7.9.17

Riti antichi e moderni. Origini e storia della pena di morte (Claudio Pozzoli)


La sedia elettrica del carcere americano di San Quentin
L’esecuzione ebbe luogo in una grande sala. Non all’aperto, non pubblicamente come al solito. Lo aveva deciso la regina Elisabetta I in persona: la sua rivale scozzese, Maria Stuarda, doveva essere decapitata nel Salone delle Feste del castello di Fotheringhay.
Era l’8 febbraio 1587. Verso le otto del mattino i trecento ospiti poterono assistere all’ingresso della condannata che, tranquilla e dignitosa, salì sul patibolo. Alla luce tremolante di un grande camino ebbe inizio una cerimonia che sarebbe durata due ore: con lunghe preghiere, scene di addio, ingressi a effetto di sacerdoti e magistrati. Solo poco prima delle 10 entrarono i due carnefici: secondo la vecchia usanza chiesero perdono alla condannata per ciò che stavano per farle. Maria Stuarda si tolse il velo nero, si lasciò bendare gli occhi e, vestita di una sottoveste purpurea (il colore dei martiri), si inginocchiò e posò il capo sul ceppo. Il boia alzò la scure.
Quello che accadde poi rovinò tutto l’effetto della messinscena. Il primo colpo di scure spaccò la nuca della condannata. Ce ne vollero altri due per staccare dal tronco la testa della vittima. E quando il boia la sollevò per i capelli, la testa ruzzolò a terra: Maria Stuarda, nell’ora della morte, portava una parrucca.
Secondo lo scrittore tedesco Karl Bruno Leder, autore di un libro appena apparso nelle librerie tedesche sull'origine e la storia della pena di morte (Todestrafe, Meyster Verlag, 1980), anche Maria Stuarda, come già la maggior parte dei condannati a morte prima di lei, ha accettato di recitare, nella pomposa e drammatica messa in scena della propria morte, il ruolo principale «senza opporre la minima resistenza», anzi «in modo esemplare». Perché? Per vanità, per rassegnazione o perché, paralizzata dalla paura, obbediva meccanicamente alle disposizioni della regìa? Nel suo libro Karl Bruno Leder cerca di rispondere a questa domanda. Anzi, cerca di trovare una risposta al perché della «pena di morte», al perché di questo «desiderio di punire» con l’annientamento fisico.
Tutti i suoi predecessori che si sono occupati della pena di morte, lo hanno fatto per combatterla, dimenticandosi di porsi la questione principale: perché torna sempre la richiesta di pena di morte?
Nel Settecento Cesare Beccaria e Voltaire, Victor Hugo (con L'ultimo giorno di un condannato e altri, numerosi, scritti sulla pena di morte) il secolo scorso e Albert Camus negli anni Cinquanta, si scagliano contro la «barbarie pubblica» di uccidere chi è ritenuto colpevole e l’assurdità logica e morale della pena ui morte, ma non ne ricercano l’origine.
Karl Bruno Leder, per spiegare l’insistente desiderio di punire attraverso la pena di morte, ha messo da parte le più recenti spiegazioni sociologiche e psicanalitiche ed è risalito alle origini. Secondo Leder essa non nasce come espressione di giustizia: al di là di ogni legge e giustizia, della colpa e dell’espiazione individuale, la pena di morte avrebbe origine nella penombra della preistoria.
Nelle società più antiche il sacrificio umano veniva praticato per evitare la vendetta delle forze della natura nei confronti degli uomini che infrangevano i tabù. La sciagura minacciava tutta la collettività e non solo il singolo che aveva infranto il tabù. Il sacrificio umano serviva dunque a eliminare le paure e i sensi di colpa collettivi.
Questo magico «sistema del capro espiatorio», secondo Leder, subì trasformazioni durante l’evoluzione storica: nei tempi più antichi venivano sacrificati i membri più preziosi della comunità, come i bambini, i primogeniti maschi, le figlie vergini. Più tardi le vittime cambiarono: erano stranieri, prigionieri di guerra, schiavi e infine, sempre più spesso, malfattori. E solo nel corso di questa evoluzione che, secondo Leder, «il sacrificio umano, alla fine, divenne la pena di morte».
Originariamente la stretta correlazione tra sacrificio individuale e pena di morte era chiaramente riconoscibile. I criminali non venivano quasi mai direttamente uccisi: venivano banditi e scacciati in luoghi selvaggi, delegando così l’esecuzione alle forze della natura. Più tardi, un lancio di pietre accompagnò l’atto dell’espulsione. Tutta la comunità doveva prender parte a quest’atto (che avrebbe poi portato alla lapidazione): solo così, secondo Leder, poteva venir superata l’«inibizione a uccidere».
Questa «inibizione» è presente in molte forme primitive di esecuzione. Quando il condannato veniva crocifisso, appeso per i piedi, affogato o bruciato, gli esecutori non provocavano direttamente la morte delle vittime. Secondo l’autore, il prolungamento delle orribili sofferenze del condannato molto spesso non era provocato dal sadismo, ma piuttosto dal tabù dell’uccisione, dal timore del morto.
