30.7.17

Duelli alla luce del sole. Intervista a Gregory Peck (Claudio Lazzaro)


Lui non sa cosa sia la paura d'invecchiare. A 73 anni, dritto come un fuso e con lo sguardo ironico da ragazzino sfrontato, Gregory Peck è così. Nella vita e ancora di più in Old Gringo, il film di Luis Puenzo (che arriverà nelle sale italiane nei prossimi giorni) in cui il suo fascino inossidabile colpisce al cuore persino Jane Fonda.
La storia (riveduta e correità) è quella di Ambros Bierce, giornalista e scrittore americano, tra l'altro autore del sulfureo Dizionario del Diavolo, che a settantanni suonati decide di andarsi a cercare la morte tra le fiamme della rivoluzione messicana. Una morte inventata e scritta da Carlos Fuentes in odio alla vecchiaia. Perché ormai Bierce è un leone d'inverno che dopo una vita spesa a scrivere e polemizzare preferisce chiudere la sua esistenza nell’eroica battaglia di un popolo in rivolta, piuttosto che arrendersi a una torpida, tranquilla vecchiaia.
Sempre divo Gregory Peck si è calato in pieno nella complessa personalità del vecchio, maledetto Ambros Bierce. Come ha fatto a sedurre Jane Fonda? Qual è il segreto di un attore? Come è possibile identificarsi così nel vecchio, maledetto, Bierce. Lui, con quel viso scolpito nella roccia, risponde: «Forse ci sono riuscito perché avrei voluto possedere quella sua vena sardonica, la capacità di bollare, coi suoi scritti, ogni tipo d'ipocrisia e di colpire la menzogna ovunque, nel mondo degli affari, in quello politico, sociale, religioso».

Però anche lei a Hollywood si è fatto fama di bastian contrario.
«Non credo di essere un misantropo iconoclasta come Ambros Bierce, e nemmeno di averlo eguagliato in spirito, acutezza e indipendenza. È vero, non ho scelto la strada più facile. Non ho mai firmato contratti a lungo termine, per non diventare proprietà degli Studios. Non ho mai avuto un addetto stampa, un vezzo che a Hollywood ti fa considerare eretico. E ho fatto dei film che tutti mi avevano consigliato di non fare».

Per esempio?
«Nel 1947 ho lavorato con Elia Kazan in Barriera invisibile, la storia di un giornalista che si finge ebreo per verificare i pregiudizi razziali. In quegli anni tirava già aria di maccartismo e di caccia alle streghe. Qualsiasi tipo di critica alla società americana poteva costarti cara: rischiavi di finire sotto processo per comunismo e attività antiamericane. Mi sentivo dire: "Se fai quel film la gente penserà che sei ebreo”. "Tanto meglio”, rispondevo».

Si è mai schierato politicamente?
«Mi considero un democratico di sinistra e il presidente Nixon mi ha insignito di un’onorificenza».

Quale?
«Mi ha messo nella lista segreta (che poi saltò fuori) dei suoi nemici. Erano gli anni in cui lui insisteva a bombardare il Nord Vietnam: non gli riusciva di cancellarlo dalla carta. Un gruppo di giovani dalle parti di Baltimora aveva bruciato in piazza le cartoline di precetto e per questo vennero portati in giudizio. Il processo fu appassionante e ispirò una pièce teatrale. Da quella io decisi di produrre un film: uscì nel 1972, titolo The Trial of the Catonsville Nine. Fatto il film, si presentò il problema di trovare i soldi per la distribuzione. Agli Studios lo visionavano per farmi una cortesia, ma poi dicevano: "Non è divertente”. Alla fine mi rivolsi a una coppia di giovani produttori che si erano arricchiti con due colpi magistrali: Il Padrino e Love Story. Dopo aver visto il film erano commossi: "Greg, sono contento che tu abbia fatto questo film, sono orgoglioso per te, queste cose dovevano essere dette, il pubblico aveva diritto a un film come questo e vorrei che fosse proiettato in tutti i cinema d’America”, ha esordito uno. E l’altro ha concluso: ”Sì, ma non coi soldi nostri”».

Il film trovò una distribuzione?
«Alla fine sì, ma la gente non è andata a vederlo. Cose che capitano».

Una bella delusione. Ha mai pensato alla politica come a una possibile alternativa al cinema?
«Mi hanno rimproverato, scherzosamente, di aver rifiutato la candidatura di governatore della California, che i democratici mi avevano offerto un paio di volte. Una carica che, per Reagan, ha costituito il trampolino di lancio verso la presidenza. Ma il mio impegno nelle battaglie civili non modifica il fatto che io, fondamentalmente, sia un attore. La vita del politico è troppo piena di compromessi e di obblighi mondani. È una prigione. Reagan era fatto per la politica. A me basta fare il presidente Abramo Lincoln, come in quel film di otto puntate per la televisione, il grigio e il blu, e alla fine ottenere buone critiche».

