2.8.17

Pensare e lottare secondo pittura (Renato Guttuso)

Una volta Matisse, in una intervista, disse che i giovani che avessero voluto prendere la via dell’arte avrebbero dovuto farsi tagliare la lingua.
Spesso mi sono pentito di non aver seguito questo saggio consiglio. Ma saggio io non sono, né so distinguere il vino della passione da quello della quiete.
Inoltre i tempi non sono più quelli di calme, luxe et volupté. Né è mai stato vero che ai pittori tocchi solo dipingere e agli altri di parlare.
Perché non dovremmo parlare noi di pittura se, ragionevolmente, siamo quelli che più sono dentro al cuore della questione? Non siamo forse quelli che, maneggiando questa materia continuamente, se ne intendono di più?
Il critico è lo specialista, il pittore è l’uomo-attore, a cui non è dato di separare da se stesso alcunché di ciò di cui è fatto. A me, per esempio, non riesce di separare la «ragione poetica» da ciò che Vittorini chiamava la «ragione civile». Il grembiule che indosso per non sporcarmi quando lavoro, non mi nasconde a me stesso, non è un diaframma, una separazione da aggiungere alle «separatezze » a cui l’uomo d’oggi è sottoposto. La mia pittura è solo il mio specifico, ma non può vivere di specificità, divorare se stessa; essa de ve divorare me, per avere giusto nutrimento. La pittura non è un concetto, né una idea, né una religione, neppure una stanza immunizzata da ogni umano batterio, una cella dove non entrano rumori di mondo, sangue, amici, amore, rissa...
Il materiale qui raccolto è pescato, senza scrupoli antologici, da pacchi di appunti, che testimoniano delle mie reazioni su alcune delle cose in cui mi è accaduto di imbattermi.
Non so che cosa si potrà estrarre da queste note, alcune delle quali rimontano a più di trent’anni fa (e mostrano il loro volto infantile). Non certo una teoria, né una precettistica, neppure una immagine di maniera, cosa che non mi piacerebbe, tra l’altro, si deducesse neppure da ciò che ho dipinto.
Io non ho teorie, forse dei principi (ma non dentro la pittura) che caso mai si riflettono nella pittura perché fanno parte della mia vita. Penso piuttosto che ci sia dentro di me un congegno di spinta e freno, che entra in azione per impedirmi di andare verso strade che mi apparirebbero convincenti e nelle quali mi avventurerei, a volte, volentieri. Al contrario tale congegno può spingermi in zone dove non so orientarmi e mi induce a conclusioni imprevedibili. Credo si tratti di un congegno di subconscia ostinazione, che mi riporta, in definitiva, a misurarmi con alcuni nodi fissi che si ripresentano senza che io li abbia cercati. Ma se le cose stanno cosi vuol dire che in fondo io li cerco, questi nodi; e li cerco perché non li ho ancora sciolti.
Leonardo Sciascia ha creato per me una formula che riassume un po’ la mia condizione: «roso dalla certezza» (in contrapposizione a se stesso, «roso dal dubbio»). Ma che razza di certezza potrebbe essere quella che mi rode, se non fossi roso dal dubbio? Ciò coincide, mi pare, con il congegno di subconscia ostinazione di cui dicevo.
Mi illudo che, comportandomi come altrimenti non potrei, ciò che io chiamo arte o più propriamente pittura, sia solo in apparenza una finzione, ma in realtà una cosa concreta, che non nasce da me, ma è nell’oggettività del mondo. Si tratta solo di liberarla da ciò che la ricopre (o di metterci sopra la mano perché può darsi benissimo che non sia coperta da nulla).
Ripeto, qui, in modo assai più prolisso e oscuro un pensiero di Michelangelo secondo cui l’artista («ottimo», nel suo caso) non ha «alcun concetto» che il marmo già in sé non racchiuda.
Evidentemente ostinazione e certezza non sono misteri della psiche o fatalità, ma elementi razionali utili a rendere plausibili, se non a risolvere, le tante contraddizioni della pratica. Ma Brecht dice che «nelle contraddizioni risiedono le nostre speranze». Così è infatti, dato che senza contraddizioni non si dà movimento.
