Ugo Baduel (1934 - 1989),
giornalista di grande stoffa e comunista senza chiese e senza dogmi,
è soprattutto noto per essere stato tra i più stretti collaboratori di Enrico Berlinguer dal 1973 al
1984. Ne fu poi biografo.
Perugino, di famiglia
aristocratica, fascista e filotedesca, giunse a “l'Unità” e al
Pci dopo la militanza nelle correnti di sinistra della Democrazia
Cristiana. Dalle scritture autobiografiche cui si dedicò nell'ultimo
periodo della vita è tratto L'elmetto inglese (pubblicato postumo nel 1992 da Sellerio a cura della vedova Laura Lilli). Il libro racconta i primi anni di vita di Baduel e la caduta dei miti fascisti cui da fanciullo aveva
con ingenua sincerità aderito e ne rivela le grandi qualità di
scrittore.
Dal
primo capitolo, dal titolo Le regole,
è tratto il brano che ho qui ripreso. (S.L.L.)
Le regole, si badi, non
avevano un nome preciso. Erano una somma di codici, di comportamenti,
di frasi da usare o da evitare e il cui senso era uno solo: così
fanno i veri signori, ciò che è diverso da questo è cafone e
piccolo borghese.
Erano tutte collegate ad
alcuni principi generali. Per esempio non si deve essere troppo
schifiltosi, troppo timidi, troppo aggressivi, troppo lamentosi,
troppo sensibili. Molti di questi principi rappresentavano proprio il
contrario di ciò che il piccolo borghese immagina siano le norme a
cui si rifanno gli aristocratici. Ciò spiega perché i piccoli
borghesi siano tanto ridicoli quando vogliono imitare gli
aristocratici appunto, provocando da parte «nostra» degli
incontrollabili scoppi di riso. Il piccolo borghese, che è segnato
dalla sua origine in modo irreparabile, quando pateticamente cerca di
apparire ciò che non è, diventa uno snob. Nella mia famiglia questo
termine, che nei mass media di oggi ha finito per assumere il falso
significato di Gran Signore («Agnelli è un grande snob») veniva
giustamente inteso per quello che veramente significa la sua
etimologia latina: sine nobilitate, senza nobiltà.
I cafoni-snob erano
sparsi ovunque, anche dove c’erano soldi e fama. Il principio primo
è che un signore non deve lamentarsi se ha freddo, se ha fame, se ha
sonno: e passa in mezzo a queste difficoltà pratiche come una
salamandra attraverso il fuoco. Se lamentarsi non serve, è inutile
farlo. Lo fanno gli sciocchi, che sono poi anche i cafoni.
Si è spartani. Si è
schiavi il meno possibile delle esigenze del corpo: nonna Maria
commentava sempre «sciocchezze» ogni volta che dicevo «ho freddo»,
«sono stanco», «mi fa male», «prude». Anche vizi, abitudini,
tutto ciò che è legato alla materialità, il vero signore lo sa
dominare con volontà inflessibile: sorridente, imperturbabile. Del
resto la regola aurea che tutto determina e così consente di «sapere» le varie regole specifiche senza bisogno di studiarle, ma
reinventandole identiche volta per volta, sta nel fatto che il vero
signore si muove secondo le regole della logica, della moderazione, del rispetto altrui. Per esempio, mettere a tavola le posate in modo
corretto non è difficile affatto, né va imparato a memoria: basterà
disporre forchette, coltelli eccetera sempre dalla parte dove più
facilmente li si prende per usarli. E così a destra staranno il
coltello e la forchetta che serve per il primo piatto, a sinistra la
seconda forchetta che serve per la carne, in alto le posate da
frutta, di nuovo a destra l’eventuale cucchiaio da minestra e così
via, con logica automatica, anche per le possibili dieci e più
posate di un pranzo di gala.
Come comportarsi a tavola
e in altre circostanze? Facile. Ancora una volta si seguiranno logica
e comodità. Le cose scomode, sacrificate, sono tipiche delle regole
bell’e fatte dei piccoli borghesi, mentre gli aristocratici si
muovono sempre in modo da sentirsi a proprio agio. Per sapere quali
posate devo usare a tavola, basterà che mi attenga al criterio della
funzionalità della posizione rispetto all’uso. Così, si taglia
con la forchetta tutto quello che si riesce a tagliare; il coltello
non si usa mai per il pesce (deve esserci la posata apposita), mai
per tutte le cose tenere e morbide (per esempio le patate), e in
genere, si usa al minimo.
