17.8.17

L'ira di Achille. Campanile critico televisivo (Beniamino Placido)

Paola Pitagora e Nino Castelnuovo nei Promessi Sposi (Sandro Bolchi, RAI)
Oggi, niente televisione. Intendo dire: se qualcuno va a cercare la rubrica di critica televisiva che appare quando appare in altra parte di questo giornale, oggi non la troverà. Oggi di televisione parliamo qui. Ne parliamo a proposito di un libro che merita una collocazione a parte. Perché riguarda non la televisione soltanto ma anche la nostra storia quotidiana nazionale e familiare degli ultimi trent'anni.
Questo libro si intitola La televisione spiegata al popolo (Bompiani). Spiegata al popolo da chi? Dallo scrittore e umorista Achille Campanile. Quello di Ma che cos'è quest'amore? e delle Tragedie in due battute. Fu critico televisivo per “L' Europeo” dal 1958 al 1975: due anni prima della morte. Aldo Grasso, che è oggi lo storico più attendibile della nostra cultura televisiva ha fatto una scelta fra le cronache del primo decennio: 1958-1968. L'ha fatta precedere da una introduzione di Indro Montanelli e seguire da una postfazione di Oreste del Buono. Che cos'altro vogliamo per divertirci? Non vogliamo, non pretendiamo nient'altro. Achille Campanile è stato uno straordinario umorista. Uno straordinario critico televisivo. Se non propongo il mio parere televisivo quest'oggi non è soltanto per reverenziale rispetto nei suoi confronti. È anche per paura: di espormi ad un confronto iniquo, squilibrato in partenza. Quando Campanile comincia a scrivere le sue critiche, nel 1958, la Televisione è nata da quattro anni appena. Non si sa bene che cosa sia (un elemento del progresso, uno strumento del diavolo?); non si sa come funzioni, non si sa che cosa combinerà. Achille Campanile l'affronta con due certezze in testa. La prima è positiva, euforica: la televisione è il più potente mezzo d' informazione del nostro tempo, il più diffuso, il più esteso, il più immediato, il più penetrante e suggestivo. La seconda idea-guida è meno positiva. Anzi, è negativa senz'altro. Accidenti, come la adoprano male; come la adopriamo male questa nuova invenzione: E' stata scoperta e inventata la televisione, ma non è ancora stato scoperto il modo di usarla. Perché Campanile dice (anzi dimostra, in queste sue critiche) che era usata male quella televisione? Per alcune ragioni che ci interessa conoscere anche oggi. Perché quella aveva tutti i difetti della televisione di oggi. Fondamentale, il difetto di inseguire il pubblico. Di scambiare la comprensibilità con la cretineria. Di proteggere ogni programma, anche il più stupido, dietro l' alibi del pubblico che lo vuole: variante aggiornata del medievale Dio lo vuole, ispiratore a suo tempo delle peggiori crociate. Campanile non è affatto d' accordo: Immaginatevi un medico che dia all' ammalato soltanto le medicine che gli piacciono. Ci vorrebbe l' olio di ricino. Ma attraverso sondaggi e inchieste del suo servizio opinioni, il medico è venuto a sapere che l' ammalato non gradisce l' olio di ricino e che gli preferisce una zuppa di pasta e fagioli, e dunque diamogli la pasta e fagioli. Questo è Achille Campanile al suo meglio. Ricco di vigore e di acume. Capace di farci passare per sempre (o almeno per un po' di tempo) la voglia di rimpiangere quella televisione. Come troppo spesso facciamo. Ricadendo nell'errore di quella tale aristocratica francese in esilio che non la smetteva di parlare bene del 1793. Ma come, proprio quell'anno terribile? L'anno del Terrore, che fece cadere tante teste? Sì, rispondeva l'aristocratica vecchia dama. Sarà stato un anno terribile; ma io ero giovane e innamorata: avevo vent'anni.
La televisione dei nostri vent' anni era più povera e modesta questo è certo di quella di oggi. C'era una sola Rete, un solo canale (Berlusconi era ancora di là da venire). Non c'era il colore, non c'era il telecomando, non c'era il videoregistratore. Ma povertà non significa necessariamente virtù: la televisione modesta monopolistica e monocratica degli Anni Cinquanta e Sessanta era piena di vizi. Di pudibonde autocensure. Di furibonde censure. Si doveva cantare l'innocentissimo: Papà non vuole / mamma nemmeno / come faremo / a fare l' amor!; ma l' ultimo versetto sembrava troppo audace e quindi veniva prudentemente fischiettato, invece che cantato. Di satira politica proprio non si parlava. Se qualcuno imprudentemente ci provava, come Dario Fo nella famosa Canzonissima del 1962, veniva cortesemente pregato di accomodarsi alla porta; lui e la sua sregolata compagna Franca Rame. Vero è che faceva un certo posto alla cultura, quella televisione. Sì, ma gli uomini di cultura che partecipavano alle trasmissioni dell'Approdo ed erano i più famosi parlavano in modo assolutamente ridicolo; da involontario avanspettacolo; sciorinando paroloni. Del nuovo strumento, e del modo in cui poteva funzionare non avevano capito assolutamente nulla.
Avevano capito molto di più, molto prima personaggi semplici come Mario Riva. Che muore per i postumi di un incidente sul lavoro (era caduto in una buca del palcoscenico) alla fine del 1960. Campanile, che pure più volte l'aveva preso in giro chiamandolo Il gran simpatico, gli dedica allora un necrologio (Il suo ultimo sabato sera) commovente e commosso: pieno di affetto e di tenerezza, di intelligente riconoscimento. E le battute, le famose battute di Campanile? No, sulle battute non vorrei perdere molto tempo. Anche perché sono conosciutissime. Gassman? Il matt'attore. Jader Jacobelli? La telecamera dei deputati. L'originale televisivo? Un prodotto che non è né originale, né televisivo. Preferisco soffermarmi su un tratto che rende riconoscibili e inimitabili queste cronache.
Di tanto in tanto, quando una trasmissione televisiva lo ispirava, Campanile si alzava dalla poltrona e partiva. Partiva per la tangente. Si allontanava dal tema per abbandonarsi alle sue variazioni: paradossali, imprevedibili. Primo esempio. Un certo giorno una certa trasmissione cultural-televisiva, parlando di Arturo Toscanini si lascia sfuggire l'espressione: il suo cuore di parmigiano. Niente di sbagliato. Niente di filologicamente inesatto. Il Maestro difatti era nato a Parma. Però si sarebbe potuto dire: il suo cuore di parmense per non generare equivoci (il parmigiano essendo anche un formaggio). Ecco allora Campanile immaginarsi una famigliola: onesta ma poverissima. Finalmente la mamma riesce a mettere in tavola una zuppiera di spaghetti. Ma ahimè, che sapore ha la pasta quando non è condita? I bambini piangono disperati. In casa non c'è nemmeno una crosta di formaggio. Quand'ecco che il babbo, ricordandosi di avere anche lui un cuore di parmigiano (come Toscanini, era nato a Parma) prende un coltello e... E il resto andatevelo a leggere a pagina 316. Secondo esempio. Nel 1967 la nostra Tv decide di portare sul piccolo schermo I Promessi Sposi, rielaborati da Sandro Bolchi e Riccardo Bacchelli. Campanile si scatena. Si immagina che il Griso si rifiuti di rapire Lucia Mondella, malgrado il perentorio comando di Don Rodrigo. Rapire? Tutt'al più egli la potrebbe rapare. A zero. Di qui una serie di variazioni tragicomiche che si moltiplicano e si prolungano per dodici irresistibili pagine. Che peccato che Campanile non ci sia più. Intanto perché chissà che cosa avrebbe tirato fuori, di fronte ai prossimi Promessi Sposi televisivi di Nocita.
E poi, se fosse ancora fra di noi avrebbe trovato il modo, in questi anni, di correggere una delle sue idee-guida sulla televisione. L'idea su cui molto insiste che la Televisione è fatta per mostrare avvenimenti lontani mentre si stanno svolgendo. Questo è vero per gli avvenimenti, che generano particolare emozione quando sono trasmessi in diretta. È meno vero per le persone. Che ci guadagnano comunque ad apparire in Tv. In diretta o registrate. È per questo che ci tengono. Apparendo in televisione cambiano di status. Sono diventate visibili. Da invisibili ed anonime che erano (o temevano di essere). Per questo ci tengono tanto.

