15.10.17

Bibite anni 60, l'inconfondibile made in Italy (Flaviano De Luca)

Acqua e zucchero più aromi naturali e niente alcol.
La regina è la gassosa, 
seguono tutte le altre, 
fino alle spume e al chinotto.
La famosa Frizzan-Tina
Kamata Ramune, un mantra orientale, uno schiocco di labbra umide nel più roseo dei sogni. Pranzi pantagruelici o avventure galanti, discese spericolate e dialoghi smaglianti, però quel tipico odore, quella curiosa sensazione, quel fantastico sapore restano inafferrabili e lontani. Probabilmente confinati in quella neverland del passato, periodo dell’innocenza di accostare per la prima volta le labbra a quel collo di bottiglia di vetro, con la scritta stampata in sovrimpressione sulla bottiglia, gassosa, ossia dizionario aiutaci, la «bevanda analcolica preparata con acqua, zucchero e anidride carbonica, aromatizzata con essenza di limone». Fatta in casa o più generalmente dal cantiniere, dal distributore di bibite, dall’acquaiuolo, in quell’epoca con tanti produttori locali di bibite gassate.
Un prodotto modesto, rigidamente made in Italy, dove quasi ogni provincia aveva il suo marchio inconfondibile, Appia a Roma, Arnone a Napoli, Di Iorio a Isernia, Verga a Como, Paoletti nelle Marche. Quell’acqua e zucchero con aromi naturali buona per tutti, per i bambini e per le donne, istantaneo refrigerio nell’arsura dell’estate bollente, niente alcol e niente stranezze in quell’alba dei sixties, bibita inventata a partire da pochi ingredienti disponibili ovunque, bianco e agognato elisir. Un segnale tipico della bella stagione, come l’odore e il colore delle campanule viola, pianta infestante che allietava le tante discese agli stabilimenti balneari dove jukebox e biliardini avevano un posto di riguardo insieme al contenitore dei gelati, una grossa ghiacciaia rettangolare coi buchi rotondi da dove si pescavano i vari gusti con lunghe spatole già plastificate. La gassosa (o gazzosa) era l’autentica regina di quell’epoca eroica di boom economico, epoca povera ma bella, la schiuma con le bollicine e il gusto diretto e dolciastro, la bibita che gli adulti spesso usavano per allungare la birra o il vino, il soft drink per eccellenza, quello che addolcisce talvolta i pasti e certamente i ricordi adolescenziali di numerose generazioni.
Kamata Ramune è il nome occidentalizzato (perché, in originale, si scrive con gli ideogrammi nipponici) di una gassosa industriale giapponese che richiama quelle di una volta. Su Youtube un filmato semiamatoriale ce la mostra in tutto il suo splendore di bollicine che sgasano e travalicano fuori, a velocità da schizzo. Un involucro di vetro inevitabilmente nostalgico perché ricorda la bottiglia con la pallina, quella ideata oltre cento anni fa da Hiram Codd, l’inventore che varò il primo esemplare, in Inghilterra nel 1872, per chiudere ermeticamente le bibite usando la pressione della gasatura, dell’anidride carbonica. Da noi qualcuno gli diede anche il soprannome «ul sciampagn de la baleta» (lo champagne della pallina) nell’epoca dove la bibita bianca e fredda, a base di acqua dolcificata e aromatizzata, gassata con anidride carbonica, si diffuse un po’ dappertutto. La bottiglia con la pallina di vetro dentro era riempita con una particolare macchina dove veniva posta con l'apertura rivolta verso il basso, il prodotto si iniettava a pressione e una volta piena, la pallina di vetro in essa contenuta per effetto della gravità cadeva verso il basso finendo a contatto con la guarnizione collocata nella bocca della bottiglia. Rimettendo la bottiglia in posizione normale, la pallina rimaneva schiacciata verso l'alto dalla stessa pressione del gas contenuto nella gassosa, sarebbe quindi bastata una leggera pressione su di essa, come molti usavano fare, per aprire la bottiglia. Le due rientranze ricavate nel collo della bottiglia servivano a bloccare la pallina nel caso in cui il prodotto veniva consumato senza l'ausilio di un bicchiere, evitando che la stessa andasse ad ostruire la fuoriuscita del liquido contenuto, inoltre la bottiglia era schiacciata al centro, evitando in tal modo alla pallina bruschi movimenti. Kamata Ramune potrebbe essere la traduzione di Bibite Sacco o Gassosa Gallo, quelle bevande d’infanzia da consumarsi rigidamente con la cannuccia, sapore dolciastro con una reminescenza di limone che avrebbe aperto la strada poi alla Sprite, alla 7Up, alla Schweppes il tentativo di industrializzare quella passione per la bibita facile all'aroma di limone.
