5.8.17

Le riscoperte degli anni 80. Il Psi e i positivisti italiani (Luciano Pellicani)

Luciano Pellicani in una foto recente
“Studiosi della politica e della società come Pareto, Mosca, Michels, Ferrero furono scomunicati dalle correnti idealistiche allora maggioritarie. Oggi molti si interessano a loro. Perché?”. Era questo il sommario dell'articolo di Luciano Pellicani che qui ho postato, il cui titolo originale è L'altra Cultura, a suo tempo pubblicato sul “L'Espresso”.
Pellicani era al tempo considerato uno dei più ascoltati “consiglieri teorici” di Craxi. Il celebre saggio su Proudhon del 1979, con il quale il segretario del Psi “tagliava la barba a Marx”, fu scritto in collaborazione con Pellicani, che dell'ottocentesco socialista francese era studioso; ed a firma di entrambi è stato ripubblicato di recente come Il vangelo socialista. Il precedente aiuta a trovare la risposta alla domanda a cui in verità l'articolo non risponde. Perché nei pensatori del passato i socialisti di Craxi cercavano puntelli nella loro sfida al Pci per l'egemonia tra gli intellettuali: prima Proudhon, poi gli studiosi positivisti della società e della politica, anche conservatori, e perfino molto conservatori. Solo che nel primo caso il bersaglio era esplicitato, Marx, qui è solo alluso. Si parla di idealismo, di Croce, di marx-leninismo e perfino di scuola di Francoforte, ma il bersaglio vero sono Gramsci e la politica del Pci che all'idea gramsciana di blocco storico si ispirava anche al tempo di Berlinguer. Solo molto più tardi Pellicani, a Pci morto, supererà quelle sue timidezze e scriverà un pamphlet dal titolo esplicito: Cattivi maestri della Sinistra. Gramsci, Togliatti, Lukàcs, Sartre e Marcuse.
Pertanto, se l'invito di Pellicani a rileggere alcuni autori dimenticati della temperie positivistica può considerarsi giusto e conserva tuttora un suo valore, non è sbagliato collocare la sua polemica “riscoperta” in quella precisa temperie storica, negli anni del Craxi prima della sua esperienza governativa e del CAF, quelli immediatamente successivi al congresso di Torino, quando la linea prevalente sembrava quella della sfida a sinistra per l'egemonia, in vista di una alternativa socialista. (S.L.L.)
Guglielmo Ferrero
L'altra Cultura
Qualche settimana fa sul ’’Giornale Nuovo” Manlio Cancogni si è domandato perché mai uno studioso della levatura di Guglielmo Ferrero sia stato completamente dimenticato. Eppure la sua opera maggiore, Grandezza e decadenza di Roma (una storia della parabola del potere romano da Scipione agli ultimi imperatori), al suo apparire ebbe un successo strepitoso. Fu immediatamente considerata un classico e tradotta in varie lingue. Bartolomé Mitre, ex presidente della Repubblica argentina e amico di Garibaldi, invitò Ferrero a Buenos Aires per un ciclo di conferenze; il presidente degli Stati Uniti, Theodor Roosevelt, lo volle ospite alla Casa Bianca.
Di tale gloria non è rimasto quasi nulla. E non certo perché essa fosse immeritata. Tutt’altro. I pochi che conoscono Grandezza e decadenza di Roma lo considerano un autentico capolavoro degno di stare accanto a quelli di Gibbon, Mommsen e Rostovzev. E coloro che hanno avuto la fortuna di leggere Potere (l’editore SugarCo lo ristampa in questi giorni) sanno che non è affatto una iperbole il giudizio entusiasta che ne diede Henri Pirenne: « Una mirabile opera d’arte ». E sanno altresì che autorevoli politologi come Maurice Duverger e Julien Freund lo considerano un libro di fondamentale importanza.
