21.9.17

Papa Giovanni Paolo II e la bellezza (Susan Sontag)

Nell'aprile del 2002, quando finalmente reagì allo scandalo suscitato dalla rivelazione degli innumerevoli tentativi di coprire gli abusi sessuali commessi da esponenti del clero, papa Giovanni Paolo II disse ai cardinali americani convocati in Vaticano: «Una grande opera d'arte può essere intaccata, ma la sua bellezza rimane; questa è una verità che ogni critico intellettualmente onesto deve riconoscere».
È davvero così strano che il Papa paragoni la Chiesa cattolica a una grande - vale a dire, bella - opera d'arte? Forse no, dal momento che l'insensato paragone gli consente di trasformare dei crimini ripugnanti in qualcosa di simile ai graffi che danneggiano la pellicola di un film muto o alla craquelure (screpolatura n.d.r.) che copre la superficie di un dipinto di un Antico Maestro: pecche che il nostro sguardo automaticamente ignora o oltrepassa. Il Papa ama le vecchie idee. E la bellezza, intesa (al pari della salute) come segno di inconfutabile superiorità, è sempre stata un'utile risorsa al momento di emettere valutazioni perentorie.
La durevolezza, tuttavia, non è uno degli attributi più ovvi del bello, e un'accorta contemplazione della bellezza può essere pregna di pathos: dramma che Shakespeare sviluppa in molti dei sonetti. Le tradizionali celebrazioni giapponesi della bellezza, come il rito annuale della contemplazione dei ciliegi in fiore, hanno uno spiccato carattere elegiaco: la bellezza più emozionante è quella più evanescente. Per renderla in qualche modo imperitura sono stati necessari molti aggiustamenti e trasposizioni concettuali. Ma l'idea era davvero troppo allettante, troppo potente, per sprecarla limitandosi a tessere le lodi dell'eccellenza dei corpi. Lo scopo da raggiungere era quello di moltiplicare il concetto, prendendo in considerazione l'esistenza di tipi diversi di bellezza, una bellezza qualificata da aggettivi, ordinata secondo una scala ascendente di valore e incorruttibilità, in cui gli usi metaforizzati («bellezza intellettuale», «bellezza spirituale») assumessero la priorità su ciò che il linguaggio ordinario celebra come bello: e cioè la gioia dei sensi.
Il sito del bello più visitato resta quello che evoca la bellezza meno edificante dei volti e dei corpi. Ma non ci si può certo aspettare che il Papa faccia appello a questa idea di bellezza in un discorso volto a giustificare da un lato le molestie sessuali commesse da sacerdoti ai danni di varie generazioni di minori, dall'altro la copertura dei molestatori. Più pertinente - dal suo punto di vista - è la bellezza «più nobile» dell'arte. Per quanto l'arte possa sembrare questione di superfici e percezione sensoriale, le è stata generalmente concessa cittadinanza onoraria nel regno della bellezza «interiore» (contrapposta a quella esteriore). La bellezza, sembrerebbe, è immutabile, perlomeno quando viene incarnata - fissata - in forma artistica, perché è nell'arte che la bellezza in quanto idea, idea eterna, si concretizza meglio. La bellezza (se è questo il senso in cui decidiamo di utilizzare il termine) è profonda, non superficiale; più spesso nascosta che evidente; consolante, non dolorosa; indistruttibile come nell'arte, non effimera come in natura. La bellezza, quella edificante per definizione, è duratura.
La migliore teoria del bello è la sua storia. Considerare tale storia significa analizzare il modo in cui la bellezza viene utilizzata da parte di specifiche comunità. Le comunità che, agli ordini dei loro leader, si impegnano a sbarrare il passo a correnti ideologiche innovative considerate perniciose non hanno alcun interesse ad alterare quel baluardo fornito dalla bellezza quando la si utilizza come encomio e consolazione ineccepibili. Non è affatto sorprendente che Giovanni Paolo II, e l'istituzione volta a preservare e conservare che egli rappresenta, si sentano a proprio agio tanto con l'idea di bellezza quanto con quella di bene. In modo altrettanto inevitabile, la bellezza apparve in prima linea tra le nozioni da screditare, quando, quasi un secolo fa, le più prestigiose comunità interessate alle belle arti si impegnarono in drastici progetti di innovazione. La bellezza non poteva che essere considerata un parametro conservatore da chi creava e proclamava il nuovo; Gertrude Stein affermò che definire bella un' opera d'arte significa dire che è morta. [...]

Postilla
È la prima parte di un testo (An Argument About Beauty) apparso quasi contemporaneamente tra l'estate e l'autunno del 2002 sulla rivista americana “Dedalus 103” e, in traduzione italiana, sul quotidiano “la Repubblica”. Fu pubblicato in volume nella raccolta di saggi Nello stesso tempo da Mondadori (2008), con il titolo Ipotesi sulla bellezza nella traduzione di Paolo Dilonardo. Da lì ho tratto il brano proposto. (S.L.L.)

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