Bottiglia della Partannina, gazzosa di Palermo. Particolare
C'è stato un breve periodo di dittatura della gassosa, consumata dappertutto, la più dissetante in circolazione nonostante la contemporanea diffusione di chinotto e spuma, le due superbe rivali, tutte però rigidamente autoctone e local (ognuna aveva il suo ambito di diffusione, perlopiù provinciale o metropolitano). E via di seguito tutte le altre, aranciata, limonata, cedrata, orzata, menta, tamarindo, ginger e le più ricercate moscatella (un'altra «crema di spuma»), brasilena (gazzosa al caffè) e rabarbaro analcolico. Aranciate, limonate, gassose, gelatiiiii, gridava il ragazzino nerboruto portandosi appresso una cassetta di legno con le bibite, sulle gradinate dello stadio San Paolo di Napoli. ‘O borghetti,'o borghetti, accattateve ‘o cafè, era il grido successivo. Ci sono aziende storiche che hanno puntato sul prodotto di qualità con l'uso di ingredienti selezionati e altre che sono state travolte dalla grande distribuzione e dalla produzione di massa.
Poco dopo l'avvento del tappo a corona portò con sé la nascita di partite e campionati di tappini (che vennero presto intesi come evoluzione dei dischetti di metallo con le foto di calciatori e ciclisti, che già si collezionavano). Generalmente c'era un pallone e delle squadre che si combattevano, su un campo da gioco disegnato con le linee laterali e le porte. Naturalmente si poteva usare qualunque dito per «calciare» il tappino e «centrare» la casa degli avversari. Col tempo anche i formati delle bottiglie si imbizzarrivano, sulla falsariga della Coca Cola, maestra nella promozione pubblicitaria attraverso vassoi, bicchieri, cavatappi, asciugamani e molto altro, con la sua bottiglia tutta stilizzata e panciuta. In Francia l'orangina, un'aranciata né troppo dolce né troppo gassata, si è segnalata per la piccola bottiglia rotonda zigrinata e chi ricorda le foglie di carciofo in rilievo sul vetro della bibita Cynar, peraltro presto imitata da Carciò, altra soffice bevanda dall'ortaggio con le spine, bottiglia anch'essa con le foglie ma color viola e di plastica, molto da falsari. Una «bella alcalchofa» era apostrofata Natalia Estrada, soubrette spagnola che ha fatto la pubblicità del famoso liquore in tv dopo Ernesto Calindri e prima di Elio e le Storie Tese. Il Cynar fa il paio col Rosso Antico Buton e il Punt e Mes, altri liquori prettamente d'aperitivo estivo, lisci o col ghiaccio.
E veniamo alla spuma, l'equivalente italiano della soda (che invece è una bevanda alcolica gassata, nella cultura anglosassone), una qualunque bevanda con acqua, zucchero, aromi, anidride carbonica. Dovrebbe essere nata e consumata soprattutto nel nord Italia ma anche nel Centro, in particolare in Toscana, a cavallo tra l'800 e il '900 (probabilmente nei primi anni '20, e nel 1925 già vinceva a Bruxelles un concorso internazionale). In quel periodo molti paesi e città d'Italia avevano il proprio produttore locale di bibite gassate. Ognuno di questi piccoli bibitai artigianali, detti anche gazzosari, preparava e personalizzava con i propri ingredienti queste bevande, tanto da creare una varietà di marche e di gusti decisamente ampia grazie alla loro semplicità di preparazione. È per questo che è difficile attribuire il merito dell'invenzione della spuma ad una sola persona. Sappiamo che in Italia l'antenata della spuma è stata la celebre gassosa, che risale addirittura al 1888, prima che la Coca Cola arrivasse dall'America sul mercato italiano. Sappiamo inoltre che esistono spume all'arancia, al cedro, al bitter, alla menta e anche spume bianche (molto simili alla gassosa), scure o bionde. Le più conosciute sono senza dubbio queste ultime due varietà, per la preparazione delle quali ogni produttore ha una propria ricetta che differisce leggermente l'una dall'altra.
