Ponte Sisto Edizioni ha
pubblicato pochi giorni fa l’ultimo libro di Igor Patruno,
intitolato Le parole ritrovate. Il romanzo perduto dei ragazzi del
77.
La trama ha al centro la
protesta radicale di quell'anno, alla quale Patruno partecipò in
prima persona: le assemblee romane alla Facoltà di Lettere, gli
Indiani Metropolitani e Autonomia Operaia, la contestazione a Lama,
la morte di Francesco Lo Russo, la rivolta di Bologna, la
repressione. Sullo sfondo il rovello di una vocazione alla scrittura
e alla narrazione.
Pochissimo
tempo, nel 1980 il quotidiano “Lotta Continua”, interpretando
questa esigenza, pubblica, per la prima volta nella storia del
giornale dell'estrema sinistra, una rubrica settimanale di interviste
a scrittori italiani. Le interviste, ideate e realizzate da Igor
Patruno, furono realizzate con la collaborazione di Massimo Barone e
Antonio Veneziani, e affrontano il tema del “raccontare storie”,
del rapporto tra personaggio e scrittore, del senso dello scrivere.
La serie di interviste, dopo la fine del giornale “Lotta Continua”
(era difficile sopravvivere alla fine dell'organizzazione politica),
proseguì sul “Quotidiano dei Lavoratori”. Tra gli
intervistati vi furono scrittori e poeti come Alberto Arbasino,
Umberto Eco, Franco Cordelli, Alberto Moravia, Anna Mongiardo, Dacia
Maraini, Renzo Paris, Aldo Rosselli e Dario Bellezza. Oggi queste
interviste sono entrate nel libro di Patruno e sono più di
un'appendice, giacché quel che conta in esse non sono solo le
domande, ma anche le risposte. Quella che segue è l'intervista a
Dacia Maraini, curata da Massimo Barone. (S.L.L.)
NON RIESCO A DARE
RAGIONE A NESSUNO
Intervista a Dacia
Maraini
a cura di Massimo
Barone
Che rapporto hai con i
tuoi personaggi?
Mi accorgo che un
personaggio funziona quando va per i fatti suoi. Se il personaggio ha
bisogno di essere continuamente sostenuto, modificato o corretto, se
ci lavoro troppo, vuol dire che non funziona. Il personaggio deve
agire da solo. In fondo, c’è sempre l’idea di rendere visibile
una ideologia attraverso un personaggio ed è molto pericoloso farsi
prendere la mano da questo.
Non necessariamente un
romanziere è un narratore. Come ti poni di fronte al problema del
raccontare?
Il romanzo degli ultimi
venti anni ha negato la narrazione. Chissà perché lo abbiamo
chiamato romanzo… Forse per la mole. Ma, in realtà, abbiamo avuto
monologhi, frammenti, molto spesso poemi lirici in prosa. La
narrazione è stata messa da parte. Si è negato il piacere del
racconto… Per molti anni mi è successa una cosa strana. Quando mi
sorprendevo a raccontare per il piacere di raccontare mi dicevo:
ecco, c’è qualcosa che non va, qualcosa di vecchio. Sembrava che
ogni forma di racconto fosse una forma di naturalismo. Il
naturalismo, questa terribile parola! Ma la verità è che senza la
gioia del racconto non c’è romanzo e questa gioia mi appartiene,
l’ho provata fin dalle prime letture. Mi piace proprio, leggere
delle storie, mi è sempre piaciuto. Anche in poesia mi è difficile
scrivere versi in cui non ci sia uno spunto narrativo. Tuttavia, per
molti anni, era sbagliato raccontare: il Gruppo 63 negava la
narrazione e il ’68 negava perfino la scrittura.
Questo giudizio sul
Gruppo 63, è condiviso da molti. Ma, secondo te, oltre a praticare
una sorta di terrorismo culturale e a negare il piacere del racconto,
il Gruppo 63 ha avuto qualche effetto positivo?
Sì, qualcosa… Per
esempio ha indotto ad una maggiore riflessione sul linguaggio. E poi
ha contribuito ad eliminare quel certo crepuscolarismo e quel
sentimentalismo che sono parte della tradizione letteraria italiana.
Però a guardare i risultati concreti prodotti, devo dire che gli
effetti sono stati soprattutto negativi…
Elio Pagliarani era
uno che raccontava. La ragazza Carla (Mondadori, 1964) è un
libro di versi molto raccontato.
Sì. Lui è uno dei pochi
del Gruppo 63 che ha conservato, almeno nelle sue prime cose, un
certo piacere del racconto. Per tutti gli altri raccontare
significava cadere nel naturalismo… Per cui si avevano strani
romanzi fatti di illuminazioni, di frammenti… Siccome la vita è
caotica, frammentaria, incomprensibile, anche l’arte doveva essere
così. Ma, in fondo, questa è la forma più esasperata di
naturalismo. Cos’è il naturalismo? L’imitazione della vita,
della realtà come ti appare in uno specchio. Invece, se racconti
devi dare un significato tuo alle cose, devi creare personaggi che
rappresentano la tua visione del mondo. Il racconto realistico è
quasi sempre molto meno naturalistico della mimesi caotica
dell’avanguardia.
Come lavori?
Ho un certo metodo, una
disciplina. Ma debbo dire che la mia non è una disciplina imposta.
