7.7.17

Ginevra 1536. Proibito, proibito, proibito. La “Disciplina” di Calvino (Stefan Zweig)

Quando uno Stato mantiene i suoi cittadini nel terrore, fiorisce sempre la nefasta pianta della delazione spontanea: quando, in linea generale, si ammettono e anzi si incoraggiano le denunce, uomini altrimenti onesti si trasformano per paura in informatori; solo per allontanare da sé il sospetto di «non aver onorato adeguatamente Dio», ogni cittadino si mette a spiare e a guardare in modo sospettoso i suoi concittadini. Lo «zelo della paura» è ciò che muove tutti i denunciatori, e di lì a qualche anno il Concistoro avrebbe perfino potuto sospendere la propria sorveglianza, perché tutti i ginevrini si erano trasformati in inquisitori volontari. Il torbido fiume della delazione scorreva incessante, mettendo in moto la ruota dell’inquisizione religiosa.
Come sentirsi al sicuro in mezzo a questo terrore? Come sentirsi esenti da qualche tipo di trasgressione alle leggi divine, se Calvino ha vietato tutto, indistintamente, ciò che allieta la vita e la rende degna di essere vissuta? Il teatro, i divertimenti, le feste popolari, il ballo e il gioco sono proibiti; perfino un’attività così innocente come il pattinaggio sul ghiaccio scatena il disgusto di Calvino; è proibito ogni abito che non sia austero e quasi monacale; i sarti non possono confezionare nuovi modelli senza il permesso del magistrato; alle ragazze è proibito indossare abiti di seta prima dei quindici anni e, passata quest’età, abiti di velluto; sono proibite le vesti con ricami d’argento e d’oro, trecce, nodi e fermagli, e allo stesso modo sono proibiti ori e gioielli. Agli uomini è proibita la scriminatura e alle donne ogni acconciatura e arricciatura dei capelli; proibiti pizzi, guanti, fronzoli e calzature ricercate; proibito servirsi di portantine e «voitures roulantes», proibite le riunioni familiari di più di venti persone; proibito, in occasione di fidanzamenti e battesimi, servire più di un determinato numero di portate o offrire dolciumi, come frutta candita; proibito bere altro vino che non sia il rosso locale; proibito fare brindisi, proibita la selvaggina, il pollame, il pâté. Agli sposi è proibito scambiarsi doni in occasione delle nozze, fino a sei mesi dopo; proibito, ovviamente, ogni rapporto fra i sessi all’infuori del matrimonio; senza alcuna indulgenza neanche per i fidanzati. Ai cittadini con stabile domicilio in città è proibito frequentare le locande, e agli albergatori dare a un forestiere cibo e bevande prima che questi abbia recitato le sue preghiere; il locandiere ha anche l’obbligo di riferire e vegliare «diligemment» su ogni atto o parola sospetta del suo ospite. E proibito far stampare un libro senza il permesso delle autorità, proibito scrivere all’estero; è proibita l’arte in qualsiasi forma, proibiti i quadri e le sculture sacre, proibita la musica; perfino nel canto dei Salmi, le Ordinanze prescrivono che «si abbia cura di non rivolgere l’attenzione alla melodia», ma allo spirito e al significato delle parole, perché «soltanto nella parola di vita Dio vuole essere lodato». Nemmeno la libera scelta del nome di battesimo per i propri figli è ormai concessa a quei cittadini che un tempo erano stati uomini liberi. Sono proibiti nomi che erano in uso da secoli, come Claude o Amadé, perché non si trovano nella Bibbia, e se ne impongono altri, di biblica risonanza, come Isacco o Adamo. E proibito recitare in latino il Padre nostro, proibiti i festeggiamenti per il Natale e la Pasqua, proibito tutto quello che interrompe la grigia monotonia dell’esistenza. Proibito (inutile dirlo) ogni ombra o barlume di libertà spirituale nelle parole proferite o stampate, ed è proibita, come il peggiore fra i delitti, qualsiasi critica alla dittatura di Calvino; fra rulli di tamburi i cittadini sono espressamente esortati a non parlare dei pubblici affari «in qualsiasi sede che non sia il Consiglio».
