26.9.17

César Vallejo. Ande 1917: un sopruso universale (Vittorio Giacopini)

César Vallejo
Tungsteno, carburo di tungsteno, e derivati, essenziali per l’industria pesante civile e militare, per i filamenti delle lampade a incandescenza, per le valvole termoioniche, per gli elettrodi, utili per la lavorazione di altri metalli e materiali, rilevanti anche nell’estrazione petrolifera eccetera. Siamo nel 1917; gli Stati Uniti si stanno preparando a entrare in guerra. Nelle zone minerarie delle Ande peruviane, dipartimento di Cuzco, gli yankee della Mining Society hanno un sempre maggiore bisogno di manodopera per incrementare i quantitativi di minerale da estrarre e inviare in patria. Tungsteno di Vallejo (Sur, Roma, traduzione di F. Verde, 2015), un fulminante romanzo-teatrale in tre quadri, è la cronaca-denuncia della crescente pressione del capitale sulle comunità locali, indios e cholos, e l’amara fotografia di uno sfruttamento politico, economico, sempre più duro. Grandissimo poeta, Vallejo affida a questo suo unico romanzo - un capolavoro - il compito di svelare un processo totale e impressionante di genocidio antropologico e lo fa raccontando una fine del mondo, del suo mondo.
Scrive contro il potere, Vallejo, ma senza ideologia, con estrema attenzione, quasi con pietas. Niente invettive gridate, niente lamenti. Gli yankee restano, il più delle volte, sullo sfondo. Quello che Vallejo coglie e denuda con più nitida coscienza sono le forme intermedie dell'oppressione, il ruolo
decisivo e osceno - dei complici locali, dei «notabili» del Paese, dei mediatori. Il primo, impressionante, «quadro» di Tungsteno è il racconto di uno stupro di gruppo, sino alla morte. In quella stanza, oltre a Weiss e Taick, i “padroni” gringos, ci sono tutti: il commissario, l’ingegnere e il professore, i negozianti. Gli stessi volti, più altri ugualmente indecenti, ugualmente torvi, tornano nel quadro secondo, quando inizia l’arruolamento forzato degli indios per le miniere. La protesta dei poveri finisce in una strage; sparano tutti: sottoprefetto, sindaco, giudice, medico, segretari comunali, persino il parroco.
Negli anni Trenta - il libro viene pubblicato non in Perù ma in Spagna nel 32 - questo modello di «arte proletaria» era importante. Vallejo, Brecht, Majakovsky e Piscator, la Seghers, Gor’kij, il misterioso B. Traven (con le sue storie di indios messicani), Ischerwood, Auden. Poi quel modello è stato criticato, o messo da parte, ma i tempi mutano e fa impressione rileggere oggi un romanzo secco, lineare ma non ingenuo o facile, come Tungsteno. Vallejo non era manicheo, lo era il suo mondo. Lo è anche il nostro. Deve esserci come una curva nel tempo, o una parabola, ma sta di fatto che nel nostro presente - globalizzato, anzi: delocalizzato - questo scarto tra il centro dell’impero e il resto, i margini, è tornato ad accentuarsi, con evidenza. Mentre il divario tra ricchi e poveri assume aspetti e volti e forme da Ottocento, il «tallone di ferro» dello sfruttamento raggiunge punte massime e paurose in questi territori immensi di miseria. L’esercito di riserva del capitalismo oggi sono le factory schiavistiche del vasto e muto Oriente, in India, in Cina, queste penitenziali galere delle grandi marche. Vallejo, ovvio, scriveva dei suoi tempi, per sabotarli. Siamo costretti a leggerlo come se scrivesse dei nostri, e contro i nostri.


“Il Sole 24 ore – Domenica”, 1 marzo 2015

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