia provocati con lo scoppio e l’aggravarsi della crisi stessa e con il fatto che, come abbiamo visto, sul sistema di assistenza comunale si riversò di colpo una massa di milioni di persone, espulse dal sistema previdenziale statale; tuttavia fu proprio allora che il ruolo del sistema assistenziale, in quanto sistema di controllo e di schedatura, emerse in tutta la sua portata. Con il radicalizzarsi dei rapporti tra la struttura e l’assistito nel corso della Grande Crisi, la struttura stessa perde quasi del tutto il suo carattere di servizio sociale e diventa sempre più un sistema poliziesco supplente nei confronti delle parti più deboli della società.

Continuità statale
È qui che si innesta il sistema nazista. Uno degli argomenti di fondo della ricerca sugli emarginati nel periodo finale della Repubblica di Weimar riguarda il ruolo svolto dal sistema assistenziale. Su questo la nostra Fondazione ha fatto una ricerca molto importante, che riguarda la storia dell’assistenza comunale ad Amburgo (il volume, curato da Angelika Ebbinghaus, è uscito nel 1986 e ha per titolo Opfer und Täterinnen). Che cosa ha messo in luce questa ricerca? Che il personale della burocrazia assistenziale, in gran parte femminile, è passato senza traumi dal governo socialdemocratico al governo nazista. I nazisti hanno rilevato quasi tutto l’organico e gli hanno chiesto di lavorare come prima, cioè di continuare a esercitare la funzione di sorveglianza, controllo e schedatura e hanno costruito una struttura parallela di selezione degli emarginati, su basi biologiche e razziali.
La struttura assistenziale, fatta di operatori socio-sanitari oltre che di personale amministrativo, forniva una serie di informazioni sui singoli soggetti, sui singoli «casi», alla struttura che doveva intervenire sul piano della segregazione o dell’annientamento fisico delle persone (internamento in campi di lavoro, in cliniche psichiatriche, o sedicenti tali, dove venivano praticate la sterilizzazione forzata e altri interventi di «eugenetica»).
La maggioranza di queste persone venne ritenuta possibile di trattamenti di segregazione e di annientamento in quanto Asozialen, asociali, perché da troppo tempo disoccupati, perché avevano commesso piccoli delitti contro il patrimonio, perché si erano prostituiti, perché avevano malattie considerate ereditarie, perché erano portatori di invalidità gravi, perché avevano comportamenti matrimoniali e/o sessuali irregolari, perché avevano ripetutamente assunto comportamenti di protesta e antagonisti nei luoghi di lavoro o contro rappresentanti delle istituzioni (è il caso della maggioranza dei simpatizzanti comunisti), perché avevano cambiato troppo di frequenza residenza o semplicemente perché erano stati colti troppe volte su mezzi di trasporto pubblico senza biglietto.
Una larga parte dei poveri e degli emarginati venne quindi definita «asociale» sulla base delle informazioni raccolte dagli uffici di assistenza e riportate nelle schede personali ed avviati quindi a un processo di selezione che non fu soltanto un processo di selezione razziale ma anche un processo di selezione sociale.
La maggioranza degli internati nei campi, all’inizio del regime nazista, era composta da questi cosiddetti «asociali», che successivamente verranno chiamati con il termine di gemeinschaftsfremde («estranei alla comunità»). Ancora nel 1941 c’erano 110 mila detenuti tedeschi non ebrei nei campi di concentramento, internati come Asozialen. La politica di selezione della razza non è quindi nata su base etnica, ma è nata per affrontare la questione sociale, eliminando fisicamente gli emarginati. Su questo si è sviluppata la politica eugenetica nazista o, come fu chiamata, la «politica demografica» (Bevolkerungspolitik). I primi lager, i primi campi di concentramento furono le «case di lavoro» (Arbeitshauser), ossia gli ospizi dove erano alloggiati coloro che in cambio del sussidio di assistenza dovevano prestare un lavoro obbligatorio. È lì che è nato il sistema concentrazionario nazista.

Paghe in natura
In base alla legge del 1924, istituiva dell’assistenza ai poveri, veniva anche fissato per legge il lavoro coatto. Orbene, quando Hitler realizzò i primi provvedimenti di avviamento al lavoro per riassorbire a tappe forzate la disoccupazione, lo fece richiamandosi alla legge istitutiva del lavoro coatto. La legge del primo giugno 1933 (Gesetz zur Verminderung von Arbeitslosigkeit, ossia la «Legge per la riduzione della disoccupazione»), una delle leggi-quadro più importanti di politica attiva del lavoro, si richiama esplicitamente alle norme sul lavoro obbligatorio del 1924.
Il rapporto di lavoro è un rapporto che non dà diritto a una retribuzione, i servizi in natura che egli riceve, cioè vitto e alloggio, sono parte integrante dell’erogazione assistenziale, la quale si configura giuridicamente come un atto di diritto pubblico. Il riassorbimento della disoccupazione da parte del governo Hitler nei due anni successivi viene realizzato affidandosi a questo strumento di ordine giuridico.
Il regime nazista si vantò di avere riassorbito nel giro di due anni un numero di disoccupati pari a circa 8 milioni; non bisogna dimenticare che circa il 70 per cento dei posti di lavorocreati dalle politiche attive di occupazione del regime nazista riguardava lavori che facevano parte del grande programma di opere pubbliche di tipo infrastrutturale (come le autostrade). La forza-lavoro così impiegata rientrava nel quadro giuridico del lavoro obbligatorio (Pflichtarbeit). Questa è la ragione anche del crescente malcontento che si diffuse tra questi lavoratori e che negli anni 1935-36 diede luogo a quello che alcuni hanno definito un vero e proprio «ciclo di scioperi». Furono segnalate dalle autorità di polizia e dagli organi del partito nazista 260 fermate sul lavoro, la maggior parte delle quali si verificarono nei cantieri per la costruzione delle autostrade o in cantieri di altre opere pubbliche.
Gli scarsi dati a disposizione relativi alle figure che hanno svolto un molo di agitatori o di iniziatori
o di organizzatori di queste fermate, mettono comunque in evidenza che la grande maggioranza degli operai più attivi nelle protesta aveva dietro di sé esperienze, sia pure brevi, di prigionia e di internamento nei campi.

Militarizzazione forzata

Questi elementi, e il dato di fatto che la grande maggioranza dei lavoratori sono stati avviati al lavoro in maniera più o meno coatta, rendono poco credibile la tesi che il regime nazista sia stato un esempio molto avanzato di keynesismo. Più esatto sarebbe dire che il regime nazista ha combinato assieme alcune formule che potremmo chiamare keynesiane (finanziamento di opere pubbliche per creare posti di lavoro) con i meccanismi di tipo assistenziale ereditati dall’epoca weimariana e con un sistema di coercizione e di repressione dentro il quale il Lager è una componente essenziale della politica del lavoro. Insomma l’erogazione di spesa pubblica per riassorbire disoccupazione potè sussistere solo all'interno di un regime del lavoro dove non solo sono sospese le variabili di mercato ma sussiste una vastissima area in cui il lavoro è considerato al di fuori delle regole del codice civile ed è un fattore affidato in buona parte alla discrezionalità del potere esecutivo, cioè è un lavoro militarizzato. Dunque l’atteggiamento prevalente del nazismo nei confronti della classe operaia è quello che porta non alla sua promozione e/o emancipazione ma alla sua militarizzazione.

"il manifesto", 9 giugno 1994

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