Per questo si è sviluppata negli ultimi anni, che Campanile ha avuto la fortuna di non vedere, una forma di esibizionismo patologico che nasce certo dalla televisione. Ma si diffonde poi per contagio, dappertutto. Anche nell'editoria. Anche nella confezione dei libri. Compreso questo libro. Che manca ed è una mancanza grave, una sciatteria imperdonabile di un indice dei nomi. Ma che reca, in compenso (chi si contenta gode) alla quarta pagina interna il nome della responsabile (è una donna) del progetto editoriale. Che fortunata questa impavida giovanotta della industria culturale. Che invece di leggersi accuratamente i libri che pubblica: per compilare un bell'indice dei nomi, e per correggere a a pagina 244 un orrendo unus ex omnes (si dice unus ex omnibus, signorina) pensa ad immortalare il suo nome collegandolo ad un fantomatico progetto editoriale. Che fortunata! Ci fosse stato ancora Campanile, avrebbe scatenato le sue variazioni. Uno va dal macellaio e si ritrova la bistecca incartata in carta firmata con la scritta progetto alimentare. Uno va in questa stagione a comprarsi un gelato e si trova davanti ad un cono firmato con la scritta: progetto dolciario. Eccetera. Ovvero: Vanitas vanitatum.

"la Repubblica", 15 agosto 1989

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