Non mi lego alla sedia. Diciamo che è una abitudine amorosa. Di
solito mi alzo la mattina abbastanza, presto… Impiego molto tempo
per scrivere. Un articolo lo scrivo quattro o cinque volte, impiego
giorni a finirlo. Non parliamo poi di un libro: lo scrivo e lo
riscrivo… Non ho la scrittura di getto. Non potrei mai lavorare col
registratore, come fanno alcuni, che incidono e poi trascrivono. Devo
avere la pagina davanti, mi ci devo soffermare, scrivere, tornare
indietro, ricominciare da capo…
Ma tu hai usato il
registratore nel tuo lavoro.
Non tanto. L’ho usato
in Memorie d’una ladra (Bompiani, 1972) e, ultimamente, in
un libro che sta per uscire e che si intitola Storia di Piera.
È un libro intervista in cui Piera Degli Esposti racconta la sua
storia… Parliamo di teatro, della sua vita… Una volta lei m’ha
raccontato la sua vita e mi è sembrata talmente affascinante, così
strana, che le ho detto: “Dobbiamo farne un libro”. Ma Storia
di Piera m’appartiene fino ad un certo punto e non è un
romanzo.
Qual è il libro a cui
hai più lavorato, quello che t’è costato di più?
È Memorie d’una
ladra… Perché io, in fondo, m’annullavo di fronte ad un
personaggio del popolo. In questo subivo probabilmente l’influenza
del ‘68. Ho fatto un enorme sforzo per identificarmi con Teresa, la
protagonista… Non è che io rinneghi questa esperienza e, tra
l’altro, io e Teresa siamo molto amiche… Però sono dovuta uscire
da me stessa e ho dovuto riscrivere molte volte il testo, perché lei
aveva una curiosa memoria e non distingueva un episodio dall’altro:
li confondeva. Ho dovuto cioè ricostruire il suo passato. È stato
molto faticoso.
Cosa stai scrivendo
adesso?
Sono quasi quattro anni
che lavoro ad un romanzo. Provvisoriamente potrebbe intitolarsi
Lettere a Marina (Bompiani, 1981), ma non sono sicura che il
titolo sarà quello. I titoli per me sono un problema. Invidiavo
Pasolini perché lui ancora prima di cominciare a scrivere, già
sapeva il titolo. Anzi, spesso sapeva il titolo, ma poi magari non
scriveva il libro. Mi diceva: “Come ti sembra questo titolo?”. Ed
io: “Bellissimo. Hai cominciato a scrivere?”. E lui: “No”.
Invece a me succede il contrario. Ho quasi finito di scrivere questo
libro e ancora non sono sicura del titolo… Ho cominciato con lo
scrivere delle lettere ad una mia amica. Avevo delle cose da dirle.
Il libro, quindi, è nato da una esperienza personale: stavo
scrivendo delle lettere ad una donna e mi sono accorta che non volevo
parlare solo a lei, ma a me stessa e anche ad altri e poi volevo
inventare mescolando altre mie esperienze, così è nato il romanzo,
un vero romanzo, con una storia, un racconto… Ci sono dentro questi
ultimi dieci anni, il femminismo. Anche l’infanzia.
Questo libro nasce
casualmente da un dato autobiografico o è decisamente
autobiografico?
Non ho mai scritto un
romanzo autobiografico nel senso stretto del termine. Kate Millett,
per esempio, è una che scrive tutto quello che fa: si segna ogni
cosa, quello che mangia, quello che pensa, chi vede e poi lo scrive.
Lei non riesce a raccontare una cosa che non sia realmente accaduta
nella sua vita. Identifica totalmente se stessa con la sua scrittura.
Nel mio caso non è proprio così. Io ho bisogno di deformare,
inventare, fantasticare.
Non ti senti un po’
in colpa per questa deformazione del dato obiettivo?
No, perché non lo faccio
per nascondere. Lo faccio perché mi piace, perché voglio mettere in
una storia anche altre storie. Se mi devo attenere alla cronaca, non
posso metterci altro. Io parto, certo, dalla mia esperienza, ma ci
sono altre esperienze intorno a me, esperienze che mi hanno colpito.
Forse c’è anche il fatto che ho una curiosa capacità di
immedesimarmi negli altri. Alle volte anche troppo. Non riesco a dare
ragione a nessuno. Ho le mie idee, tuttavia mi immedesimo molto in
quello che mi dice una persona, soprattutto in quello che è una
persona. Mi riesce molto difficile, per esempio, condannare qualcuno.
Perché, se lo conosco, ci trovo comunque aspetti che mi affascinano.
Cosa leggi? Quali sono
i tuoi autori? O meglio: ci sono autori che tu possa definire tuoi?
Per me è difficile
rispondere a questa domanda. Io sono una che prende delle cotte. Fin
da bambina. Quando mi innamoro di un autore, tendo a divorarlo, vado
a cercare tutti i suoi libri. Uno dei primi su cui mi sono fermata a
lungo è stato Proust, stranamente, perché non lo sento vicino come
scrittore. Ho amato molto anche Fëdor Dostoevskij, Katherine
Mansfield e Charlotte Brontë. Sono una lettrice appassionata. Mi
prendono in giro per questo, perché ho sempre una valigia piena di
libri. Quando viaggio devo avere i miei libri. Leggo di tutto, molti
libri di donne, ma è il grosso romanzo che amo… Mi piace il
romanzo in cui potersi perdere, come Sister Carry (Einaudi, 1951) di
Theodore Dreiser o La lettera scarlatta (Mondadori, 1930), di
Nathaniel Hawthorne. Insomma mi piace il romanzo in cui ci sia una
storia. Credo di essere una delle poche persone che ha letto tutto
Balzac.
“Lotta continua”,
domenica 20 aprile 1980
Nessun commento:
Posta un commento