E comunque, a tavola,
quando si è invitati, vale la regola di ferro che è la padrona di
casa a fare qualunque regola. Così ad esempio se viene servito un
dolce — anche un gelato — che si può mangiare usando facilmente
la forchetta, userò la forchetta perché il cucchiaio è superfluo,
inutile e dunque non funzionale. Ma se la padrona di casa prende in
mano il cucchiaio, ecco che io — pur disapprovando in cuor mio —
prenderò a mia volta il cucchiaio per obbedire alla domina.
Per il tovagliolo, che non si mette mai intorno al collo, il
principio è ugualmente logico: io non devo mangiare in modo da far
cadere cibo dalla bocca, da macchiarmi la cravatta; e se lo faccio,
colpa mia, inutile proteggersi goffamente in modo preventivo. Mi
macchierò e dirò «mi dispiace» con un sorriso sulle labbra
pretendendo che nessuno si preoccupi più di tanto, si alzi per
andare a prendere lo smacchiatore e altre sciocchezze del genere.
Dirò «non fa nulla» anche se sarò costretto a un grande stoicismo
perché amavo molto quella cravatta. L’impressione da dare è che
io, dopo, quella cravatta o camicia o golf o giacca li butterò
senz’altro via.
C’è poi la lista, in
questo quadro, delle cose che non si fanno o delle parole che non si
usano. Non si alza il mignolo quando si prende una tazza o un
bicchiere, ovviamente, ma non si mette nemmeno mai il fazzoletto
sotto il sedere per sedersi all’aperto né si piega il fazzoletto
secondo la stiratura dopo essersi soffiati il naso (sempre con
energia e senza falsi pudori). Non si usano parole come «delizioso»,
«presenterò», «pardon» (e anche per il vestiario ci sono parole
proibite perché cafone, come «combinazione», «gonna», «trench»
invece che impermeabile). O ancora: «mamma» senza accento alla
francese sulla ‘a’ finale, o babbo, o «contessina» (il titolo
è sempre non modificabile con intollerabili diminutivi), o «signora
marchesa» o anche «la marchesa» (si dice sempre «la marchesa x»,
mai senza la specificazione del nome. Si può dire «la marchesa»
solo rivolgendosi alla servitù: «Alfredo, servi ancora una volta
la marchesa, la contessa, la signora, ecc.»).
A qualunque signora si
bacia la mano chinando solo la testa, alzando contemporaneamente la
mano alla bocca e posandovi poi su un vero bacio a labbra chiuse. Mai
baciarsi il pollice invece che baciare la mano, mai evitare il bacio
a contatto di pelle. Non si bacia mai la mano guantata. Così come
mai si dice «prego» — o peggio, «pardon» — facendo passare
avanti una signora che peraltro non si farà mai passare per prima
quando si entra in un ristorante o in un locale pubblico (è l’uomo
che avanza esplorando). Le mance si danno senza farsi vedere,
piegando stretti i soldi e facendoli scivolare nella mano del
cameriere o chi altro, meglio se lontano dalla vista di altri. Il
conto al ristorante si evita di pagarlo platealmente: ci si alza («
un momento, scusatemi») e si va di là a pagare. Poi si torna, ci si
siede come fosse affatto pagato e ci fosse ancora tempo da stare a
tavola.
Si sta seduti sempre
dritti e i grandi possono appoggiare lievemente i gomiti sul piano,
ma i piccoli tengano le mani strette leggermente a pugno ai lati del
piatto; le posate si appoggiano «come sono» fra un boccone e
l'altro, e si riaffiancano solo quando si è finito; la pasta si serve
nei piatti e non nelle scodelle; non si versa mai dalla bottiglia con
la sinistra o rovesciando la mano né si alza il bicchiere per
avvicinarlo alla bottiglia; si mangia sempre tutto quello che si ha
nel piatto. Unica possibile eccezione a questa regola è che per
qualche circostanza il piatto sia stato riempito da altri (mense,
tavole calde): allora si può lasciare qualcosa. Non si arriva mai,
quando si è invitati, con fiori o cioccolatini in mano: si mandano
prima o dopo.