Ho già detto che non concepisco distinzione tra «ragione poetica» e «ragione civile», e che credo nell’oggettività del mondo (o del reale, senza occuparmi della distinzione tra i due termini) e che perciò io, soggetto, riesco a vedermi solo se mi rendo conto di essere un oggetto. Inoltre credo al legame tra presente e memoria: la «memoria» è il nostro vero spazio, ma non per me sotto il segno del sogno all’indietro o come nostalgia; piuttosto come strumento di ricognizione del proprio presente. Credo cioè alla materialità della memoria. Così come credo che «un’opera d’arte non è eccelsa se non è nello stesso tempo un simbolo e l’esatta espressione della realtà», come dice Maupassant a proposito della Venere di Siracusa.
Queste sono forse teorie? Neppure principi; solo «certezze» che mi rodono e contro cui vado continuamente a sbattere, proprio perché le rimetto continuamente in causa.
Naturalmente ho sempre pensato e penso molto alla pittura. Penso anche al quadro che dipingo, durante il lavoro, nelle pause, o per la strada, se c’è qualcosa che non mi è chiara, una conclusione che non riesco ad afferrare. Ma non mi è mai accaduto di risolvere un quadro «in crisi» dopo averci pensato. Pensare alla pittura, o al lavoro in corso, è solamente professionale. Ciò che veramente conta è pensare sulle cose, pensare in genere, su ciò che si vede, che si legge, su ciò che si ama e su ciò che si odia, su ciò che ci è indifferente.
Si può però anche pensare «secondo pittura». Tutti sanno, per esempio, che, parlando di pittura, non solo i critici ma anche i pittori — ed io stesso — usano citare pensatori e filosofi e che mai si fa ricorso per farsi capire alla filosofia e al pensiero di altri artisti, del passato o contemporanei. E intendo dire non delle cose pronunciate da questo o quell’artista, ma della filosofia, del pensiero contenuto nella loro pittura. Per esempio perché non si dice mai: «Come afferma Caravaggio nella parte alta a destra delle Opere di Misericordia...», oppure « Come dice Van Gogh nel cielo del Caffè di Arles...»? Forse questo tipo di citazioni potrebbero essere assai utili, più vicine come argomenti, e tangibili, quando si parla di pittura.
Ma non accade mai di leggere citazioni siffatte. Il rapporto della pittura con la filosofia non viene più tenuto nel dovuto conto. Al contrario «le filosofie» (e, a livello più basso, le ideologie) si servono delle operazioni artistiche, o intervengono a spostare il terreno d’azione dell’artista, o di chi oggi si assume il ruolo di creare stati emotivi, immagini o antimmagini.
Io lavoro un po’ come un operaio o un impiegato. Voglio dire che ho press’a poco un orario, comincio alle otto, smetto all’una, riprendo alle quattro fino alle otto. E mi accade spesso, quasi sempre, di constatare che « non ho niente da dire ».
Credo che non ci si mette mai al lavoro pensando a quel che si vuole dire o perché si pensa che si ha qualcosa da dire. È questa una condizione di libertà, non preconcetta, che sebbene a volte mi sgomenti, in definitiva mi consola, perché trasferisce tutto sul lavoro materiale, sulla costruzione che si modifica nel suo stesso processo.
Con ciò non intendo dire che il vuoto sia la condizione più favorevole perché nel vuoto si può iscrivere tutto. Evidentemente non c’è il vuoto, ma piuttosto la non coscienza di ciò che si è accumulato, condensato, dentro di noi, in modo direi fisiologico. Purezza forse, che sembra o forse è una quiete ebete. Se si pensa al carnet degli artisti, alla varietà, al disordine, alla casualità degli appunti registrati, ci si può rendere conto di quanto dico. Ma forse io mi riferisco agli artisti come erano qualche tempo fa. Oggi i carnet contengono progetti, o, nei casi migliori, ideogrammi di progetti.


Dalla prefazione a Il mestiere di pittore, De Donato, 1972 in “Rinascita”, n.46, 24 novembre 1972

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