Proibito, proibito, proibito: è un ritornello che fa rabbrividire. E viene da chiedersi che cosa, fra tante proibizioni, sia ancora permesso ai cittadini di Ginevra. Ben poco. Hanno il permesso di nascere e morire, lavorare, obbedire, andare in chiesa; quest'ultima attività, anzi, non è soltanto permessa, ma imposta per legge sotto pene severe: guai al cittadino che non ascolti le prediche della sua parrocchia (due di domenica, tre durante la settimana), e dimentichi di mandare i figli all’ora d’istruzione obbligatoria. Nemmeno nel giorno festivo si allenta il giogo della coercizione; la ruota del dovere gira inesorabile... Dopo il faticoso lavoro per guadagnarsi il pane quotidiano, c’è il servizio divino; la settimana è dedicata al lavoro, la domenica alla chiesa: soltanto così si può uccidere Satana nell’uomo... ma naturalmente si uccide anche ogni libertà e ogni gioia di vivere.
Viene da chiedersi con stupore come una città repubblicana, che aveva vissuto lunghi decenni nella libertà elvetica, abbia potuto sopportare una simile dittatura alla Savonarola. Come ha potuto tollerare,un gioioso popolo con il carattere del Sud, questo annullamento di tutti i piaceri della vita? Com’è stato possibile, per un solo uomo, un usceta intellettuale, violare la gioia di vivere di migliaia e migliaia di persone? Il segreto di Calvino non è nuovo, è il vecchio, eterno segreto di tutte le dittature: il terrore. Non ci si illuda: la forza che non arretra di fronte a nulla, che schernisce come segno di debolezza ogni senso di umanità, è una forza smisurata. Un terrore di Stato ideato sistematicamente e dispoticamente attuato paralizza la volontà dei singoli, dissolve e mina le basi di qualsiasi comunità; come un morbo distruttore, corrode le anime, e - questo è il suo segreto finale - ben presto la generale codardia si fa collaboratrice e complice, al punto che ciascuno, sentendosi sospettato, inizia a diffidare degli altri, e la paura spinge i timorosi a prevenire e assecondare gli ordini e le proibizioni dei loro li ranni. Un regime organizzato del terrore può sempre compiere miracoli, e Calvino, se si trattava della sua autorità, non esitò mai a ripetere miracoli di questo genere. In tema d’inflessibilità, nessun despota spirituale lo ha mai superato; e il suo implacabile rigore non è giustificato dal fatto di essere, come tutte le qualità di Calvino, un prodotto della sua ideologia. Certamente, quest’uomo dedito allo spirito, questo tipo nervoso, questo intellettuale, doveva provare un grande orrore per gli spargimenti di sangue; era incapace, come egli stesso afferma, di sopportare atti di crudeltà e non sarebbe mai stato in grado di assistere a una sola delle scene di tortura o atti di fede che si praticavano a Ginevra. E questa è appunto la colpa più grave dei teorici: gli stessi individui che non avrebbero il coraggio di assistere a un’esecuzione e tantomeno di compierla - come Robespierre -, pronunciano senza esitare centinaia di condanne, sentendosi interiormente protetti dalla loro «Idea», dalla loro teoria, dal loro sistema. L’essere duro e inflessibile verso quei «peccatori» era considerato da Calvino come il supremo postulato del suo sistema, e attuare integralmente questo sistema corrispondeva, dal punto di vista filosofico, ad assolvere il compito affidatogli da Dio stesso. Calvino riteneva quindi che fosse un suo dovere educarsi all’inflessibilità, anche a dispetto del proprio temperamento, e abituarsi con sistematica disciplina alla crudeltà; si «esercitava» a essere spietato come ci si esercita in un’arte sopraffina: «Mi adopero a essere severo nel debellare il vizio universale».


Da Castellio contro Calvino, Castelvecchi, 2015 (I ed. 1936)

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