Fino al Seicento in Europa erano in uso una varietà e una quantità incredibili di forme di esecuzione. Nell’antica Roma la crocifissione era riservata quasi esclusivamente agli schiavi, i liberi cittadini romani condannati a morte venivano decapitati con la scure. Alla morte sul rogo, nel Medioevo, venivano destinati gli agitatori, gli stregoni, le streghe e gli omosessuali. Gli ebrei venivano appesi per i piedi fra due cani appesi per le zampe posteriori, che nel terrore dell’agonia sbranavano il condannato.
Alle diverse forme di esecuzione erano collegate moltissime superstizioni, dalle quali traspare spesso, secondo Leder, la memoria collettiva dei sacrifici umani di un tempo. L’usanza di lasciare i cadaveri esposti sul patibolo fino a quando gli elementi e gli uccelli non ne avessero fatto sparire ogni traccia non nacque come terrificante avvertimento e ammonimento per il popolo: Leder osserva come dietro ad essa si nascondesse il bisogno di offrire i morti, come un tempo venivano offerte le vittime dei sacrifici umani, alle forze della natura: agli spiriti del vento e dell’acqua, o ai corvi (spesso ritenuti uccelli sacri).
Inoltre, se talvolta succedeva che l’esecuzione non riusciva bene, i numerosi spettatori si facevano spesso prendere dalla simpatia per il condannato. Evidentemente, ipotizza Leder, il popolo intuiva oscuramente che il condannato in realtà non era che una vittima sacrificale, riconoscendo in lui le proiezioni delle proprie paure e sensi di colpa. Allo stesso modo anche alcuni condannati avrebbero intuito le propria funzione di vittima sacrificale, traendo addirittura «piacere, in una sorta di disperato masochismo», dai pomposi onori tributati alla loro persona nel cerimoniale solenne dell’esecuzione. Così, secondo Leder, si spiegherebbe anche il comportamento di Maria Stuarda. E così tanti condannati avrebbero avuto la forza di sostenere l’esecuzione e, spesso, anche le torture che la precedevano.
Fu solo la Rivoluzione Francese a porre fine alle pratiche medievali. Il 10 ottobre 1789 il medico e deputato Joseph Guillotin presentò una proposta di legge in cui era prevista un’unica forma di esecuzione per tutti i ceti e tutti i delitti «capitali». La morte del condannato, sosteneva il medico, doveva venir provocata mediante un procedimento «adeguato, uguale per tutti e per quanto possibile umano».
Il compito di progettare lo strumento adatto venne assunto da un collega del dottor Guillotin, il chirurgo Antoine Louis. Questi escogitò la ghigliottina, prendendo a modello un apparecchio per decapitazione già in uso nel Medioevo. La costruzione venne affidata a un abile artigiano: il fabbricante di pianoforti tedesco, a Parigi, Tobias Schmidt.
Dopo un’innumerevole serie di prove con cadaveri umani e con pecore vive, nell'aprile del 1792 l’apparecchio venne utilizzato per la prima volta per l’esecuzione di una pena capitale.
La prima vittima fu un rapinatore di nome Pelletier: sotto la macchina chiamata inizialmente «Louisette», e solo più tardi «Guillotine», la sua testa cadde così velocemente e facilmente che gli spettatori, avidi di orrori, si allontanarono delusi. Il boia di Parigi, invece, Monsieur Sanson, fu entusiasta della novità. Come la maggior parte dei suoi colleghi (che in Europa si chiamavan l’un l’altro «signor cugino»), egli soffriva, oltre che per il duro lavoro con la scure, soprattutto per il disprezzo che tradizionalmente circondava il suo lavoro.
Gli errori sul lavoro, però, il boia era abituato a pagarli cari. Se combinava qualche guaio, aveva buone probabilità che la folla, improvvisamente irritata, cercasse di linciarlo. È quindi logico che i boia collaborassero alla ricerca di una «morte veloce», ricerca iniziata con l’invenzione della ghigliottina, che ha portato, nell’America ossessionata dal perfezionismo tecnologico, alla sedia elettrica, sperimentata per la prima volta nell’agosto del 1890, e alla camera a gas.
Oggi però, come fa notare Leder, in tutto il mondo si è diffusa una forma di esecuzione originariamente riservata ai tribunali militari: la fucilazione che distribuisce la colpa su diversi esecutori. Dovunque venga eseguita una condanna a morte, sostiene Leder, torna anche oggi a farsi evidente il nesso nascosto tra sacrificio umano e pena di morte.
Leder ha scritto questo libro perché vuole spiegare le origini e i motivi della pena di morte, e la vorrebbe vedere bandita, confinata nel «Museo degli orrori umani», dove le spetta «un posto ad esempio e ricordo degli abissi di follia da cui l’umanità ha dovuto faticosamente trarsi fuori». Per Leder la storia della pena di morte è la «storia delle molte forme di violenza esercitata dalla società nei confronti del singolo», ed è anche la «storia del cattivo uso fatto della ragione, troppo spesso prostituita pur di far passare l’omicidio per una giusta espiazione della colpa».

“L'Europeo”, 21 ottobre 1980 

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