25.7.17

Fungo da febbre (Camilla Cederna)

Una paginetta di memorie e di nostalgie che offro alla lettura e che mi conferma nell'opinione più volte espressa che Camilla Cederna era qualcosa di più che una eccellente giornalista di costume. (S.L.L.)

Una volta era un gran divertimento misto a un’intensa emozione. Voglio dire il cercar funghi, l’intera famiglia sparpagliata per sentieri più o meno impervi nella quiete misteriosa del bosco, in luoghi come la Rotonda dei Marchesi, la Croce, Brizzott; ognuno col suo bastone per frugare (ma con delicatezza) tra il muschio, la coltre di aghi di pino e quelle promettenti gibbosità del terreno (ce ne sarà uno lì sotto?), tra le felcioline e i mirtilli. A un certo momento un urlo: «Qui, qui, venite a vedere!», e tutti a correre per ammirare il porcino un po’ tozzo e ben stagno, d’un affascinante rossiccio cupo, magari vicino anche a un fungo bambino, in formato ridotto, la cappella dello stesso colore, le spore bianche e compatte. Per i bambini questo era un momento di incontenibile gioia trasmesso però anche agli adulti che provavano la stessa febbre da fungo con esplosione finale, grida più soffocate ma sempre esultanti quando ne avvistavano uno.
Ci avevano insegnato a toglierli da terra con grande garbo senza scavare per vedere se ce n’erano sotto degli altri; se no, si diceva, lì non ne sarebbero più cresciuti, li c’era il cestino pronto ad accoglierli, tappezzato di foglie di castagno o di muschio vellutato. Negli anni buoni, all’emozione della raccolta seguiva un’operazione, quasi un rito, tanto era religiosamente compiuta dai vari componenti della famiglia: pulirli con un coltellino dalla terra e dagli aghi di pino, togliere le spore e poi tagliarli a fettine, che erano come sezioni o addirittura spettri di fungo, il gambo bianco, il cappelluccio scuro un po’ sghembo. Poi il sole li seccava e finivano d’inverno nel risotto alla milanese.
Ahimè, sono finite queste passeggiate familiari dentro una straordinaria gamma di verdi col cestino, il piccolo coltello, ogni riguardo verso la natura. Oggi i cercatori di funghi sono gruppi rapaci in tenuta da bagnino che arrivano vicino alla meta in moto o in macchina a partire dalle cinque del mattino, non seguono i sentieri, se ancora ci sono, e vanno a precipizio nei boschi, anche i più ripidi, e frugano, scavano, strappano, calpestano. Se arrivano prima di altri branchi, riempiono i loro sacchetti di plastica (la plastica rovina irrimediabilmente i funghi), e addio per sempre sano passatempo di una volta. Quest’autunno è stato un selvaggio arraffare, la totale cancellazione per anni di ogni ombra di fungo. E nessuno di costoro si è un po’ meravigliato di trovare un giorno nel bosco scosceso, fra antichi tronchi di pini e castagni, nientedimeno che un’arrugginita cucina economica, gettata dall’alto da altri vandali che non hanno trovato di meglio che farla rotolare giù dal loro rustico nel posto delle fragole, delle more e dei vagheggiati porcini.


De gustibus, Mondadori, 1986

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