30.7.17

La grande vacanza orientale-occidentale. Adolescenza al mare, in Sicilia (Vincenzo Consolo)

La spiaggia di san Gregorio, a Capo d'Orlando

Una costa diritta, priva di insenature, cale, ai piedi dei Nèbrodi alti, verdi d’agrumi, grigi d’ulivi. Una spiaggia pietrosa e un mare profondo che a ogni spirare di vento, maestrale, tramontana o scirocco, ingrossava, violento muggiva, coi cavalloni sferzava e invadeva la spiaggia. Era un correre allora dei pescatori dalle loro casupole in fila là oltre la strada di terra battuta, era un chiamare, un clamoroso vociare. Le donne, sugli usci, i bimbi in braccio, ansiose osservavano. I pescatori, i pantaloni fino al ginocchio, tiravano svelti le barche, in bilico sui parati, fino alla stradina, fin davanti ai muri delle case. D’inverno era ferma la pesca, le barche stavano sempre tirate sulla spiaggia. Una accanto all’altra, il nudo albero contro il cielo, gli scalmi consunti, strisce e losanghe lungo i fianchi, grandi occhi stupefatti o poppute sirene alle prore. Era il Muto il pittore di barche. Con buatte e pennelli, la mano ferma, l’occhio appuntato, faceva spuntare sul legno purrito quelle sue creature fantastiche. Ferma la pesca per il mare furioso, i pescatori dovevano allora piegarsi a un altro lavoro. Andare, in novembre, dicembre, dentro i frantoi. Li vedevi salire in paese, passar per le strade un po' mesti, avviliti, entrare nei magazzini dei padroni di terre per fare i facchini. Col sacco unto a cappuccio, portavano a spalla pesi enormi d’olive, sansa, otri grondanti. Con la buona stagione, riprendeva la pesca. Salpavano al vespero, con cianciòli, lampare, andavano a forza di remi a ottanta, novanta passi per la pesca di sarde e anciove. Le lampare, la notte, una appresso all’altra all’orizzonte, sembravano la luminaria per la festa del Santo. Ed erano sferzate, a tempo, dalla fascia lucente del faro di Capo d'Orlando. Gli altri due fari remoti, di Cefalù e Vulcano, quand’era sereno, sciabolavano lievi incrociandosi in mare. Ma contro la pesca v’era anche la luna, quando crescendo giungeva al suo pieno, e tonda, sfacciata, schiariva ogni tenebra, suscitava dai fondali ogni branco, assommava per la vastità del mare i pesci allocchiti.
E pure nella stagione capitava il fortunale. Nuvoloni s’ammassavano, gravavano sull’acqua, vorticavano a tromba, lampi e tuoni segnavano il fondo. Il mare improvviso gonfiava, mugghiava, sulle creste spingeva, nei valloni affossava gozzi e caicchi, l’onda violenta schiumava contro le pietre della spiaggia. Suonavano allora le campane, del castello, della Matrice, e tutti accorrevano sulla spiaggia, con corde e torce, in aiuto dei pescatori in pericolo. Amavo quella spiaggia del mio paese, amavo la vita di mare dei pescatori, pur non essendo della marina, ma d’altro ambiente e quartiere, di quello centrale di proprietari, bottegai, artigiani. La fascia più alta, delle ultime balze dei co11i, era invece di contadini, carrettieri, ortolani.
Tre quartieri, tre mondi separati tra loro, che s’univano soltanto in occasioni di feste o calamità, incendio o naufragio, che tutti smuoveva.
Le vacanze, les grandes vacances, secondo le professeur, che indicavano un termine, mentre in me le immaginavo e volevo d’un tempo infinito, le passavo giorno e sera su quella spiaggia pietrosa coi figli dei padroni di barche, pescatori da sempre, generazione dopo l’altra, ciascuno con storie, imprese, leggende, nomi e soprannomi precisi: Corso, Contallànno, Scaglione... Più tempo in acqua passavo con loro che sopra la terra, con loro sul gozzo a remare, andare da una parte o dall’altra, verso Acquedolci, Caronia, Torre del Lauro o verso Torrenova? Capo D’Orlando, Gioiosa... Andavamo il giorno, con ami ed esche, a ricciòle, àiole, pettini, e la sera, con lontro e acetilene, a tòtani e calamari. Tornavamo inzuppati per gli spruzzi rabbiosi di quelle bestie appena fuori dall’acqua.
Su quella spiaggia era la mia libera vita, più bella, ma in essa era anche il ricordo recente del tempo più nero: su quel mare, quella spiaggia era passata la guerra. Dal mare venivano i lampi, i fischi
allarmanti, gli scoppi che fracassarono case. Nel mare mitragliarono la barca dei Corso, ferirono uomini. Fu allora che la gente si mise a sfollare, sparpagliarsi per le campagne, a Vallebruca, Fiorita. Sulla spiaggia il mare rigettò un morto annegato, un tedesco, corroso alla testa, alle mani, il gonfiore del corpo che premeva contro il panno, i bottoni della divisa, le nere polacche. Gli pendeva dal collo un cordone a cui era appeso un fischietto. Lo coprirono i militi con un pezzo di vela. Dal mare sbarcarono gli anfibi con sopra gli americani, bianchi, neri, donne con biondi capelli che scendevano da sotto l’elmetto.
Poi la vita mi staccò da quella spiaggia, dai compagni, dalle avventure. Rientrai nel centro e, acculturato, fui preso dal desiderio di conoscere il mondo che mi stava alle spalle, la terra che si stendeva al di là della barriera dei Nèbrodi. Immaginai quella terra come una infinita teorie di rovine, di antiche città, di teatri, di templi al sole splendenti o bagnati dal chiarore lunare, immersi in immensi silenzi.
