Paola Pitagora e Nino Castelnuovo nei Promessi Sposi (Sandro Bolchi, RAI) |
Oggi, niente televisione.
Intendo dire: se qualcuno va a cercare la rubrica di critica
televisiva che appare quando appare in altra parte di questo
giornale, oggi non la troverà. Oggi di televisione parliamo qui. Ne
parliamo a proposito di un libro che merita una collocazione a parte.
Perché riguarda non la televisione soltanto ma anche la nostra
storia quotidiana nazionale e familiare degli ultimi trent'anni.
Questo libro si intitola
La televisione spiegata al popolo (Bompiani). Spiegata al
popolo da chi? Dallo scrittore e umorista Achille Campanile. Quello
di Ma che cos'è quest'amore? e delle Tragedie in due
battute. Fu critico televisivo per “L' Europeo” dal 1958 al
1975: due anni prima della morte. Aldo Grasso, che è oggi lo storico
più attendibile della nostra cultura televisiva ha fatto una scelta
fra le cronache del primo decennio: 1958-1968. L'ha fatta precedere
da una introduzione di Indro Montanelli e seguire da una postfazione
di Oreste del Buono. Che cos'altro vogliamo per divertirci? Non
vogliamo, non pretendiamo nient'altro. Achille Campanile è stato uno
straordinario umorista. Uno straordinario critico televisivo. Se non
propongo il mio parere televisivo quest'oggi non è soltanto per
reverenziale rispetto nei suoi confronti. È anche per paura: di
espormi ad un confronto iniquo, squilibrato in partenza. Quando
Campanile comincia a scrivere le sue critiche, nel 1958, la
Televisione è nata da quattro anni appena. Non si sa bene che cosa
sia (un elemento del progresso, uno strumento del diavolo?); non si
sa come funzioni, non si sa che cosa combinerà. Achille Campanile
l'affronta con due certezze in testa. La prima è positiva, euforica:
la televisione è il più potente mezzo d' informazione del nostro
tempo, il più diffuso, il più esteso, il più immediato, il più
penetrante e suggestivo. La seconda idea-guida è meno positiva.
Anzi, è negativa senz'altro. Accidenti, come la adoprano male; come
la adopriamo male questa nuova invenzione: E' stata scoperta e
inventata la televisione, ma non è ancora stato scoperto il modo di
usarla. Perché Campanile dice (anzi dimostra, in queste sue
critiche) che era usata male quella televisione? Per alcune ragioni
che ci interessa conoscere anche oggi. Perché quella aveva tutti i
difetti della televisione di oggi. Fondamentale, il difetto di
inseguire il pubblico. Di scambiare la comprensibilità con la
cretineria. Di proteggere ogni programma, anche il più stupido,
dietro l' alibi del pubblico che lo vuole: variante aggiornata del
medievale Dio lo vuole, ispiratore a suo tempo delle peggiori
crociate. Campanile non è affatto d' accordo: Immaginatevi un medico
che dia all' ammalato soltanto le medicine che gli piacciono. Ci
vorrebbe l' olio di ricino. Ma attraverso sondaggi e inchieste del
suo servizio opinioni, il medico è venuto a sapere che l' ammalato
non gradisce l' olio di ricino e che gli preferisce una zuppa di
pasta e fagioli, e dunque diamogli la pasta e fagioli. Questo è
Achille Campanile al suo meglio. Ricco di vigore e di acume. Capace
di farci passare per sempre (o almeno per un po' di tempo) la voglia
di rimpiangere quella televisione. Come troppo spesso facciamo.
Ricadendo nell'errore di quella tale aristocratica francese in esilio
che non la smetteva di parlare bene del 1793. Ma come, proprio
quell'anno terribile? L'anno del Terrore, che fece cadere tante
teste? Sì, rispondeva l'aristocratica vecchia dama. Sarà stato un
anno terribile; ma io ero giovane e innamorata: avevo vent'anni.
La televisione dei nostri
vent' anni era più povera e modesta questo è certo di quella di
oggi. C'era una sola Rete, un solo canale (Berlusconi era ancora di
là da venire). Non c'era il colore, non c'era il telecomando, non
c'era il videoregistratore. Ma povertà non significa necessariamente
virtù: la televisione modesta monopolistica e monocratica degli Anni
Cinquanta e Sessanta era piena di vizi. Di pudibonde autocensure. Di
furibonde censure. Si doveva cantare l'innocentissimo: Papà non
vuole / mamma nemmeno / come faremo / a fare l' amor!; ma l' ultimo
versetto sembrava troppo audace e quindi veniva prudentemente
fischiettato, invece che cantato. Di satira politica proprio non si
parlava. Se qualcuno imprudentemente ci provava, come Dario Fo nella
famosa Canzonissima del 1962, veniva cortesemente pregato di
accomodarsi alla porta; lui e la sua sregolata compagna Franca Rame.
Vero è che faceva un certo posto alla cultura, quella televisione.