Come attore, lei ha dimostrato di condividere con lo scrittore Ambros Bierce il gusto della sfida. Qual è stata la prova più dura questa volta? Correre a cavallo alla sua età? Rendersi convincente come seduttore?
«Per quanto riguarda le scene con Jane Fonda il merito è tutto suo. È una donna così femminile e desiderabile... La cosa straordinaria è che lei, in questo caso, era anche il leader, il motore del film. Lei ha incoraggiato Fuentes a scrivere il libro, lei ha scelto Puenzo, un regista argentino che sì, aveva vinto l’Oscar con La storia ufficiale, ma che non si era mai misurato con una megaproduzione americana. Lei ancora ha trovato i soldi, ha fatto costruire questi set giganteschi. Ma poi eccola lì, sensibile, emozionata, ad ascoltare i suggerimenti di un giovane regista, senza mai farti pesare il suo ruolo. A una tale donna non c’è vulcano spento che possa resistere».

Allora qual è stata la cosa più difficile?
«La vera sfida è di far uscire liberamente da te stesso le emozioni di un uomo vecchio, che sente prossima la fine e l'affronta, piuttosto che fuggirla, ma continua a provare un perverso desiderio di vita. Una sfida complessa, perché Bierce non era semplicemente un uomo che ha pianificato il suicidio. Lui era un vitalista e la sua era una scommessa. Aveva già un piano pronto: nel caso fosse sopravvissuto alla rivoluzione di Pancho Villa, si sarebbe spinto fino a Rio de Janeiro e da lì si sarebbe imbarcato per l’Europa. Bierce era fatto così: affrontava la morte come fosse una corsa a ostacoli».

Ma anche lei, con quelle galoppate, a 73 anni. A proposito, è vero che da ragazzo ha avuto problemi alla spina dorsale?
«Cavalcare non mi crea nessun problema, a meno che non si tratti di cavalcare un pesce, come in Moby Dick. Sembrava che la maledizione della balena bianca fosse ricaduta su di me. Quando si girava l’ultima scena e io dovevo inabissarmi con lei, rischiavo tutte le volte d’annegare. Una volta s’alzò la tempesta, io ero sul dorso della balena, un isolotto di gomma sdrucciolevole, la nebbia era fitta, le onde come palazzi, i cavi si spezzarono. Stavo per fare la fine di Achab. E pensare che, quando me la offrirono, quella parte mi sembrò un colpo di fortuna!
«Al contrario fu proprio la disgrazia a cui accennava, l’incidente alla schiena, a portarmi fortuna. Successe durante una lezione di danza. L’istruttore per aiutarmi a raggiungere una certa posizione mi puntò un ginocchio sulla spina dorsale. Che fece crac. Io ancora scricchiolavo quando scoppiò la seconda guerra mondiale. Rifiutarono la mia domanda d’arruolamento proprio mentre i più grossi attori venivano richiamati sotto le armi. Fu allora che a Hollywood i produttori diventarono indulgenti nei miei confronti».

Che ricordo ha di quei leggendari anni del cinema americano?
«Non si aspetti una rievocazione dei buoni vecchi tempi. Preferisco parlare del presente e soprattutto del futuro».

Ma com’erano i mitici produttori di allora, per esempio David Seltznick?
«Era uno che durante le riprese della scena finale di Duello al sole, mentre io e Jennifer Jones strisciavamo sulle pietre, feriti a morte, per ricongiungerci nell’ultimo abbraccio, era capace di irrompere sulla scena con un secchio di sangue.
«Perché aveva deciso che non eravamo abbastanza insanguinati e così, di sua iniziativa, ci spennellava a dovere. Quella volta il regista, King Vidor, gli disse: ’’Va’ al diavolo, tu e il tuo film", poi montò sulla Rolls e disse all’autista di portarlo via da quel posto. Per finire il film Seltznick chiamò William Dieterle»,

E Darryl Zanuck?
«Nel 1950 ho fatto per lui Romantico avventuriero, che era un western molto realistico in cui alla fine il protagonista, un famoso pistolero, moriva sparato alle spalle. Il regista era Henry King e Zanuck si fidava di lui, ma quando vide il film in saletta di proiezione, dopo la scena in cui un ragazzo, per coprirsi di gloria, mi spara nella schiena, scoppiò un dramma. Zanuck cominciò a gridare in direzione del ragazzo sullo schermo: ’’Prendi quel figlio di puttana e fagli sputare sangue”. Poi tutto paonazzo, rivolto al regista: ’’Henry, devi fare qualcosa, non puoi farlo soltanto arrestare in questo modo! Così nel finale Henry King si lasciò convincere a introdurre un calcione, che lo sceriffo assesta alla faccia del baby killer. E nel film vediamo il ragazzo che, alla lettera, sputa sangue».