Silenzio come quello di Tindari, su alla chiesetta della nera Madonna sul ciglio roccioso del colle che netto precipita in mare. E nella greca città che alta domina il golfo, sta di fronte a Salina, Vulcano, Lipari, celesti e trasparenti sull’orizzonte. Nella cavea del teatro, risuonavano i miei passi e, al Ginnasio, le statue acefale, togate là sotto l’arco, erano fantasmi che mi venivano incontro da un tempo remoto.
Silenzio, solitudine, estraneamento ancora giù in basso nella landa renosa, fra le dune e i laghi marini d’ogni verde e azzurro, nel folto di canne da cui svolavano gabbiani e garzette. Sull’aperta spiaggia erano legni stinti, calcinati, relitti di barche che un qualche fortunale aveva travolto, sospinto su quelle sabbie.
Brulichìo e clamore incontrai invece a oriente, a Naxos, Taormina, Siracusa, Gela, e pure nel cuore dell’isola, a Enna e Casale di Piazza Armerina. Il deserto, il silenzio era all’interno tra una stazione e un’altra, i soli rumori, in quella nudità infinita, in quel giallo svampante, lo sferragliare, sbuffare e fischiare del treno.
Un trenino mi portò ancora a Segesta, a Selinunte, a Marsala. In questo «porto di Allah», sapevo, avrei dovuto incontrare il Minosse prima d’esser proiettato, oltre il breve braccio di mare, su Mozia. Bussai alla porta e fui introdotto in un piccolo studio. Apparve poi l’uomo imponente, che rispose al salute con un cenno del capo. Si sedette dietro la scrivania e mi scrutò per un po’. Cominciò quindi, severo, a far le domande: chi ero, da dove venivo, che sapevo di Mozia, dei Fenici, quale interesse mi spingeva a visitare l’isola dello Stagnone. Risposi puntuale a ogni domanda. M’osservò ancora, e cominciò quindi a dire: così giovane in giro da solo, e non avevo con me neanche un baedeker, una macchina fotografica come tutti i turisti, neanche un cappello di paglia per il sole cocente... Scosse la testa, sorrise, prese quindi la penna, scrisse su un foglio. Il colonnello Lipari, amministratore della famiglia inglese Whitaker, proprietaria di Mozia, mi aveva finalmente dato il permesso di accedere all’isola. Mi portai sul molo dello Stagnone, fra i cumuli dei sale, mi misi a sventolare il fazzoletto. Si staccò dopo un po’ una barca dall’isola e puntò verso il molo. L’uomo ai remi mi aiutò a salire. Nel tragitto, si vedeva il fondo basso del mare, spiccavano tra l’ondeggiare delle poseidonie i bianchi lastroni di pietra dell’antica strada sommersa.
All’approdo, l’uomo mi disse che al tramonto avrebbe suonato una campana, che era quello il segnale della chiusura, dell’ultima barca per tornare all’Inferra, la salina di fronte. Andai lungo le mura di calcare coi capperi cascanti dagli interstizi, lambite dal mare, salii sulla scala della torre, oltre la postierla, giunsi alla Porta che introduce alla strada per il Santuario. Tutto intorno allo spiazzo dei basamenti, dei blocchi di pietra e del pietrame dell’area sacra era un verde tappeto di giummare sovrastato dai pini di Aleppo, e da quel verde s’alzavano stormi di gazze e calandre. Per la fornace dei vasai giunsi poi alla Necropoli e al Tofet. Affioravano qui le bocche dei vasi imprigionati nel terreno argilloso, urne contenenti le ossa dei fanciulli che quei Fenici sacrificavano alla gran madre Astarte o al gran padre Baal. Furono i Siracusani che, dopo la vittoria di Imera, imposero a quei «barbari» di cessare il rito crudele. E Montesquieu, nel suo Esprit des lois, così esultava: «Le plus beau traité de paix dont l’histoire ait parlé est, je crois, celui que Gélon fit avec les Carthaginois. Il voulut qu’ils abolissent la costume d’immoler leurs enfants. Chose admirable!...». Ammirevole sì, quel trattato, ma l’illuminato barone francese dimenticava che quegli stessi Siracusani, dopo la vittoria, avevano crocifisso tutti i greci che avevano combattuto accanto ai Fenici-Cartaginesi. È crudeltà, massacro, orrore dunque la storia? O è sempre un assurdo contrasto? Quei Fenici che sacrificavano i loro figli agli dei erano quelli che avevano inventato il vetro e la porpora, e la scrittura segnica dei suoni, aleph, beth, daleth... l'alfabeto che poi usarono i greci e i latini, usiamo anche noi, quei Fenici che, con i loro commerci, per le vie del mare portarono in questo Mediterraneo occidentale nuove scoperte e nuove conoscenze.
A Porta Sud scoprii quindi la meraviglia di quel luogo, il Cothon, il porto artificiale di quegli avventurosi navigatori, di quei sagaci commercianti. Era una piscina rettangolare in cui dal mare, per un breve canale, affluiva l’acqua. Ai quattro lati, sui bordi, i blocchi squadrati, s’ergevano le mura di magazzini, darsene, s’aprivano scale. Non resistetti e mi tuffai in quell’acqua spessa di sale, nuotai e sguazzai in quel porto fenicio. Al sole poi, davanti a quel mare stagnante, mi sembrava di veder sopraggiungere, a frotte, le snelle barche dalle vele purpuree, il grande occhio apotropaico dipinto sulle alte prore. Occhi come quelli che dipingeva il Muto sulle barche dei pescatori del mio paese, della spiaggia, delle spiagge perdute della mia memoria.

“alias il manifesto”, 7 agosto 1999

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