La spiaggia di san Gregorio, a Capo d'Orlando
Una costa diritta, priva
di insenature, cale, ai piedi dei Nèbrodi alti, verdi d’agrumi,
grigi d’ulivi. Una spiaggia pietrosa e un mare profondo che a ogni
spirare di vento, maestrale, tramontana o scirocco, ingrossava,
violento muggiva, coi cavalloni sferzava e invadeva la spiaggia. Era
un correre allora dei pescatori dalle loro casupole in fila là oltre
la strada di terra battuta, era un chiamare, un clamoroso vociare. Le
donne, sugli usci, i bimbi in braccio, ansiose osservavano. I
pescatori, i pantaloni fino al ginocchio, tiravano svelti le barche,
in bilico sui parati, fino alla stradina, fin davanti ai muri delle
case. D’inverno era ferma la pesca, le barche stavano sempre tirate
sulla spiaggia. Una accanto all’altra, il nudo albero contro il
cielo, gli scalmi consunti, strisce e losanghe lungo i fianchi,
grandi occhi stupefatti o poppute sirene alle prore. Era il Muto il
pittore di barche. Con buatte e pennelli, la mano ferma, l’occhio
appuntato, faceva spuntare sul legno purrito quelle sue creature
fantastiche. Ferma la pesca per il mare furioso, i pescatori dovevano
allora piegarsi a un altro lavoro. Andare, in novembre, dicembre,
dentro i frantoi. Li vedevi salire in paese, passar per le strade un
po' mesti, avviliti, entrare nei magazzini dei padroni di terre per
fare i facchini. Col sacco unto a cappuccio, portavano a spalla pesi
enormi d’olive, sansa, otri grondanti. Con la buona stagione,
riprendeva la pesca. Salpavano al vespero, con cianciòli, lampare,
andavano a forza di remi a ottanta, novanta passi per la pesca di
sarde e anciove. Le lampare, la notte, una appresso all’altra
all’orizzonte, sembravano la luminaria per la festa del Santo. Ed
erano sferzate, a tempo, dalla fascia lucente del faro di Capo
d'Orlando. Gli altri due fari remoti, di Cefalù e Vulcano, quand’era
sereno, sciabolavano lievi incrociandosi in mare. Ma contro la pesca
v’era anche la luna, quando crescendo giungeva al suo pieno, e
tonda, sfacciata, schiariva ogni tenebra, suscitava dai fondali ogni
branco, assommava per la vastità del mare i pesci allocchiti.
E pure nella stagione
capitava il fortunale. Nuvoloni s’ammassavano, gravavano
sull’acqua, vorticavano a tromba, lampi e tuoni segnavano il fondo.
Il mare improvviso gonfiava, mugghiava, sulle creste spingeva, nei
valloni affossava gozzi e caicchi, l’onda violenta schiumava contro
le pietre della spiaggia. Suonavano allora le campane, del castello,
della Matrice, e tutti accorrevano sulla spiaggia, con corde e torce,
in aiuto dei pescatori in pericolo. Amavo quella spiaggia del mio
paese, amavo la vita di mare dei pescatori, pur non essendo della
marina, ma d’altro ambiente e quartiere, di quello centrale di
proprietari, bottegai, artigiani. La fascia più alta, delle ultime
balze dei co11i, era invece di contadini, carrettieri, ortolani.
Tre quartieri, tre mondi
separati tra loro, che s’univano soltanto in occasioni di feste o
calamità, incendio o naufragio, che tutti smuoveva.