Etichette di un passito soda, la variante siciliana della spuma
La spuma nera (conosciuta soprattutto nel nord-est) è ufficialmente prodotta per la prima volta nel 1938 da Antonio Verga, fondatore della Spumador, forse per carenza di materie prime per il chinotto. Dall'infusione di 17 aromi tutt'oggi segreti creò la ricetta di uno dei tipi di spuma più celebri. La Spumador fu inventata dalla famiglia Verga che ebbe fortuna e negli anni sessanta si allargò al settore delle acque minerali prima di vendere tutto a un gruppo americano. La spuma bionda invece ha delle origini meno note e più remote, che risalgono probabilmente alla fine dell'800 ma che altri attribuiscono all'inizio del '900, si dice a causa di un innalzamento del prezzo del cedro. La sua origine è fatta risalire anche all'esperimento di qualche oste, che miscelava alla gassosa il prodotto dell'infusione dell'uva sultanina (moscato, per l'esattezza) con altri aromi e il caramello. Anche la ricetta della spuma bionda è molto misteriosa, ma anche qui forse sarebbe più opportuno parlare di ricette, al plurale. Questo tipo di spuma è forse il più conosciuto e diffuso. Sappiamo in generale che la diffusione di questa bibita dissetante era molto ampia grazie al suo prezzo contenuto rispetto alle concorrenti di marche internazionali, e alla sua facile reperibilità. Si trovava facilmente al bar, dal droghiere, in qualche vecchia trattoria e negli oratori. Veniva consumata da anziani, adulti e ragazzi sia da sola che miscelata, per trovare sollievo alla calura estiva, per una pausa durante il lavoro, con pasti o panini («Un pezzo di salato e una spuma bionda!» era la richiesta classica) e come accompagnamento durante una serata tra amici. La spuma abbinata al vino era il mix più popolare. Negli anni'50-'60 si chiedeva il sù e giò per avere un bicchiere di spuma nera e vino rosso. In Toscana si chiedeva il «mezzo e mezzo» per farsi allungare il vino con la spuma. La bionda veniva a volte mischiata con la birra per ottenere un cocktail gustoso e dissetante, più o meno come succedeva con la gassosa. Tutt'oggi frequente utilizzare il termine spuma per indicare una qualsiasi bibita analcolica soft drink composta da acqua gassata, zucchero, coloranti (caramello) e aromi naturali (vaniglia, succo di limone, spezie, infuso di scorze di arancia, rabarbaro, ecc...). Questa bibita così amata in alcune zone d'Italia e sconosciuta in altre non ha più la fama di un tempo e non viene più impiegata nella preparazione di cocktail e aperitivi, ma sta vivendo una sorta di rinascita grazie al suo prezzo contenuto e alla sua semplicità. Sono state create nuove giovani produzioni e altre più storiche si sono affermate, affiancando alla produzione della spuma bionda o scura delle spume con gusti e aromi più particolari.