In effetti, se si mettono a confronto le pagine che Ferrero ha scritto nel libro Potere sul problema della legittimità con quelle celebratissime di Max Weber, non si può non convenire che le prime sono assai più istruttive delle seconde. Weber si limita a constatare che «ogni dominio cerca di suscitare e di coltivare la fede nella propria legittimità». Ferrero invece, oltre a indagare sui meccanismi psicologici che governano la dialettica del comando e dell’obbedienza, analizza le terribili conseguenze dell’illegittimità. Il Potere — egli dice — è una istituzione di protezione dalla paura, un’invenzione della civiltà per ridurre l’ansietà degli uomini di fronte ai pericoli (reali e immaginari) della vita. Ma si converte nel suo contrario, cioè in una istituzione terroristica, se non riesce ad ottenere il consenso spontaneo dei governati. Ciò accade quando la fede nella legittimità si volatilizza. Allora la paura si impossessa degli spiriti e si apre un ciclo di rivoluzioni e di colpi di Stato, cui seguono puntualmente regimi privi di consenso che sono, e non possono non essere, vere e proprie tirannie. Ciò permette a Ferrero di dare una originale interpretazione del totalitarismo del XX secolo: esso non sarebbe altro che la conseguenza necessaria della crisi di legittimità in cui è stata precipitata l’Europa dalla diffusione contagiosa dello spirito rivoluzionario.
Perché allora oggi in Italia nessuno legge Ferrero? Ma non si tratta di un caso isolato. Chi conosce le opere di Giuseppe Peano, Giovanni Vailati, Achille Loria, Cesare Lombroso e Francesco Saverio Merlino? L’oblio che li circonda è quasi completo. E molto probabilmente la stessa sorte sarebbe toccata a Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca e Roberto Michels se gli studiosi americani non li avessero inseriti nel ristretto numero dei classici della sociologia, accanto a Max Weber ed Emile Durkheim.
La tentazione di dare una spiegazione cospirativa della cortina di silenzio e di disprezzo che è stata elevata attorno a loro è fortissima. Ma si imboccherebbe una strada sbagliata. Bisogna sempre diffidare delle interpretazioni cospirative, anche se è fuori dubbio che in qualche caso — basti pensare al trattamento che Antonio Labriola riservò al revisionista ’’ante litteram” Merlino — ci sono prove di una vera e propria congiura del silenzio e della denigrazione.
Le ragioni dell’esclusione per indegnità dalla Città del Sapere di Ferrero, di Loria o di Vailati risiedono tutte, o quasi tutte, nel diffuso e tenacissimo pregiudizio idealistico-spiritualistico contro la scienza. Erano positivisti. Pensavano che la conoscenza dei fenomeni socio-culturali poteva progredire solo tramite i metodi delle scienze naturali. Credevano nella logica formale (anziché in quella dialettica), nelle leggi oggettive della storia e nelle ricerche empiriche. Ma non erano affatto degli scientisti, né idolatravano i laboratori. Sapevano che la scienza non poteva rispondere a tutte le domande né soddisfare tutte le esigenze dell’umanità. Per loro il progresso cognitivo era legato alla classica distinzione (espressa da Hume e da Kant) fra giudizi di fatto e giudizi di valore. Avevano una concezione illuministica della conoscenza: la consideravano uno strumento, senz’altro difettoso ma preziosissimo, per introdurre un po’ di razionalità nella storia.
Tutte queste cose furono considerate quasi indecenti dalla cultura idealistica. Benedetto Croce e Giovanni Gentile guardavano con orrore allo spirito positivistico e alla mentalità illuministica. Vi vedevano una sorta di perversione intellettuale e morale, un vero e proprio traviamento della ragione. La vera scienza per loro era la filosofia speculativa basata sul metodo dialettico, l’unico in grado di tenere lo spirito distante dalle «bassure dell’empiria» e di fornire una visione corretta della realtà, esplicitandone l’intima razionalità. Però quando Croce si accinse a scrivere la Storia d’Europa non potè fare a meno di utilizzare quei concetti empirici — primo fra tutti quello di classe politica elaborato da Mosca — che egli nella sua Logica aveva escluso dal regno della scienza.
La verità è che le filosofie idealistiche forniscono scarsi ed equivoci strumenti cognitivi per comprendere i fenomeni storico-culturali e in particolare la dinamica della moderna civiltà industriale. Non si curano della descrizione fattuale e della convalida empirica dei loro teoremi né tantomeno della descrizione dei fatti. Essenzialmente dialettiche, procedono per asserzioni tautologiche e princìpi apodittici. Esse non verificano: decretano; non cercano di provare quello che asseriscono: si limitano a proclamare la loro verità con un sovrano disprezzo per la realtà effettuale. Se emerge un contrasto fra la teoria e i fatti, il filosofo dialettico non esita a far propria la sentenza di Fichte: «Peggio per i fatti!».