Parliamo ancora di un altro tycoon di quegli anni: Louis B. Mayer.
«Lui era l’imperatore della Metro. Quando entrai nel suo ufficio aveva già deciso di mettermi sotto contratto. Mi puntò un grosso dito: ’’Guardami negli occhi, figliolo". Pensai che erano occhi buoni. "Davanti a te c’è un padre”, continuò. “Il padre di Clark Gable, di Greta Garbo, di Robert Taylor”. Poi mi abbracciò mettendomi in mano un contratto: "Firmalo e sarai il mio figlio prediletto!”. Era un contratto per sette anni. Io gli dissi: "Posso firmare per un film, ma non voglio impegnarmi per troppo tempo”. Lui mi guardò come se lo avessi ferito a tradimento: ’’Figlio, non distruggere la tua vita, non calpestare il futuro”. Si aggrappò al mio collo piangendo lacrime vere. Io gli davo delle pacchette sulle spalle: “Mi spiace, signor Mayer, ho promesso a me stesso che non avrei... ”. “Sii uno dei miei figli”, insisteva. Quando si accorse che non mollavo, tornò alla scrivania asciugandosi le gote e, come se niente fosse, riprese una telefonata d affari lasciata in sospeso».

Altri tempi. E i produttori di oggi?
«Gli Studios oggi sono gestiti da gente che non ha per il cinema una vera passione. Oggi si produce cinema nello stesso modo in cui si potrebbero produrre automobili. Fortunatamente ci sono ancora dei produttori indipendenti, che considerano il film come la realizzazione personale di un sogno. È da loro che ci possiamo ancora aspettare qualche novità».

Lei ha detto che preferisce parlare del presente. C'è qualcosa che oggi la preoccupa?
«Mi sento personalmente colpito da ciò che sta succedendo ai giovani cinesi. Meno di due anni fa mi trovavo in Cina per conto del governo americano, in missione culturale. Quei poveri ragazzi vennero sottoposti alla visione di cinque miei film, che non erano mai stati visti in Cina. Erano rappresentati un po’ tutti i generi. C’erano Le avventure del Capitano Hornblower e I cannoni di Navarone, Il buio oltre la siepe, Vacanze romane e Gunfighter (Romantico avventuriero). I film dovevano servire come pretesto per confrontare le nostre esperienze, la nostra visione del mondo. Gli incontri si svolgevano all’Istituto di politica ed economia, la prestigiosa scuola da cui escono i futuri leader cinesi. Quei ragazzi riuscirono a trasmettermi l’impressione che, a dispetto della sua civiltà antica, la Cina sia un paese giovanissimo. Parlavano tutti un inglese perfetto. Era stupefacente: si trattava di giovani intelligentissimi, spiritosi, comici nelle loro osservazioni. E si sentiva che erano sulla strada di un progresso accelerato. Si avvertiva un forte bisogno di cambiamenti».

Quale dei suoi film è piaciuto di più agli studenti cinesi?
Stranamente Il buio oltre la siepe, un film che ha avuto più successo in America che altrove, forse perché racconta dei problemi del razzismo nel Sud degli Stati Uniti, negli anni ’30. Loro parevano molto interessati. E poi Vacanze romane. Questa storia d’amore impossibile, tra una principessa e un semplice giornalista, colpiva la loro fantasia».

Quando interpretò Vacanze romane lei era ancora sposato con la sua prima moglie?
«Sì. Perché me lo chiede?».

Perché tra lei e Audrey Hepburn in quel film si percepisce una straordinaria alchimia.
«Sì. Ma lei non ha avuto niente a che fare con la fine del mio matrimonio, che era già in difficoltà da qualche anno. Il divorzio avvenne poco dopo il film. Se è quello che vuol sapere: sì, naturalmente mi sono un po’ innamorato di Audrey facendo quel film».

Fu contraccambiato?
«Di queste cose non parlo. Posso dire che quando si recita una storia d’amore può capitare di confondere realtà e finzione. Audrey era una persona talmente notevole che era difficile non cadere in confusione. Ma poi, come nel film, la principessa ha un suo cammino già segnato e il giornalista deve andare per la sua strada».

Qualche anno dopo, però, un «principe» americano venne intervistato da una bella giornalista francese. I due si innamorarono e si sposarono. E i rotocalchi narrano che da allora vivono felici e contenti.
«Non mi vedo nei panni del principe azzurro. Ma certamente mia moglie Veronique era una giornalista molto bella e intelligente: faceva delle domande che scioglievano qualcosa dentro di me. Alla fine dell’intervista mi sentivo molto più leggero».

