Luciano Pellicani in una foto recente |
“Studiosi della
politica e della società come Pareto, Mosca, Michels, Ferrero furono
scomunicati dalle correnti idealistiche allora maggioritarie. Oggi
molti si interessano a loro. Perché?”. Era questo il sommario
dell'articolo di Luciano Pellicani che qui ho postato, il cui titolo
originale è L'altra Cultura,
a suo tempo pubblicato sul “L'Espresso”.
Pellicani era al tempo
considerato uno dei più ascoltati “consiglieri teorici” di
Craxi. Il celebre saggio su Proudhon del 1979, con il quale il
segretario del Psi “tagliava la barba a Marx”, fu scritto in
collaborazione con Pellicani, che dell'ottocentesco socialista
francese era studioso; ed a firma di entrambi è stato ripubblicato
di recente come Il vangelo socialista. Il precedente aiuta a
trovare la risposta alla domanda a cui in verità l'articolo non
risponde. Perché nei pensatori del passato i socialisti di Craxi
cercavano puntelli nella loro sfida al Pci per l'egemonia tra gli
intellettuali: prima Proudhon, poi gli studiosi positivisti della
società e della politica, anche conservatori, e perfino molto
conservatori. Solo che nel primo caso il bersaglio era esplicitato,
Marx, qui è solo alluso. Si parla di idealismo, di Croce, di
marx-leninismo e perfino di scuola di Francoforte, ma il bersaglio
vero sono Gramsci e la politica del Pci che all'idea gramsciana di
blocco storico si ispirava anche al tempo di Berlinguer. Solo molto
più tardi Pellicani, a Pci morto, supererà quelle sue timidezze e
scriverà un pamphlet dal titolo esplicito: Cattivi maestri della
Sinistra. Gramsci, Togliatti, Lukàcs, Sartre e Marcuse.
Pertanto, se l'invito di
Pellicani a rileggere alcuni autori dimenticati della temperie
positivistica può considerarsi giusto e conserva tuttora un suo
valore, non è sbagliato collocare la sua polemica “riscoperta”
in quella precisa temperie storica, negli anni del Craxi prima della
sua esperienza governativa e del CAF, quelli immediatamente
successivi al congresso di Torino, quando la linea prevalente
sembrava quella della sfida a sinistra per l'egemonia, in vista di
una alternativa socialista. (S.L.L.)
Guglielmo Ferrero |
L'altra Cultura
Qualche settimana fa sul
’’Giornale Nuovo” Manlio Cancogni si è domandato perché mai
uno studioso della levatura di Guglielmo Ferrero sia stato
completamente dimenticato. Eppure la sua opera maggiore, Grandezza
e decadenza di Roma (una storia della parabola del potere romano
da Scipione agli ultimi imperatori), al suo apparire ebbe un successo
strepitoso. Fu immediatamente considerata un classico e tradotta in
varie lingue. Bartolomé Mitre, ex presidente della Repubblica
argentina e amico di Garibaldi, invitò Ferrero a Buenos Aires per un
ciclo di conferenze; il presidente degli Stati Uniti, Theodor
Roosevelt, lo volle ospite alla Casa Bianca.
Di tale gloria non è
rimasto quasi nulla. E non certo perché essa fosse immeritata.
Tutt’altro. I pochi che conoscono Grandezza e decadenza di Roma
lo considerano un autentico capolavoro degno di stare accanto a
quelli di Gibbon, Mommsen e Rostovzev. E coloro che hanno avuto la
fortuna di leggere Potere (l’editore SugarCo lo ristampa in
questi giorni) sanno che non è affatto una iperbole il giudizio
entusiasta che ne diede Henri Pirenne: « Una mirabile opera d’arte
». E sanno altresì che autorevoli politologi come Maurice Duverger
e Julien Freund lo considerano un libro di fondamentale importanza.