Le vacanze, les
grandes vacances, secondo le professeur, che indicavano un
termine, mentre in me le immaginavo e volevo d’un tempo infinito,
le passavo giorno e sera su quella spiaggia pietrosa coi figli dei
padroni di barche, pescatori da sempre, generazione dopo l’altra,
ciascuno con storie, imprese, leggende, nomi e soprannomi precisi:
Corso, Contallànno, Scaglione... Più tempo in acqua passavo con
loro che sopra la terra, con loro sul gozzo a remare, andare da una
parte o dall’altra, verso Acquedolci, Caronia, Torre del Lauro o
verso Torrenova? Capo D’Orlando, Gioiosa... Andavamo il giorno, con
ami ed esche, a ricciòle, àiole, pettini, e la sera, con lontro e
acetilene, a tòtani e calamari. Tornavamo inzuppati per gli spruzzi
rabbiosi di quelle bestie appena fuori dall’acqua.
Su quella spiaggia era la
mia libera vita, più bella, ma in essa era anche il ricordo recente
del tempo più nero: su quel mare, quella spiaggia era passata la
guerra. Dal mare venivano i lampi, i fischi
allarmanti, gli scoppi
che fracassarono case. Nel mare mitragliarono la barca dei Corso,
ferirono uomini. Fu allora che la gente si mise a sfollare,
sparpagliarsi per le campagne, a Vallebruca, Fiorita. Sulla spiaggia
il mare rigettò un morto annegato, un tedesco, corroso alla testa,
alle mani, il gonfiore del corpo che premeva contro il panno, i
bottoni della divisa, le nere polacche. Gli pendeva dal collo un
cordone a cui era appeso un fischietto. Lo coprirono i militi con un
pezzo di vela. Dal mare sbarcarono gli anfibi con sopra gli
americani, bianchi, neri, donne con biondi capelli che scendevano da
sotto l’elmetto.
Poi la vita mi staccò da
quella spiaggia, dai compagni, dalle avventure. Rientrai nel centro
e, acculturato, fui preso dal desiderio di conoscere il mondo che mi
stava alle spalle, la terra che si stendeva al di là della barriera
dei Nèbrodi. Immaginai quella terra come una infinita teorie di
rovine, di antiche città, di teatri, di templi al sole splendenti o
bagnati dal chiarore lunare, immersi in immensi silenzi.
Silenzio come quello di
Tindari, su alla chiesetta della nera Madonna sul ciglio roccioso del
colle che netto precipita in mare. E nella greca città che alta
domina il golfo, sta di fronte a Salina, Vulcano, Lipari, celesti e
trasparenti sull’orizzonte. Nella cavea del teatro, risuonavano i
miei passi e, al Ginnasio, le statue acefale, togate là sotto
l’arco, erano fantasmi che mi venivano incontro da un tempo remoto.
Silenzio, solitudine,
estraneamento ancora giù in basso nella landa renosa, fra le dune e
i laghi marini d’ogni verde e azzurro, nel folto di canne da cui
svolavano gabbiani e garzette. Sull’aperta spiaggia erano legni
stinti, calcinati, relitti di barche che un qualche fortunale aveva
travolto, sospinto su quelle sabbie.
Brulichìo e clamore
incontrai invece a oriente, a Naxos, Taormina, Siracusa, Gela, e pure
nel cuore dell’isola, a Enna e Casale di Piazza Armerina. Il
deserto, il silenzio era all’interno tra una stazione e un’altra,
i soli rumori, in quella nudità infinita, in quel giallo svampante,
lo sferragliare, sbuffare e fischiare del treno.
