Chi ha avuto la fortuna
di vedere Gilbert Bécaud in concerto, nei programmi tv o al festival
di Sanremo, difficilmente dimenticherà la sua straordinaria verve,
il suo temperamento meridionale, la sua vena sentimentale contagiosa.
Era passato alla storia nell’aprile 1954 quando il pubblico del suo
spettacolo all’Olympia (il palcoscenico preferito) di Parigi per la
prima volta devastò la sala e ruppe le sedie trascinato dalla sua
voce calda e dall’esibizione travolgente. Perciò gli affibbiarono
quei soprannomi ridicoli come Monsieur 100.000 Volts, per la capacità
di elettrizzare anche persone normali, con le sue performance
estremamente generose e coinvolgenti.
Era il più passionale
degli chansonnier francesi, molto amico col più romantico ed
elegante Charles Aznavour, col quale avevano debuttato nello stesso
periodo scrivendo insieme due canzoni Je veux te dire adieu e
C’est merveilleux l’amour ed entrambi erano stati aiutati
a emergere da Edith Piaf. Si presentava con vestito bleu, camicia
bianca e cravatta a pois, quasi un inconfondibile abito da lavoro, e
sfoggiava tutte le sue doti vocali e la consumata esperienza in
interpretazioni davvero formidabili (per molte stagioni ne ha fatte
250 all’anno). «Quando scrivo una canzone, quando salto sui
palcoscenico», ha scritto nella sua autobiografia Quand t’es petit
dans le Midi del 1993, «lo faccio con il cuore, mi viene dalle
viscere, proprio come i giocatori di tennis si mettono a urlare
quando mettono a segno una palla di servizio. Io non sono il tipo che
sta lì a pensarci sopra, non sono un carrierista che pianifica la
prossima mossa».
Pianista di formazione
classica (studi al conservatorio di Nizza), aveva accettato
all’inizio a malincuore di esibirsi nei night-club parigini ed era
rimasto un po’ male che la sua opera lirica, L’opera di Aran,
scritta nel 1962, non avesse ottenuto generale consenso. Allora aveva
già scritto Je t’appartiens, uno dei suo grandi successi
che diventerà un hit anche in inglese Let It Be Me cantato da Frank
Sinatra e sarà inciso pure dagli Everly Brothers e da Bob Dylan («Un
tipo bizzarro. Un giorno ho passato tre ore con lui, non ha detto una
parola»). E passerà di successo in successo, costituendo un
efficace sodalizio con i suoi due parolieri (il poeta-prefetto Louis
Amade e Pierre Delanoe), scrivendo canzoni sentimentali che hanno
fatto epoca: Nathalie, Le jour où la pluie viendra, Je
reviens te chercher, Dimanche a Orly e naturalmente Et
maintenant, un successo mondiale che vanterà oltre 150 versioni
(da Barbra Streisand a Sonny & Cher, in inglese si intitola What
now my love). «Et maintenant que vais-je faire/ De tout ce temps
que sera ma vie/ De tous ces gens qui m’indifférent/ Maintenant
que tu es partie»).
Qualche dissenso
l’ottenne quando, nel 1965, scrisse Tu le regretteras (Tu lo
rimpiangerai), una canzone dedicata al generale De Gaulle. Era
insomma un grande artista, orgoglioso della sua semplicità e un po’
guascone. Un alfiere della musica popolare francese, che rivaleggiava
con Trenet e gli altri chansonnier, che aveva buttato a mare
l’interpretazione da bel canto per abbracciare lo swing, l’urlo e
il trasporto emotivo. Da allora in poi la sua vita fu un susseguirsi
di tournée e di dischi. In Italia divenne molto popolare negli anni
settanta partecipando a uno show del sabato sera, «Teatro 10»
condotto da Alberto Lupo, in cui Becaud si esibiva regolarmente e
aveva tradotto in italiano alcuni suoi brani fortunati come
L’importante è la rosa. La sua ultima esibizione, nel
nostro paese, l’anno scorso a maggio, al Teatro Massimo di Palermo,
nel balletto À Paris («È la prima volta che partecipo a uno
spettacolo per cantare una sola canzone, forse sono troppo caro per
un recital»). Invece l’anno precedente, nel 1999, aveva cantato,
insieme con Ute Lemper, in piazza Plebiscito a Napoli («una città
che mi ricorda la mia terra, solare e ottimista»). Proprio in quella
stagione si era scoperto la grave malattia, un cancro alla gola, che
non l’avrebbe più lasciato. Ad allora risale il suo ultimo album,
Faut faire avec.
Sposato due volte, padre
di sei bambini compresa una ragazza del Laos adottata nel 1992, il
cantante di Tolone divideva la sua vita tra una proprietà a Poitou,
una villa in Corsica e una peniche (la barca-casa galleggiante)
all’ancora sulla Senna. Nel suo prossimo disco, Mon cap,
registrato la scorsa estate e prodotto da Quincy Jones, c’è un
pezzo inedito registrato in una chiesa, a quattro mani e due voci
insieme con Stevie Wonder («è un ragazzo straordinario, ha la mano
di Dio sulla spalla»).
“il manifesto” 19
dicembre 2001
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