In effetti, se si mettono
a confronto le pagine che Ferrero ha scritto nel libro Potere
sul problema della legittimità con quelle celebratissime di Max
Weber, non si può non convenire che le prime sono assai più
istruttive delle seconde. Weber si limita a constatare che «ogni
dominio cerca di suscitare e di coltivare la fede nella propria
legittimità». Ferrero invece, oltre a indagare sui meccanismi
psicologici che governano la dialettica del comando e
dell’obbedienza, analizza le terribili conseguenze
dell’illegittimità. Il Potere — egli dice — è una istituzione
di protezione dalla paura, un’invenzione della civiltà per ridurre
l’ansietà degli uomini di fronte ai pericoli (reali e immaginari)
della vita. Ma si converte nel suo contrario, cioè in una
istituzione terroristica, se non riesce ad ottenere il consenso
spontaneo dei governati. Ciò accade quando la fede nella legittimità
si volatilizza. Allora la paura si impossessa degli spiriti e si apre
un ciclo di rivoluzioni e di colpi di Stato, cui seguono puntualmente
regimi privi di consenso che sono, e non possono non essere, vere e
proprie tirannie. Ciò permette a Ferrero di dare una originale
interpretazione del totalitarismo del XX secolo: esso non sarebbe
altro che la conseguenza necessaria della crisi di legittimità in
cui è stata precipitata l’Europa dalla diffusione contagiosa dello
spirito rivoluzionario.
Perché allora oggi in
Italia nessuno legge Ferrero? Ma non si tratta di un caso isolato.
Chi conosce le opere di Giuseppe Peano, Giovanni Vailati, Achille
Loria, Cesare Lombroso e Francesco Saverio Merlino? L’oblio che li
circonda è quasi completo. E molto probabilmente la stessa sorte
sarebbe toccata a Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca e Roberto Michels se
gli studiosi americani non li avessero inseriti nel ristretto numero
dei classici della sociologia, accanto a Max Weber ed Emile Durkheim.
La tentazione di dare una
spiegazione cospirativa della cortina di silenzio e di disprezzo che
è stata elevata attorno a loro è fortissima. Ma si imboccherebbe
una strada sbagliata. Bisogna sempre diffidare delle interpretazioni
cospirative, anche se è fuori dubbio che in qualche caso — basti
pensare al trattamento che Antonio Labriola riservò al revisionista
’’ante litteram” Merlino — ci sono prove di una vera e
propria congiura del silenzio e della denigrazione.
Le ragioni
dell’esclusione per indegnità dalla Città del Sapere di Ferrero,
di Loria o di Vailati risiedono tutte, o quasi tutte, nel diffuso e
tenacissimo pregiudizio idealistico-spiritualistico contro la
scienza. Erano positivisti. Pensavano che la conoscenza dei fenomeni
socio-culturali poteva progredire solo tramite i metodi delle scienze
naturali. Credevano nella logica formale (anziché in quella
dialettica), nelle leggi oggettive della storia e nelle ricerche
empiriche. Ma non erano affatto degli scientisti, né idolatravano i
laboratori. Sapevano che la scienza non poteva rispondere a tutte le
domande né soddisfare tutte le esigenze dell’umanità. Per loro il
progresso cognitivo era legato alla classica distinzione (espressa da
Hume e da Kant) fra giudizi di fatto e giudizi di valore. Avevano una
concezione illuministica della conoscenza: la consideravano uno
strumento, senz’altro difettoso ma preziosissimo, per introdurre un
po’ di razionalità nella storia.
Tutte queste cose furono
considerate quasi indecenti dalla cultura idealistica. Benedetto
Croce e Giovanni Gentile guardavano con orrore allo spirito
positivistico e alla mentalità illuministica. Vi vedevano una sorta
di perversione intellettuale e morale, un vero e proprio traviamento
della ragione. La vera scienza per loro era la filosofia speculativa
basata sul metodo dialettico, l’unico in grado di tenere lo spirito
distante dalle «bassure dell’empiria» e di fornire una visione
corretta della realtà, esplicitandone l’intima razionalità. Però
quando Croce si accinse a scrivere la Storia d’Europa non
potè fare a meno di utilizzare quei concetti empirici — primo fra
tutti quello di classe politica elaborato da Mosca — che egli nella
sua Logica aveva escluso dal regno della scienza.
La verità è che le
filosofie idealistiche forniscono scarsi ed equivoci strumenti
cognitivi per comprendere i fenomeni storico-culturali e in
particolare la dinamica della moderna civiltà industriale. Non si
curano della descrizione fattuale e della convalida empirica dei loro
teoremi né tantomeno della descrizione dei fatti. Essenzialmente
dialettiche, procedono per asserzioni tautologiche e princìpi
apodittici. Esse non verificano: decretano; non cercano di provare
quello che asseriscono: si limitano a proclamare la loro verità con
un sovrano disprezzo per la realtà effettuale. Se emerge un
contrasto fra la teoria e i fatti, il filosofo dialettico non esita a
far propria la sentenza di Fichte: «Peggio per i fatti!».