Un trenino mi portò
ancora a Segesta, a Selinunte, a Marsala. In questo «porto di
Allah», sapevo, avrei dovuto incontrare il Minosse prima d’esser
proiettato, oltre il breve braccio di mare, su Mozia. Bussai alla
porta e fui introdotto in un piccolo studio. Apparve poi l’uomo
imponente, che rispose al salute con un cenno del capo. Si sedette
dietro la scrivania e mi scrutò per un po’. Cominciò quindi,
severo, a far le domande: chi ero, da dove venivo, che sapevo di
Mozia, dei Fenici, quale interesse mi spingeva a visitare l’isola
dello Stagnone. Risposi puntuale a ogni domanda. M’osservò ancora,
e cominciò quindi a dire: così giovane in giro da solo, e non avevo
con me neanche un baedeker, una macchina fotografica come tutti i
turisti, neanche un cappello di paglia per il sole cocente... Scosse
la testa, sorrise, prese quindi la penna, scrisse su un foglio. Il
colonnello Lipari, amministratore della famiglia inglese Whitaker,
proprietaria di Mozia, mi aveva finalmente dato il permesso di
accedere all’isola. Mi portai sul molo dello Stagnone, fra i cumuli
dei sale, mi misi a sventolare il fazzoletto. Si staccò dopo un po’
una barca dall’isola e puntò verso il molo. L’uomo ai remi mi
aiutò a salire. Nel tragitto, si vedeva il fondo basso del mare,
spiccavano tra l’ondeggiare delle poseidonie i bianchi lastroni di
pietra dell’antica strada sommersa.
All’approdo, l’uomo
mi disse che al tramonto avrebbe suonato una campana, che era quello
il segnale della chiusura, dell’ultima barca per tornare
all’Inferra, la salina di fronte. Andai lungo le mura di calcare
coi capperi cascanti dagli interstizi, lambite dal mare, salii sulla
scala della torre, oltre la postierla, giunsi alla Porta che
introduce alla strada per il Santuario. Tutto intorno allo spiazzo
dei basamenti, dei blocchi di pietra e del pietrame dell’area sacra
era un verde tappeto di giummare sovrastato dai pini di Aleppo, e da
quel verde s’alzavano stormi di gazze e calandre. Per la fornace
dei vasai giunsi poi alla Necropoli e al Tofet. Affioravano qui le
bocche dei vasi imprigionati nel terreno argilloso, urne contenenti
le ossa dei fanciulli che quei Fenici sacrificavano alla gran madre
Astarte o al gran padre Baal. Furono i Siracusani che, dopo la
vittoria di Imera, imposero a quei «barbari» di cessare il rito
crudele. E Montesquieu, nel suo Esprit des lois, così
esultava: «Le plus beau traité de paix dont l’histoire ait parlé
est, je crois, celui que Gélon fit avec les Carthaginois. Il voulut
qu’ils abolissent la costume d’immoler leurs enfants. Chose
admirable!...». Ammirevole sì, quel trattato, ma l’illuminato
barone francese dimenticava che quegli stessi Siracusani, dopo la
vittoria, avevano crocifisso tutti i greci che avevano combattuto
accanto ai Fenici-Cartaginesi. È crudeltà, massacro, orrore dunque
la storia? O è sempre un assurdo contrasto? Quei Fenici che
sacrificavano i loro figli agli dei erano quelli che avevano
inventato il vetro e la porpora, e la scrittura segnica dei suoni,
aleph, beth, daleth... l'alfabeto che poi usarono i greci e i latini,
usiamo anche noi, quei Fenici che, con i loro commerci, per le vie
del mare portarono in questo Mediterraneo occidentale nuove scoperte
e nuove conoscenze.
A Porta Sud scoprii
quindi la meraviglia di quel luogo, il Cothon, il porto artificiale
di quegli avventurosi navigatori, di quei sagaci commercianti. Era
una piscina rettangolare in cui dal mare, per un breve canale,
affluiva l’acqua. Ai quattro lati, sui bordi, i blocchi squadrati,
s’ergevano le mura di magazzini, darsene, s’aprivano scale. Non
resistetti e mi tuffai in quell’acqua spessa di sale, nuotai e
sguazzai in quel porto fenicio. Al sole poi, davanti a quel mare
stagnante, mi sembrava di veder sopraggiungere, a frotte, le snelle
barche dalle vele purpuree, il grande occhio apotropaico dipinto
sulle alte prore. Occhi come quelli che dipingeva il Muto sulle
barche dei pescatori del mio paese, della spiaggia, delle spiagge
perdute della mia memoria.
“alias il manifesto”,
7 agosto 1999
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Una bellissima pagina. Complimenti per la selezione.
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