Il vero signore è sempre
gentile con i sottoposti. Non si faranno mai scenate o piazzate al
ristorante o in qualche altro posto in pubblico. Si è piuttosto
gelidi, fermi, inesorabili: zio Stefano per il fatto che un cameriere
aveva trattato male una signora da Vitalesta (la pasticceria dove si andava tutti, al corso Vannucci a Perugia) non entrò mai più in
quel locale, per anni, perché il proprietario Vitalesta, che pure
era suo amico e camerata fascista di vecchia data, non era stato
abbastanza severo con il cameriere in questione. Così fu punito.
Uguali regole sul
lavarsi: si deve essere sempre soigné, «Stefano è sempre
così soigné», « Pino è molto soigné ». La regola
è che si può stare in bagno a lavarsi, ripulirsi, pettinarsi anche
ore come fa zio Stefano che ci sta in media due ore ogni mattina. Ma
dopo, una volta usciti di casa, il vero signore si dimentica di avere
un corpo: non si aggiusta i capelli, non sfiora nemmeno bocca o denti
o naso, mai usa pettinini, pulisciunghia, limetta, stuzzicadenti. Se
ha un impellente bisogno di toccare qualche parte del corpo — è
consentito solo sfregare lievemente parti visibilissime, stropicciare
magari gli occhi, il resto niente — allora o chiede di andare in
bagno e ci va, fosse anche «solo per grattarsi il sedere se gli
prude». O, se non ci sono bagni a disposizione, lo fa apertamente.
La cosa peggiore è quella di farsi queste cose addosso un po’ di
nascosto, sperando che gli altri non vedano: come soffiarsi il naso
girando la testa o chinandola; coprirsi la bocca con la mano mentre
un dito ci fruga dentro; o chinarsi tutto da un lato per tossire. Il
vero signore fa tutto a viso aperto e quello che fa, per il fatto che
lui lo fa con estrema sicurezza, è un fare da vero signore. Per
esempio zio Agostino sputacchia quando parla, mangia a bocca aperta,
se gli esce un rutto ci ride sopra: ma è un vero signore perché sa
fare quelle cose con disinvoltura così come sa dire parolacce da
gran signore.
E ancora. Nel parlare,
mai «con permesso», «presenterò», «vuol favorire», «piacere
Baduel»: ma piuttosto frasi compiute e reali, effettive. Solo i
cafoni usano frasi fatte. E allora si dirà piuttosto: «mi scusi ma
devo lasciarla un momento», «sarò molto lieto di dire a x che lei
lo saluta caramente», «vuole anche lei una fetta di questa
torta?... Vuole mangiare?... Vuole un caffè?...», «Sono Ugo
Baduel» e via dicendo: cose logiche, sensate, non precostituite, ma
— si direbbe in linguaggio televisivo — sempre «in diretta».
In chiesa, sempre
comportamenti virili: in ginocchio quanto si vuole, ma belli dritti
sul busto. Il segno della croce si fa con nettezza e con energia, ben
visibile: mai il bacetto alla conclusione inviato verso l’altare,
questo è terribilmente cafone.
Tante regole, ora
ricordate qui alla rinfusa, e in apparenza di piccolo respiro, ma
invece riconducibili a una sorta di vasto codice morale storico e
nobile: in senso generico, i codici cavallereschi del Sacro romano
impero. E va spiegato qui che per signori si intendeva il termine
proprio nel suo significato originario: cioè i signori antichi del
feudo, i cavalieri appunto del Sacro romano impero e delle Crociate.
La casta insomma dei signori della guerra, nemici della classe del
commercio come della plebe. Lì, in quei luoghi e tempi, erano le
origini «pure» della aristocraticità di mia madre — una
Gavotti-Verospi — vissuta nella mia famiglia come un tranquillo
culto. I marchesi Gavotti-Verospi erano di origine genovese: ma la
nobiltà di quella repubblica per noi si era sempre appaiata a quella
carolingia.
Sotteso ma costante, il richiamo più forte era per Carlo Magno e i suoi crociati. E in questo era il nocciolo segreto del feeling familiare verso tutto quello che era tedesco. C’era, nella nostra educazione molto del «terra e sangue» delle leggende eroiche nibelunghe.
Sotteso ma costante, il richiamo più forte era per Carlo Magno e i suoi crociati. E in questo era il nocciolo segreto del feeling familiare verso tutto quello che era tedesco. C’era, nella nostra educazione molto del «terra e sangue» delle leggende eroiche nibelunghe.
da L'elmetto inglese (a cura di Laura Lilli), Sellerio 1992
Comunista senza Chiesa è un ossimoro.
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