È vero che i due figli di questo secondo matrimonio si vanno facendo strada come attori?
«Sì. Cecilia e Anthony hanno fatto già il loro primo film da protagonisti e posso dire senza imbarazzo che sono orgoglioso di loro. Sono veramente bravi, riempiono lo schermo».

Lei li ha consigliati?
«Sì. Li ho pregati di non fare questo mestiere, perché certamente avrebbero sperimentato rifiuti, delusioni e anche disprezzo. Ma naturalmente poi ho rispettato la loro decisione. Di consigli tecnici non hanno bisogno, perché frequentano i miei set da quando sono bambini e così hanno assimilato il mestiere».

Della sua infanzia cosa ricorda?
«Mi hanno allevato i nonni, in una piccola città californiana, La Jolla. Credo che già allora i due punti cardinali della mia vita fossero segnati: la magia del palcoscenico e il bisogno di ribellarmi alle ingiustizie. Ero un bambino cattolico e servivo messa. Dovevo suonare il campanello sull’altare, con quelle pause, quel senso d’attesa, e dire le battute in latino, coi tempi giusti, e far oscillare l’incensiere, controllando le volute di fumo. Insomma, il gusto della rappresentazione».

E l’ingiustizia?
«Una grande croce fasciata di stracci e imbevuta di grasso, che brucia davanti alla casa di un negro, circondata dagli uomini incappucciati, che le fiamme fanno sembrare diavoli. È una scena che non ho visto personalmente, ma che tutti i bambini raccontavano. Allora La Jolla aveva sì e no duemila abitanti. Uno dei pochi ricchi del paese decise di assumere un cameriere di colore, ma quando il poveretto trovò casa lo fecero scappare a gambe levate, con la croce di fuoco, l’anello degli incappucciati e i sassi che gli sfondavano le finestre. Per me fu uno shock. Ricordo ancora l’uomo che si diceva fosse il capo del Ku Klux Klan locale. Era il meccanico del garage. Si chiamava Zimmerman, era alto, la faccia cadaverica, ma il resto del corpo, a furia di ingrassare macchine, si era tutto imbevuto di nero. La sua pelle era scura e oleosa. Lo guardavamo attraverso la strada, noi bambini, e avevamo una certa paura. L’ho sempre ricordato come un tipo giusto per la parte. Una buona scelta di cast».

La voce di Gregory Peck, profonda, da Abramo Lincoln, si è smarrita due volte durante l’intervista. Sopraffatta dalla commozione rievocando i tempi leggeri di Audrey Hepburn. Rotta dal peso di cupi ricordi, quando ha parlato del suo divorzio. Del suicidio di Jonathan, il suo primo figlio, non abbiamo osato chiedere. Ma la risposta era già sulla sua faccia.
Basterebbero due parole per definire Gregory Peck. La prima: integrità. Agli inizi di carriera, quando l’addetto stampa di un suo film, citando Greta Rice, la prima moglie, le inventò una professione chic, lui rimandò indietro il testo della biografia: «Mia moglie fa la parrucchiera, ed è anche bravissima. Non vedo perché dovremmo nasconderlo». La seconda parola che potrebbe definire l’uomo, viene in mente ascoltando quando racconta di uno dei suoi ultimi film, I ragazzi venuti dal Brasile: «Era un mio vecchio sogno, una delle mie più grandi aspirazioni, lavorare con Laurence Olivier ed ero altrettanto emozionato nel girare le scene con James Mason, un attore che ho sempre ammirato». Umiltà, questa è la parola giusta. Lasciandoci, prima di salutarlo, un’ultima domanda: C'è qualcosa di cui ha paura?
La voce si fa più profonda: «No. Ho avuto tante paure nella mia vita: problemi interiori, cadute, mi sono sempre chiesto se valessi qualcosa. La vita non è certamente un picnic. Ma per me non temo più nulla. Per i miei cari sì». E la paura di tornare nell’ombra? Risponde: «Non vivo per il successo. Non ho mai avuto bisogno di tutta questa gente che ti valuta e ti cerca a seconda delle tue quotazioni. Mi basta sapere che faccio del mio meglio». Mi guarda un po’ stanco: «Oggi non so pensare a qualcosa che mi faccia paura. Sono al punto in cui si accetta dalla vita quello che può succedere domani o tra cinque anni. Tante volte ho detto no. Se ho fatto un film adesso è perché ho amato la storia». La voce di Gregory Peck adesso adesso è cavernosa: «Se un altro Old Gringo verrà, io lo accoglierò come un amico». 

L'EUROPEO, 3 NOVEMBRE 1989

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