14.7.17

Baghdad gennaio '91, il cielo s'illumina di guerra. La prima tempesta (Manlio Dinucci)

«Il cielo si illumina a giorno sulla linea dell'orizzonte, oltre le palme e le luci limpidissime delle strade che conducono verso l’aeroporto in una delle notti più chiare di queste settimane di tensione. Squadriglie di bombardieri americani arrivano da ogni direzione, invano inseguiti da una contraerea i cui proiettili scrivono strisce rosse e gialle nella notte come in una sorta di fuochi d'artificio, tragici e mortali»: così testimoniava vent’anni fa Stefano Chiarini, inviato de “il manifesto”, l’unico giornalista occidentale rimasto a Baghdad oltre a Peter Amett della Cnn. Sono, nel Golfo, le prime ore del 17 gennaio 1991. Inizia la «Tempesta del deserto», che apre la fase storica che stiamo vivendo.
Vent’anni fa, la scomparsa dell’Urss e del suo blocco di alleanze crea, nella regione europea e centro-asiatica, una situazione geopolitica interamente nuova. 
Contemporaneamente, la disgregazione dell’Urss e la profonda crisi politica ed economica che investe la Russia segnano la fine della superpotenza in grado di rivaleggiare con quella statunitense. 
«Il presidente Bush colse questo cambiamento storico - racconta Colin Powell - Il presidente e il segretario alla difesa tracciarono una nuova strategia della sicurezza nazionale e costruirono una strategia militare per sostenerla. Quindi nell’agosto 1990, mentre il presidente Bush faceva il suo primo annuncio pubblico sul nuovo modo dell’America di affrontare la questione della sicurezza nazionale, Saddam Hussein attaccò il Kuwait. La sua brutale aggressione fece sì che noi mettessimo in pratica la nuova strategia esattamente nel momento in cui cominciavamo a pubblicizzarla».
Il Saddam Hussein, che decidendo d’invadere il Kuwait il 2 agosto 1990 dà modo agli Stati uniti di mettere in pratica la nuova strategia «esattamente nel momento» in cui viene varata, è lo stesso sostenuto fino a poco tempo prima da Washington. Negli anni Ottanta lo hanno aiutato nella guerra contro l’Iran di Khomeini, in quel momento «nemico numero uno» per gli interessi statunitensi nella regione mediorientale. Il Pentagono non solo ha fornito all’esercito iracheno armamenti, ma ha segretamente incaricato 60 ufficiali della Dia (Defense Intelligence Agency) di assistere il comando iracheno, fornendogli foto satellitari dello schieramento delle forze iraniane e indicazioni degli obiettivi da colpire. Su istruzione di Washington, anche il Kuwait ha aiutato l'Iraq, fornendogli consistenti prestiti per l’acquisto di armamenti.
Ma quando nel 1988 termina la guerra contro l’Iran, gli Usa cominciano a temere che l’Iraq, grazie anche all’assistenza sovietica, acquisti un ruolo dominante nella regione. E ricorrono alla tradizionale politica del «divide et impera». Dietro suggerimento di Washington, cambia anche l’atteggiamento del Kuwait, che esige l'immediato rimborso del debito contratto dall’Iraq e, sfruttando il giacimento di Rumaila che si estende sotto ambedue i territori, porta la propria produzione petrolifera oltre la quota stabilita dall'Opec. Provocando un calo di prezzo del greggio che danneggia l’Iraq, uscito dalla guerra con un costoso apparato militare e un debito estero di 70 miliardi di dollari, 40 dei quali dovuti a Kuwait, Arabia Saudita e altri paesi del Golfo. A questo punto Saddam Hussein pensa di uscire dall'impasse «riannettendosi» il territorio kuwaitiano che, in base ai confini tracciati nel 1922 dal proconsole britannico Sir Percy Cox, sbarra l'accesso dell'Iraq al Golfo.
Washington lascia credere a Baghdad di voler restare fuori dal contenzioso. Il 25 luglio 1990, mentre i satelliti militari del Pentagono mostrano come imminente l’invasione, l’ambasciatrice Usa a Baghdad, Aprii Glasbie, assicura Saddam Hussein che gli Stati uniti desiderano avere le migliori relazioni con l’Iraq e non intendono interferire nei conflitti inter-arabi. Saddam Hussein cade nella trappola: una settimana dopo, il 1° agosto 1990, le forze irachene invadono il Kuwait. A questo punto gli Stati uniti bollano l’ex alleato come nemico numero uno e, formata una coalizione internazionale, inviano nel Golfo una forza di 750 mila uomini, di cui il 70% statunitensi, agli ordini del generale Norman Schwarzkopf.
La guerra del Golfo del 1991 è la prima guerra che, nel periodo successivo al secondo conflitto mondiale, Washington non motiva con la necessità di arginare la minacciosa avanzata del comunismo, giustificazione alla base di ogni intervento militare Usa nel «terzo mondo», dalla guerra di Corea a quella del Vietnam, dall'invasione di Grenada all'operazione contro il Nicaragua.
Con questa guerra gli Stati uniti rafforzano la loro presenza militare e influenza politica nell’area strategica del Golfo, dove sono concentrati i due terzi delle riserve petrolifere mondiali, e allo stesso tempo lanciano ad avversari, ex-avversari e alleati un inequivocabile messaggio. Esso è contenuto nella National Security Strategy of the United States (Strategia della sicurezza nazionale degli Stati uniti), il documento con cui la Casa Bianca enuncia, nell’agosto 1991, la nuova strategia: «Nonostante l'emergere di nuovi centri di potere gli Stati uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e un'influenza in ogni dimensione - politica, economica e militare - realmente globali. Non esiste alcun sostituto alla leadership americana».
È questa strategia alla base delle successive operazioni belliche statunitensi: dall’attacco alla Iugoslavia nel 1999 all’invasione - come vendetta e risposta immotivata per l’11 settembre - prima dell’Afghanistan nel 2001 e poi dell’Iraq nel 2003. Guerre in cui l’Italia, dopo aver partecipato a quella del Golfo nel 1991, ha mantenuto il suo tragico ruolo di gregario.

“il manifesto”, 18 gennaio 2011

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