26.10.17

1955, la guerra dei realismi. Salinari e Alicata contro Pasolini (Ottavio Cecchi)

■ La tradizione idealista, storicista ed hegheliana che in Italia (ha ragione Geno Pampaloni) coinvolge sia la destra che la sinistra l’ha avuta vinta due volte su Pier Paolo Pasolini e sul suo «pessimismo cristiano»: la prima, quando lo attaccò per i suoi romanzi, la seconda, quando lo beatificò e lo imbalsamò. Il pessimismo e il disordine cristiano dell’autore di Ragazzi di vita erano facilmente riconoscibili in quella stessa tradizione e perciò altrettanto facilmente riconducibili all'ordine mediante l’ostracismo o l’appropriazione.
Ragazzi di vita uscì nel 1955, quarantanni fa. Se oggi si scorrono le cronache di quella discussione tra pochi addetti ai lavori, in seguito dilatata fino ai margini del possibile, si conclude che il «dibattito» non fu poi gran cosa: ma fu spesso cattivo, pettegolo e in fin dei conti misero.
Naturalmente ci scappò il processo. Il crimine: pubblicazione oscena. Pasolini dovette raccomandarsi agli amici e agli accademici per ottenere quell’assoluzione che i giudici sentenziarono dopo che si erano mossi Gianfranco Contini, Giuseppe Ungaretti, Giuseppe De Robertis, Alfredo Schiaffini, Carlo Bo e altri. Nell’Italia ancor fresca del voto generosamente accordato alla Dc, nell’Italia che procedeva lungo la via dell’espansione economica, più dei valori letterari contavano i valori religiosi. Su questi valori, nel momento delle testimonianze, puntarono le loro carte anche i letterati a difesa.

Riccetto e i suoi compagni
Sotto accusa era la storia narrata (il ragazzo Riccetto e i suoi compagni nella cupa allegria di una Roma sottoproletaria), il linguaggio osceno e la lingua, cioè quel romanesco di laboratorio che Pasolini aveva inventato per i suoi ragazzi. Convenne ai testimoni dire anzitutto che l’opera era ispirata a «valori religiosi» e poi (Ungaretti) che al romanziere spetta il libero compito di «rappresentare la realtà com’è». D’altra parte, scrisse Bo, il romanzo, non soloo «ha un grande valore religioso perché spinge alla pietà verso i poveri e i diseredati», ma non è osceno perché «i dialoghi sono dialoghi di ragazzi che non si esprimono bene; e l’autore ha sentito la necessità di rappresentarli così come in realtà». I giudici emisero una sentenza di assoluzione, nella quale si poteva leggere persino qualche apprezzamento letterario del libro di Pasolini.
Ragazzi di vita portava nelle sue pagine il fardello del morente neorealismo. Fu quindi letto da parte dei responsabili della «politica culturale» del partito comunista come una trasgressione. A quel tempo, era molto forte la presenza di uomini come Mario Alicata, come Carlo Salinari, che sostenevano il passaggio dal neorealismo al realismo nel cinema, nelle arti e nelle lettere, il libro di Pasolini non piacque a quegli uomini: che non vedevano di buon occhio, perché non «nazionale», non unitario l’uso del dialetto; per di più, Pasolini lo aveva ricostruito in laboratorio. Essi non parlarono di valori religiosi come faranno i testimoni al processo, ma di valori morali. Mentre il realismo veniva invitato a occuparsi anche di borghesi e non solo di operai e di lavoratori, quegli uomini videro come una deviazione l’interesse di Pasolini per il sottoproletariato. Da questa prospettiva, fu facile persino a studiosi di grande finezza intellettuale come Carlo Salinari attribuire e rimproverare a Pasolini un «contenuto reale» del suo romanzo: «Il gusto morboso dello sporco, dell’abietto, dello scomposto e del torbido». La citazione si trova a pagina 430 del saggio Pasolini, Requiem, l’autore, Barth David Schwartz, l’ha enucleata dallo scritto di Carlo Salinari apparso su “Il contemporaneo” del 9 luglio 1955. (Il libro di Schwartz è appena uscito da Marsilio).
Più cauto, più attento, Gaetano Trombatore, su “l'Unità”, cercava di scandagliare la struttura di Ragazzi di vita posando lo sguardo sui due livelli stilistici, il parlato e il dialetto-gergo: «Il parlato è tutto dialetto e gergo. Nel narrato domina invece una lingua tutta letterariamente acchitata, nella cui trama però si inseriscono clausole e locuzioni dialettali e gergali e altre preziosità. Il parlato è tutto dei personaggi, il narrato è dello scrittore».
Pasolini rispose a Salinari e a Trombatore con un articolo su “Officina”, accusandoli di «crudezza» e di «durezza ideologico-teorica», viziata da quello che Lukàcs chiamava «prospettivismo».
La discussione non oltrepassò le mura di circoli ristretti: fu un discorso elitario, politico e poco letterario, costretto nei limiti della «politica culturale».

Processo allo scandalo
Dopo il processo intentato dalla Procura della Repubblica di Milano contro Pasolini e il suo editore, Garzanti, i giornali e la pubblica opinione si impossessarono del processo, della sentenza e della personalità «scandalosa» dell’autore di Ragazzi di vita, fu il momento del successo e dell’aumento delle vendite di un libro che la denuncia aveva fatto sparire dalle librerie.
Di che cosa parlò il cittadino cosiddetto medio dopo la lettura? Parlò del dialetto-gergo e delle «oscenità». Disse che quella lingua non era parlata da nessuno in Italia e che altro non era che turpiloquio. L’Italia badava al boom, non aveva tempo da perdere.


“l'Unità”, 20 ottobre 1995

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