1.9.17

Il naso del re di Francia. Landolfi traduttore di Gogol (Cesare G. De Michelis)

Tommaso Landolfi
L'idea einaudiana d'offrire in una apposita collana, sobria ed elegante, gli "scrittori tradotti da scrittori" appare ben azzeccata, e per certi versi insostituibile per una moderna rimeditazione sul grande tema della traduzione: un' attività che per quanto proclamata essenziale nella civiltà delle lettere, sembra riscuotere, specie in Italia, scarsa attenzione. Abbiamo dunque, ora e facilmente accessibili classiche traduzioni realizzate in tempi e condizioni diverse: Kafka di Primo Levi, Stevenson di Fruttero e Lucentini, Flaubert di Natalia Ginzburg, il Candido di Voltaire nella resa di Riccardo Bacchelli, un Poe di Giorgio Manganelli, La tempesta shakespeariana nel napoletano di Eduardo, Queneau tradotto da Italo Calvino, ancora Flaubert da Lalla Romano. E adesso, nono volume della collana, i Racconti di Pietroburgo di Gogol nella versione di Tommaso Landolfi (pagg. 318, lire 16.000).
Tommaso Landolfi, l'autore del Dialogo dei massimi sistemi scomparso nel 1979, non fu nè traduttore dilettante, nè russista d' occasione: come ricorda nelle sue memorie Ettore Lo Gatto, s'era laureato con una tesi su Anna Achmatova, fu legato in operoso sodalizio ad Angelo Maria Ripellino, e per tutta la vita ha continuato ad occuparsi di cose russe, sicché la stessa presenza di temi e motivi della letteratura russa nella sua opera creativa risulta frutto d'una scelta meditata e criticamente avvertita. Caso felice (e, quanto alla letteratura russa, assai raro in Italia) del "tradotto" che lascia il segno sul "traduttore". A parte Gogol, Landolfi ha dato voce italiana a Puskin, Lermontov, Tjutcev, Turghenev, Dostoevskij, Cechov, e ad altri ancora. Ma restiamo ai Racconti di Pietroburgo. Che cosa si proponesse con la sua traduzione, ce lo dice Landolfi stesso: "aderire, per quanto era possibile e ce lo concedevano le elementari leggi della nostra lingua, al testo originale. Riprodurre (...) insomma tutte le più minute particolarità, a costo d' affaticare in qualche luogo anche il lettore". Diciamo subito che ad un'indagine minuziosa, questi propositi - d'una modestia esemplare, e di severa consapevolezza filologica - sono realizzati solo in parte: nel senso che laddove il testo russo è, insieme, specifico e d'immediata presa colloquiale, Landolfi tende a salvare l'immediatezza a scapito della specificità (soprattutto a livello lessicale); talora, a parer nostro, anche quando le "elementari leggi" dell'italiano non dico non lo imponessero, ma semplicemente non lo consigliassero. Oserei dire che questo, che resta probabilmente il miglior "Gogol italiano" (a parte, ove e quando si rinvenissero, gli articoli che Gogol stesso pare abbia scritto per periodici romani), risulta alla fin fine troppo "italiano": risultato certamente encomiabile - diceva Pasternak (ma cose del genere le aveva dette anche Leopardi) che la traduzione non deve sembrare cosa tradotta, ma tale che il traduttore ne possa rispondere come di cosa sua -, che però corre il rischio di togliere al lettore proprio il gusto di quella "diversità nell'equivalenza", che Landolfi si proponeva di salvaguardare.
Tuttavia, un'altra è la legittima perplessità che può destare la riproposizione odierna di questa classica traduzione landolfiana: il fatto d'apparire piuttosto datata. Non mi riferisco alla presenza di espressioni già passate in disuso, o a qualche toscanismo un po' troppo marcato; ma al fatto che il testo stesso dal quale traduceva Landolfi è "invecchiato". E mi spiego. La prima edizione di questi Racconti di Pietroburgo apparve più di quarant'anni fa, nel 1941 per i tipi della Rizzoli; l'attuale edizione Einaudi li ripresenta tali e quali, pur se debitamente corretti gli errori di stampa, e opportunamente riportata la trascrizione dal cirillico alle norme d'uso ormai accettate e generali. Ma il testo dal quale traduceva Landolfi è quello "tradizionale", derivato dalle edizioni pubblicate in vita dell'autore: cioè anteriore all'edizione critica delle Opere complete (14 volumi, apparsi tra il 1937 e il 1952), che ha restaurato molti passi, e in particolare quelli a suo tempo manomessi dalla censura. Vedi i paradossi della Storia: anche lo stalinismo sapeva essere severo censore dei censori; s'intende, zaristi. Qualche esempio soltanto, dal Giornale di un pazzo. Popriscin si meraviglia non che un cane sappia parlare, ma che sappia scrivere: poi però aggiunge "Solo il nobile può scrivere correttamente. Lo fanno invero anche mercanti e impiegati, e perfino il popolino talvolta scribacchia: ma per lo più la loro scrittura è meccanica, senza virgole, né punti, né stile". Un po' troppo classista, si dev'esser detto il censore del 1835: e ha cassato. Ma purtroppo l'arguta osservazione è assente anche per il lettore italiano del 1984. C'è un caso ancora più vistoso, il celebre finale. Il repentino passaggio dal grido di dolore e di sconforto, alla più assurda bislaccherìa, di quelle per cui giustamente van celebri i matti: "Mammina, salva il tuo povero figlio! Lascia cadere una lagrimuccia sulla sua testina malata! Guarda come lo tormentano! (...) Mammina, abbi pietà del tuo povero fanciullino!... E sapete, a proposito, che il bey d'Algeri ha una verruca proprio sotto il naso?" La "verruca del bey d' Algeri", nella sua incongruità, è divenuta proverbiale: si tratta dello stesso disgraziato bey, cacciato dai francesi nel luglio del 1830 e in seguito rifugiatosi a Napoli, di cui scrisse anche il Belli nel sonetto Er pijamento d' Argèri: "E mo metteno in cima a ' na colonna / er Deo d' Argèri che vva a fasse frate, / o viè a venne le pizze a la Ritonna". Solo che nel testo originario l'escrescenza sottonasale non apparteneva al bey d' Algeri, ma al Re di Francia (all'epoca della stesura del racconto, 1833-4, non più il conquistatore d'Algeri, Carlo X, ma Luigi Filippo). È buona norma del censore di non scherzare su un sovrano regnante: e così la verruca è passata a un sovrano deposto. E tale è rimasta nella versione di Landolfi, oggi riproposta.


“la Repubblica”, 9 maggio 1984

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