Per il sociologo
positivista invece i fatti sono sovrani, anche se vengono dopo le
ipotesi di lavoro e acquistano un preciso significato solò entro un
determinato schema concettuale; i fatti costituiscono il tribunale
supremo davanti al quale devono essere presentate le teorie, le quali
vanno continuamente modificate, o addirittura abbandonate, quando
sono confutate, cioè quando non reggono alla verifica.
Con il metodo degli
idealisti — quello dialettico — si costruiscono suggestive teorie
onnicomprensive e onniesplicative che hanno la funzione di sostituire
la teologia giudaico-cristiana nei cuori di coloro che hanno perso la
fede nella Trascendenza, ma continuano ad essere dominati da quella
che Max Horkheimer, in un momento di lucida autocritica, ha chiamato
«la nostalgia del totalmente altro». Con l’altro metodo —
quello positivistico — si studiano le strutture concrete in cui gli
uomini operano e si accresce progressivamente la quantità delle
conoscenze operative. Il metodo dialettico soddisfa assai bene le
esigenze degli spiriti romantici, nei quali la ’’morte di Dio’’
ha lasciato un intollerabile vuoto esistenziale. Per contro il metodo
positivistico non intende edificare gli animi, bensì, più
modestamente, vuole solo incrementare il patrimonio cognitivo
dell’uomo, essendo animato dalla convinzione che solo attraverso la
conoscenza empirica è possibile operare razionalmente nella e sulla
realtà.
Tutto ciò spiega perché
così scarsi sono stati i contributi della cultura idealistica alla
comprensione del nostro tempo e perché ben più produttivo si è
dimostrato, alla prova dei fatti, il tanto disprezzato positivismo
italiano, quanto meno quello metodologicamente abbastanza raffinato
di Pareto, Mosca, Michels, Ferrero e Merlino, che ci hanno lasciato
preziosi strumenti per orientarci criticamente nel grande labirinto
della civiltà industriale. Costoro compresero che solo le scienze
sociali avrebbero potuto fornire agli abitanti della Città secolare
una adeguata comprensione del loro universo storico culturale.
Individuarono certe leggi di funzionamento e di sviluppo delle
società e intesero la sociologia come coscienza critica della
civiltà industriale.
Purtroppo la reazione
idealistica contro le scienze empiriche ebbe pieno successo. Così
sulle loro opere — con la sola eccezione degli Elementi di
scienza politica di Mosca, che Croce consigliò caldamente di
leggere — cadde il silenzio sprezzante dei custodi della conoscenza
dialettica. E anche quando l’influenza crocio-gentiliana incominciò
a declinare, continuò ad imperare il pregiudizio antipositivistico,
che a partire dagli anni Sessanta trasse nuovo alimento dalle opere
dei profeti dialettici della Scuola di Francoforte. Ancora oggi in
certi ambienti accademici ’’positivismo” ed ’’empirico”
sono parolacce pronunciate come invettive o come condanne senza
appello.
Ma qual è, in effetti,
lo studioso di politica che oggi può fare a meno di confrontarsi,
sia pure polemicamente, con la teoria delle minoranze dirigenti
elaborata da Mosca e Pareto? Bollata sbrigativamente come
giustificazione ideologica della reazione borghese contro le
aspirazioni egualitarie del movimento operaio, essa ha trovato
puntuali conferme proprio in certe esperienze del riformismo
socialdemocratico con annesso benessere operaio, e, per converso,
nelle vicende politiche dei Paesi del così detto ’’socialismo
reale”, dove dietro la formula politica della ’’dittatura del
proletariato” si è stabilito il dominio totalitario di una
oligarchia cementata dall’ideologia marx-leninista, dal centralismo
democratico e dai privilegi connessi all’esercizio delle funzioni
direttive.
Ugualmente preziosa si è
rivelata, per chi ha saputo intenderne la portata demistificatrice,
la teoria di Pareto delle derivazioni, cioè di quei costrutti
pseudologici con i quali gli uomini (come individui e come gruppi)
razionalizzano il loro agire. Sicuramente già Marx aveva capito che
per studiare scientificamente il comportamento degli uomini occorreva
partire dal fatto che essi erano vittime di costruzioni ingannevoli
(la “falsa coscienza”). Ma poi non era riuscito ad evitare
l’autoinganno, poiché aveva attribuito il vizio ideologico solo
alla coscienza borghese e aveva preteso di dedurre la necessità
storica del socialismo dalla scienza.