Per il sociologo positivista invece i fatti sono sovrani, anche se vengono dopo le ipotesi di lavoro e acquistano un preciso significato solò entro un determinato schema concettuale; i fatti costituiscono il tribunale supremo davanti al quale devono essere presentate le teorie, le quali vanno continuamente modificate, o addirittura abbandonate, quando sono confutate, cioè quando non reggono alla verifica.
Con il metodo degli idealisti — quello dialettico — si costruiscono suggestive teorie onnicomprensive e onniesplicative che hanno la funzione di sostituire la teologia giudaico-cristiana nei cuori di coloro che hanno perso la fede nella Trascendenza, ma continuano ad essere dominati da quella che Max Horkheimer, in un momento di lucida autocritica, ha chiamato «la nostalgia del totalmente altro». Con l’altro metodo — quello positivistico — si studiano le strutture concrete in cui gli uomini operano e si accresce progressivamente la quantità delle conoscenze operative. Il metodo dialettico soddisfa assai bene le esigenze degli spiriti romantici, nei quali la ’’morte di Dio’’ ha lasciato un intollerabile vuoto esistenziale. Per contro il metodo positivistico non intende edificare gli animi, bensì, più modestamente, vuole solo incrementare il patrimonio cognitivo dell’uomo, essendo animato dalla convinzione che solo attraverso la conoscenza empirica è possibile operare razionalmente nella e sulla realtà.
Tutto ciò spiega perché così scarsi sono stati i contributi della cultura idealistica alla comprensione del nostro tempo e perché ben più produttivo si è dimostrato, alla prova dei fatti, il tanto disprezzato positivismo italiano, quanto meno quello metodologicamente abbastanza raffinato di Pareto, Mosca, Michels, Ferrero e Merlino, che ci hanno lasciato preziosi strumenti per orientarci criticamente nel grande labirinto della civiltà industriale. Costoro compresero che solo le scienze sociali avrebbero potuto fornire agli abitanti della Città secolare una adeguata comprensione del loro universo storico culturale. Individuarono certe leggi di funzionamento e di sviluppo delle società e intesero la sociologia come coscienza critica della civiltà industriale.
Purtroppo la reazione idealistica contro le scienze empiriche ebbe pieno successo. Così sulle loro opere — con la sola eccezione degli Elementi di scienza politica di Mosca, che Croce consigliò caldamente di leggere — cadde il silenzio sprezzante dei custodi della conoscenza dialettica. E anche quando l’influenza crocio-gentiliana incominciò a declinare, continuò ad imperare il pregiudizio antipositivistico, che a partire dagli anni Sessanta trasse nuovo alimento dalle opere dei profeti dialettici della Scuola di Francoforte. Ancora oggi in certi ambienti accademici ’’positivismo” ed ’’empirico” sono parolacce pronunciate come invettive o come condanne senza appello.
Ma qual è, in effetti, lo studioso di politica che oggi può fare a meno di confrontarsi, sia pure polemicamente, con la teoria delle minoranze dirigenti elaborata da Mosca e Pareto? Bollata sbrigativamente come giustificazione ideologica della reazione borghese contro le aspirazioni egualitarie del movimento operaio, essa ha trovato puntuali conferme proprio in certe esperienze del riformismo socialdemocratico con annesso benessere operaio, e, per converso, nelle vicende politiche dei Paesi del così detto ’’socialismo reale”, dove dietro la formula politica della ’’dittatura del proletariato” si è stabilito il dominio totalitario di una oligarchia cementata dall’ideologia marx-leninista, dal centralismo democratico e dai privilegi connessi all’esercizio delle funzioni direttive.
Ugualmente preziosa si è rivelata, per chi ha saputo intenderne la portata demistificatrice, la teoria di Pareto delle derivazioni, cioè di quei costrutti pseudologici con i quali gli uomini (come individui e come gruppi) razionalizzano il loro agire. Sicuramente già Marx aveva capito che per studiare scientificamente il comportamento degli uomini occorreva partire dal fatto che essi erano vittime di costruzioni ingannevoli (la “falsa coscienza”). Ma poi non era riuscito ad evitare l’autoinganno, poiché aveva attribuito il vizio ideologico solo alla coscienza borghese e aveva preteso di dedurre la necessità storica del socialismo dalla scienza.