L'altro grande scuro rivale è il chinotto, troppo spesso inteso come una versione povera della Coca Cola ma che ha invece una sua forte identità e una propria evoluzione, tanto da essere vista come una scelta da intenditore contro l'omologazione del gusto dilagante. Osannato anche in un indimenticabile brano degli Skiantos, «Un chinotto ogni due ore/ fa passare il malumore/ Il chinotto è la mia droga/ io lo bevo senza posa/ quando sono un po' depresso/ mi riaggiusta con me stesso/ Un chinotto ogni due ore/ è un gran viaggio da signore». Il documento più antico colloca la data di nascita del chinotto nel 1932 ad opera della San Pellegrino. Tuttavia altre fonti sembrerebbero avallare la tesi di chinotti nati ben prima di questa data. Comunque nel 1949 Pietro Neri iniziò a produrre e commercializzare chinotto in una maniera assolutamente innovativa. Il chinotto Neri ebbe, nell'immediato dopoguerra, e per tutti gli anni '50 e '60 una larghissima diffusione in tutta la penisola. Il signor Pietro Neri riuscì a costruire un'autentica fortuna con l'agrume preferito, il Chinotto. Ebbe anche un'intuizione moderna, legare il suo prodotto a una squadra di calcio che giocava al Velodromo Appio, nella capitale. Maglia giallo-verde-nera, gli stessi colori dell'etichetta della bibita, formazione che arrivò fino alla serie C negli anni Cinquanta allevando alcune generazioni di giocatori romani di talento. Il suo numero fortunato era l'otto e lo slogan arrivò facile e veloce, «Non è Chinotto se non c'è l'Otto» seguito dall'ultranoto «Se bevi Neri, Ne Ribevi» a metà tra lo scioglilingua e il finto palindromo, piazzato in una delle prime forme promozionali sulle autovetture. Neri divenne milionario e cavaliere ma poi abbandonò la squadra che cambiò nome e divenne Tevere Roma. In molti ritengono che l'epoca «moderna» del chinotto, quella degli «slogan» e della «réclame» inizia con il signor Neri. Da non dimenticare però che documenti non ufficiali ci danno presenza di una bibita chiamata chinotto già dal 1931 e vassoi e posacenere recanti la scritta chinotto, purtroppo non facilmente databili, riporterebbero, come stile, questa data ancora più anteriormente.
Importato probabilmente dalla Cina, il suo nome scientifico è Citrus Myrtifolia. Si tratta di un alberello alto un metro e mezzo circa con pochi rami che però sono carichi di foglie piccole di colore verde scuro di dimensioni simili a quelle del mirto, da qui il nome in latino. I fiori sono abbondanti e profumatissimi, i frutti sono a grappolo, di una coloritura arancio intenso. Non aspettatevi frutti di pezzature simili all'arancio, pesano non più di 50/60 grammi l'uno e non sono grandi ma delle dimensioni di una pallina giocattolo. Abbastanza poco commestibile, la buccia è aderente alla polpa e al morso si prova un gusto amaro-acido. In Italia questo splendido agrume lo si può trovare in riviera ligure (più precisamente nel savonese) e in Calabria e in Sicilia (nella zona di Taormina).
In questo profluvio di bibite di nuova generazione come Red Bull, Enervit, Gatorade anche la semplicemente immaginata Kamata Ramune ci riporta indietro nel tempo, in quel caleidoscopio di sapori introvabili. Quella delle gassose su base locale è stata una decimazione determinata dall'industrializzazione della produzione e dalla modernizzazione della logistica distributiva. Una specie di mini-globalizzazione interrotta, in cui la diffusione poco più che regionale di alcuni marchi resta a testimonianza di uno scenario antico ben distante dalle logiche commerciali di Sprite e Seven-Up.
Oggi consumare una gassosa, aldilà dei gusti e delle inevitabili passioni, appare spesso quasi un atto nostalgico, sicuramente fuori moda, mentre alcuni gassosari rilanciano i propri prodotti con una immagine retrò in senso accattivante. Il mondo di FrizzanTina, allora giovanissima ed irriconoscibile sulle prime etichette delle Bibite Paoletti, oggi adulta testimonial della stessa azienda. Uno stile decisamente «vivace» caratterizzata da disegni che ricordano le pose di un diva d'altri tempi, grazie soprattutto alla sua sensualità innata e spontanea. FrizzanTina è una splendida pin-up, sorridente, ammiccante, amabile grazie alla sua bellezza e al suo sguardo sereno e armonioso. Non solo gassose, ma anche cedrate, chinotti e aperitivi sulle cui etichette ammiccano immagini seppellite almeno da decenni, un mondo più frizzantino e sensato dove il carattere di quelle bibite era davvero intramontabile, al passo coi tempi e fieramente glocal.

alias, il manifesto, 15 agosto 2015

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