Sì, ma gli uomini di cultura che partecipavano alle trasmissioni
dell'Approdo ed erano i più famosi parlavano in modo
assolutamente ridicolo; da involontario avanspettacolo; sciorinando
paroloni. Del nuovo strumento, e del modo in cui poteva funzionare
non avevano capito assolutamente nulla.
Avevano capito molto di
più, molto prima personaggi semplici come Mario Riva. Che muore per
i postumi di un incidente sul lavoro (era caduto in una buca del
palcoscenico) alla fine del 1960. Campanile, che pure più volte
l'aveva preso in giro chiamandolo Il gran simpatico, gli
dedica allora un necrologio (Il suo ultimo sabato sera)
commovente e commosso: pieno di affetto e di tenerezza, di
intelligente riconoscimento. E le battute, le famose battute di
Campanile? No, sulle battute non vorrei perdere molto tempo. Anche
perché sono conosciutissime. Gassman? Il matt'attore. Jader
Jacobelli? La telecamera dei deputati. L'originale televisivo? Un
prodotto che non è né originale, né televisivo. Preferisco
soffermarmi su un tratto che rende riconoscibili e inimitabili queste
cronache.
Di tanto in tanto, quando
una trasmissione televisiva lo ispirava, Campanile si alzava dalla
poltrona e partiva. Partiva per la tangente. Si allontanava dal tema
per abbandonarsi alle sue variazioni: paradossali, imprevedibili.
Primo esempio. Un certo giorno una certa trasmissione
cultural-televisiva, parlando di Arturo Toscanini si lascia sfuggire
l'espressione: il suo cuore di parmigiano. Niente di sbagliato.
Niente di filologicamente inesatto. Il Maestro difatti era nato a
Parma. Però si sarebbe potuto dire: il suo cuore di parmense per non
generare equivoci (il parmigiano essendo anche un formaggio). Ecco
allora Campanile immaginarsi una famigliola: onesta ma poverissima.
Finalmente la mamma riesce a mettere in tavola una zuppiera di
spaghetti. Ma ahimè, che sapore ha la pasta quando non è condita? I
bambini piangono disperati. In casa non c'è nemmeno una crosta di
formaggio. Quand'ecco che il babbo, ricordandosi di avere anche lui
un cuore di parmigiano (come Toscanini, era nato a Parma) prende un
coltello e... E il resto andatevelo a leggere a pagina 316. Secondo
esempio. Nel 1967 la nostra Tv decide di portare sul piccolo schermo
I Promessi Sposi, rielaborati da Sandro Bolchi e Riccardo
Bacchelli. Campanile si scatena. Si immagina che il Griso si rifiuti
di rapire Lucia Mondella, malgrado il perentorio comando di Don
Rodrigo. Rapire? Tutt'al più egli la potrebbe rapare. A zero. Di qui
una serie di variazioni tragicomiche che si moltiplicano e si
prolungano per dodici irresistibili pagine. Che peccato che Campanile
non ci sia più. Intanto perché chissà che cosa avrebbe tirato
fuori, di fronte ai prossimi Promessi Sposi televisivi di
Nocita.
E poi, se fosse ancora
fra di noi avrebbe trovato il modo, in questi anni, di correggere una
delle sue idee-guida sulla televisione. L'idea su cui molto insiste
che la Televisione è fatta per mostrare avvenimenti lontani mentre
si stanno svolgendo. Questo è vero per gli avvenimenti, che generano
particolare emozione quando sono trasmessi in diretta. È meno vero
per le persone. Che ci guadagnano comunque ad apparire in Tv. In
diretta o registrate. È per questo che ci tengono. Apparendo in
televisione cambiano di status. Sono diventate visibili. Da
invisibili ed anonime che erano (o temevano di essere). Per questo ci
tengono tanto.
Per questo si è
sviluppata negli ultimi anni, che Campanile ha avuto la fortuna di
non vedere, una forma di esibizionismo patologico che nasce certo
dalla televisione. Ma si diffonde poi per contagio, dappertutto.
Anche nell'editoria. Anche nella confezione dei libri. Compreso
questo libro. Che manca ed è una mancanza grave, una sciatteria
imperdonabile di un indice dei nomi. Ma che reca, in compenso (chi si
contenta gode) alla quarta pagina interna il nome della responsabile
(è una donna) del progetto editoriale. Che fortunata questa impavida
giovanotta della industria culturale. Che invece di leggersi
accuratamente i libri che pubblica: per compilare un bell'indice dei
nomi, e per correggere a a pagina 244 un orrendo unus ex omnes
(si dice unus ex omnibus, signorina) pensa ad immortalare il
suo nome collegandolo ad un fantomatico progetto editoriale. Che
fortunata! Ci fosse stato ancora Campanile, avrebbe scatenato le sue
variazioni. Uno va dal macellaio e si ritrova la bistecca incartata
in carta firmata con la scritta progetto alimentare. Uno va in questa
stagione a comprarsi un gelato e si trova davanti ad un cono firmato
con la scritta: progetto dolciario. Eccetera. Ovvero: Vanitas
vanitatum.
"la Repubblica", 15 agosto 1989
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