31.7.17

'O musicante'. Dall'autobiografia di Pino Daniele

Glorie e poesie di un mascalzone latino, l’autobiografia di Pino Daniele, scritta in collaborazione con Mimmo Liguoro, fu pubblicata dalla Tullio Pironti Editore nel 1994. Il quotidiano “il manifesto” ne pubblicò il breve estratto dedicato a Troisi ed Eduardo che qui riprendo. (S.L.L.)

Lo avevo conosciuto quando faceva parte del gruppo La smorfia, alla trasmissione No stop. Ma, stranamente, mi sembrò, e forse sembrò a tutti e s due, di esserci già incontrati. Dove? Nella regione impalpabile del cervello e dei sentimenti. Non è forse vero che «primma ’e d’ ’o tiempo all’uocchie», ’o core già s’è fatto avanti? Sentivamo che tutti e due ci eravamo incamminati lungo la stessa strada. Essere napoletani era per noi un ancoraggio formidabile, ma poi bisognava sganciare la cima e navigare in mare aperto. Pur essendo legato non solo sentimentalmente a Napoli, io mi sento, per dir così, universale, cioè senza limiti per la mia ricerca artistica, per le verifiche, incontri, proiezioni dell’interesse culturale verso altri climi, altre realtà.
La scommessa è quella di conservare il modo di essere napoletani (radici, valori essenziali, consapevolezza dell’appartenenza) con l’apertura alle esperienze che vengono vissute, nel campo che ti riguarda, anche nel resto del mondo. Io e Massimo, ciascuno a modo suo, inseguivamo questa scommessa.
Un giorno, ricordo, eravamo in viaggio per Viareggio. Gli avevo chiesto di aiutarmi per un video (...) Aiutarmi, cioè offrirmi qualche spunto. E lui subito, in macchina, si mise a scrivere. Dopo pochissimo tempo (eravamo arrivati al passo della Cisa) era pronto il testo della canzone T'aggia vede’ morta. Arrivati a Viareggio, fui preso - naturalmente - dal desiderio di vedere il mare. E arrivati sulla spiaggia, mi tolsi scarpe e calzini, mi arrotolai il pantalone sulle caviglie e cominciai a passeggiare dove le onde si sdraiavano lente sulla sabbia. In quelle condizioni, era chiaro a tutti i presenti che non avevo assolutamente l’aria di chi volesse o potesse affondare nell’acqua, neppure per due centimetri. E invece Massimo, fingendo preoccupazione per le mie sorti, s’avvicinò calmo ma solenne e, come se si rivolgesse a uno pronto a tuffarsi, mi disse: «Nunt’alluntana’, eh...».
Ci vedevamo spesso, e più spesso ci sentivamo al telefono. Mi stette vicino, quando subii l’intervento. Una presenza assidua e discreta, che mi ha aiutato non poco a riprendermi e a ricredere nel futuro. Quel singolare rapporto nostro, cresciuto su una sintonia di fondo, preesistente alla nostra conoscenza diretta, è andato avanti fino alla sua morte. E, non è retorica, per me dura ancora. Voglio dire, semplicemente, che per me è come se Massimo fosse ancora vivo e presente nelle mie giornate. Faccio fìnta che «ce simmo appiccecati», che abbiamo litigato, e che per questa minima ragione non ci vediamo più. Con la consapevolezza che poi questa banale ragione sarà superata. (...) Quando penso a Troisi attore e autore, mi viene in mente Eduardo De Filippo. Io e Massimo ci siamo riferiti al modo di sentire, desiderare, pensare di una generazione recente. Eduardo è lo scalino precedente di una grande scala che parte da molto lontano ed è proiettata ancora in avanti, verso un inafferrabile orizzonte. Tante famiglie napoletane (e non solo quelle napoletane) degli anni della mia infanzia si identificavano in Eduardo e nei suoi personaggi. Quando compariva in televisione, io ricordo bene, per le strade c’era il deserto. Dalle finestre socchiuse, dai balconi con le persiane accostate, dai «bassi» metà aperti e metà chiusi, veniva fuori quella luce azzurrognola della televisione di sera, quando intorno è buio. E si sentiva quella voce che si lasciava andare a un monologo, o duettava indispettita, o ragionava con tono pacato. Chi non la ricorda? «Vedete quanto poco ci vuole per fare felice un uomo: ’na tazzulella ’e café fuori dal balcone, all’aria fresca...»: il protagonista di Questi fantasmi esorcizzava la paura degli spettri (o era paura della vita?) parlando col dirimpettaio, ’o prufessore, che lo scrutava e, in fondo, lo tenevasotto esame. Quando lo conobbi, Eduardo mi disse che gli piaceva la mia canzone ’Na tazzulella ’e café, del 1977. E certo, in questa sua preferenza doveva esserci un forte riflesso di quel suo pezzo teatrale, in cui la tazzina di caffè, la macchinetta col beccuccio, gli espedienti semplici ma geniali per rendere il caffè più aromatico, diventano i simboli di un antico modo di vivere. Tra spaventi, sospetti, colpi di scena, fulmini e apparizioni finte, resta giusto il tempo per bere una «tazzulella» di caffè: è l’unica parentesi serena: come ci vuole poco...(...)
De Filippo ha rappresentato un secolo di cultura e vita del popolo napoletano. Un periodo in cui, senza le sue commedie, si sarebbe forse perduta ogni traccia, dal vivere quotidiano ai valori e alle disavventure sociali. Se fosse possibile, paragonerei Eduardo a Miles Davis. Perché? Perché Davis è stato il più grande musicista di questo secolo, secondo me. (...). Eduardo, riassumendo la grande lezione del teatro napoletano, ha portato sulle scene l’attualità, i problemi dell’uomo contemporaneo, i suoi tormenti, le sue piccole gioie e le insidie che ogni minuto lo circondano. E ha dato a tutti un filo di tela da tessere, soprattutto agli artisti più giovani. Così, io mi sento «in continuità» con la sua presenza culturale, devo molto a lui come ad altri personaggi che hanno esercitato un’enorme influenza sul modo di concepire il rapporto con l’ispirazione artistica e col pubblico. Se io posso essere il testimone di una generazione che, al di là delle contaminazioni, si è mossa e si muove nel fiume di quella che chiamano «napoletanità», allora non posso dimenticare quanto a me è venuto dagli esempi di persone come Eduardo o, per altri motivi, come Sergio Bruni o Roberto Murolo.

il manifesto, 11 novembre 1994

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