Pareto fu assai più coerente: applicò la tecnica dello smascheramento a tutti i soggetti storici, compresa la borghesia plutocratica di cui fu, secondo certi critici, l’ideologo attivo. Non meno decisivo è stato il contributo di Michels, il cui classico studio sulle tendenze oligarchiche nei partiti politici ha rappresentato — e continua a rappresentare — un ammonimento a non idealizzare la democrazia e a rinunciare ad ogni forma di perfettismo politico.
Certo, Mosca, Pareto e Michels non erano dei progressisti a oltranza, e alcuni di essi non nascosero ostilità nei confronti del socialismo. Ma nelle loro opere è agevole distinguere i teoremi scientifici dalle proposizioni ideologiche, così da accogliere i primi e rifiutare le seconde: come fecero Piero Gobetti, Filippo Burzio e Guido Dorso, che militarono sulle barricate della democrazia pur condividendo la concezione elitistica della storia e della politica. Ma è soprattutto l’opera di Ferrero che dimostra come sociologia elitistica e passione democratica possono coesistere. In un momento in cui quasi tutta l’Europa era stata colpita dalla febbre rivoluzionaria (fascista e bolscevica), Ferrerò in Potere compì una magistrale analisi dei paradossi autodistruttivi della rivoluzione e dimostrò che solo l’applicazione sincera e conseguenziale delle regole della liberal-democrazia avrebbero potuto salvare i popoli d’Occidente dall’incubo della tirannia totalitaria.
Chi accusa la sociologia di non essere nemmeno lontanamente scientifica perché priva di capacità predittiva, esamini la rivoluzione iraniana alla luce del modello ferreriano: tutto, o quasi tutto, diventa intelligibile, trasparente, logico. L’entusiasmo iniziale e la speranza nella “renovatio” spirituale hanno ceduto il posto alla paura, alla politica del sospetto, infine al terrorismo e alla rapida involuzione totalitaria del nuovo regime. Ancora una volta la rivoluzione non ha saputo mantenersi fedele alle sue promesse: in pochi mesi si è trasformata in un tirannico e sospettoso Leviatano. C’è stato forse un tradimento dei princìpi da parte dei Nuovi Signori? La locomotiva della rivoluzione è stata deragliata da una minoranza di cospiratori? Il positivista Ferrero, che credeva nella struttura legale della storia, ci fornisce una risposta di tutt’altra natura. Le ragioni per cui le rivoluzioni generano immancabilmente tirannidi totalitarie sono oggettive. Dato che esse disintegrano la legalità e tutto il sistema di norme e di aspettative ad essa connesse, fanno precipitare la società nella spirale della paura. Tutto avviene come se di colpo gli accordi taciti, le regole codificate e gli usi consolidati perdono ogni legittimità. Conseguenza: i governanti hanno paura dei governati, i più ricchi dei più poveri, i tradizionalisti dei novatori, i moderati dei radicali. E viceversa. In una tale situazione di diffidenza generalizzata l’ordine non può essere creato con il consenso (che si è volatilizzato), bensì deve essere imposto (quali che siano i valori che animano il movimento rivoluzionario) con l’uso sistematico, massiccio, terroristico della violenza.
La sociologia di Guglielmo Ferrero dimostra che il funzionamento della società è retto da leggi oggettive e che quando esse vengono turbate si verifica l’”impazzimento” degli attori sociali. E dimostra altresì che una politica che voglia essere razionale (cioè congrua con i fini che intende perseguire) deve tener presenti gli insegnamenti della cultura illuministica. Come ha scritto Norberto Bobbio, lo sviluppo delle scienze sociali è sempre andato di pari passo con lo sviluppo della tendenza a riconoscere il «posto della ragione nella storia». Per contro l’esaltazione, tipicamente idealistica, della storiografia come conoscenza dell’individuale apre la via a una visione irrazionalistica della storia oppure a una concezione provvidenzialistica. La prima rende impossibile lo sviluppo delle scienze sociali, la seconda lo rende superfluo. In tutt’e due i casi il rifiuto della tradizione illuministica preclude ogni rapporto proficuo fra scienza e politica e spalanca le porte al misticismo, sia esso reazionario o rivoluzionario.

“L'Espresso”, ritaglio senza data, ma 1981


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