Pareto fu assai più
coerente: applicò la tecnica dello smascheramento a tutti i soggetti
storici, compresa la borghesia plutocratica di cui fu, secondo certi
critici, l’ideologo attivo. Non meno decisivo è stato il
contributo di Michels, il cui classico studio sulle tendenze
oligarchiche nei partiti politici ha rappresentato — e continua a
rappresentare — un ammonimento a non idealizzare la democrazia e a
rinunciare ad ogni forma di perfettismo politico.
Certo, Mosca, Pareto e
Michels non erano dei progressisti a oltranza, e alcuni di essi non
nascosero ostilità nei confronti del socialismo. Ma nelle loro opere
è agevole distinguere i teoremi scientifici dalle proposizioni
ideologiche, così da accogliere i primi e rifiutare le seconde: come
fecero Piero Gobetti, Filippo Burzio e Guido Dorso, che militarono
sulle barricate della democrazia pur condividendo la concezione
elitistica della storia e della politica. Ma è soprattutto l’opera
di Ferrero che dimostra come sociologia elitistica e passione
democratica possono coesistere. In un momento in cui quasi tutta
l’Europa era stata colpita dalla febbre rivoluzionaria (fascista e
bolscevica), Ferrerò in Potere compì una magistrale analisi
dei paradossi autodistruttivi della rivoluzione e dimostrò che solo
l’applicazione sincera e conseguenziale delle regole della
liberal-democrazia avrebbero potuto salvare i popoli d’Occidente
dall’incubo della tirannia totalitaria.
Chi accusa la sociologia
di non essere nemmeno lontanamente scientifica perché priva di
capacità predittiva, esamini la rivoluzione iraniana alla luce del
modello ferreriano: tutto, o quasi tutto, diventa intelligibile,
trasparente, logico. L’entusiasmo iniziale e la speranza nella
“renovatio” spirituale hanno ceduto il posto alla paura, alla
politica del sospetto, infine al terrorismo e alla rapida involuzione
totalitaria del nuovo regime. Ancora una volta la rivoluzione non ha
saputo mantenersi fedele alle sue promesse: in pochi mesi si è
trasformata in un tirannico e sospettoso Leviatano. C’è stato
forse un tradimento dei princìpi da parte dei Nuovi Signori? La
locomotiva della rivoluzione è stata deragliata da una minoranza di
cospiratori? Il positivista Ferrero, che credeva nella struttura
legale della storia, ci fornisce una risposta di tutt’altra natura.
Le ragioni per cui le rivoluzioni generano immancabilmente tirannidi
totalitarie sono oggettive. Dato che esse disintegrano la legalità e
tutto il sistema di norme e di aspettative ad essa connesse, fanno
precipitare la società nella spirale della paura. Tutto avviene come
se di colpo gli accordi taciti, le regole codificate e gli usi
consolidati perdono ogni legittimità. Conseguenza: i governanti
hanno paura dei governati, i più ricchi dei più poveri, i
tradizionalisti dei novatori, i moderati dei radicali. E viceversa.
In una tale situazione di diffidenza generalizzata l’ordine non può
essere creato con il consenso (che si è volatilizzato), bensì deve
essere imposto (quali che siano i valori che animano il movimento
rivoluzionario) con l’uso sistematico, massiccio, terroristico
della violenza.
La sociologia di
Guglielmo Ferrero dimostra che il funzionamento della società è
retto da leggi oggettive e che quando esse vengono turbate si
verifica l’”impazzimento” degli attori sociali. E dimostra
altresì che una politica che voglia essere razionale (cioè congrua
con i fini che intende perseguire) deve tener presenti gli
insegnamenti della cultura illuministica. Come ha scritto Norberto
Bobbio, lo sviluppo delle scienze sociali è sempre andato di pari
passo con lo sviluppo della tendenza a riconoscere il «posto della
ragione nella storia». Per contro l’esaltazione, tipicamente
idealistica, della storiografia come conoscenza dell’individuale
apre la via a una visione irrazionalistica della storia oppure a una
concezione provvidenzialistica. La prima rende impossibile lo
sviluppo delle scienze sociali, la seconda lo rende superfluo. In
tutt’e due i casi il rifiuto della tradizione illuministica
preclude ogni rapporto proficuo fra scienza e politica e spalanca le
porte al misticismo, sia esso reazionario o rivoluzionario.
“L'Espresso”,
ritaglio senza data, ma 1981
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