11.10.17

L'esecuzione mafiosa di Vito Montaperto nel racconto di Luigi Giglia (Andrea Camilleri)

I vigili urbani mi assicurano che nel Comune di Campobello di Licata esiste una via Vito Montaperto o, forse, via Sindaco Montaperto e mi hanno indicato la zona dove dovrebbe trovarsi, il passo di Ravanusa. Non ne ho invece reperito alcuna traccia nella mappa di Google e nel Web: strada un po' fuori mano, dunque, e poco abitata. Il nome di quel giovane avvocato, che fu sindaco del mio paese dal 1949 al 1953, quando venne ucciso in un agguato dalle parti di Palma Montechiaro, su uno stradale che portava ad Agrigento, non lo trovo peraltro nel lungo elenco di vittime innocenti delle “mafie” italiane che Libera propone al ricordo nelle sue giornate della memoria, ogni 21 marzo.
Non mi meraviglio troppo. Montaperto fu ammazzato nel tempo in cui la stampa, le autorità politiche e perfino quelle religiose (il cardinale Ruffini, per esempio) arrivavano a negare l'esistenza stessa della “mafia” come struttura organizzata e capillare e in cui, negli atti degli investigatori o in quelli processuali, assai raramente si parla di delitti di mafia, perfino in casi in cui la matrice era evidente, come quelli dei sindacalisti prima minacciati e poi uccisi perché colpevoli di disturbare il potere semifeudale ancora vigente. Molti omicidi di mafia venivano affibbiati a una generica delinquenza o mascherati da delitti passionali o considerati frutto di occasionali risse o altri futili motivi. Nel caso di Montaperto la cosa è complicata dai legami familiari: era di famiglia mafiosa, figlio di un “uomo d'onore” assai ascoltato, Nino Montaperto, che molti consideravano il capo della onorata società locale e la cui immagine compare in molti dei misteri del paese. Quando “lu 'zzi Ninu”, qualche anno più tardi, fu ucciso anche lui, “per futili motivi”, nella sua tomba fu trovata la salma rapita di un ricco possidente locale, a sua volta caduto in un agguato mafioso, salma invano cercata dalle forze di polizia nei suoi rastrellamenti con grande spiegamento di uomini e cani.
Gli studiosi della materia, tuttavia, da Michele Pantaleone in poi, collegano l'uccisione di Vito Montaperto al suo ruolo di segretario provinciale della Democrazia Cristiana e al suo essere l'astro nascente del partito in provincia ed ipotizzano che egli volesse spezzare i legami tra politica e mafia e che sia stata questa “colpa” a determinare la scelta di sopprimerlo. In verità, a mia memoria, mai in pubblico, nei dibattiti o nei comizi, si associava quel delitto alla mafia, e perfino l'onorevole Luigi Giglia, suo amico personale e di partito nonché testimone del delitto, preferiva parlare, genericamente, di “mano omicida”.
Ho deciso di postare qui una testimonianza di Andrea Camilleri, lo scrittore della saga del commissario Montalbano, che la inserisce in un suo scritto su Storie di mafia e Dc a uso degli smemorati originariamente pubblicato su “Micromega” nel 1999, come “fatto personale”. Il racconto di Giglia, che Camilleri riferisce, toglie ogni dubbio sulla natura di “esecuzione mafiosa” di quel fatto di sangue. (S.L.L.)
La piazza Aldo Moro (già Costanzo Ciano) a Campobello di Licata (Ag)
Dietro la vasca, di Silvio Benedetto, la via Dante ove abitò Vito Montaperto
Al Convitto vescovile di Agrigento conobbi i miei coetanei Vito Montaperto e Luigi Giglia, del quale divenni amico. Con Montaperto ebbi invece rapporti diffìcili, ci detestavamo. Un giorno ci trovammo soli, faccia a faccia, in camerata, e ci pigliammo a pugni. Fu una lotta disperata e feroce. Ebbi fortunatamente la meglio, con un pugno gli feci perdere i sensi. Atterrito, lo sollevai e lo misi su un letto. In quel momento entrò un precettore. Volle sapere cos’era accaduto. Io dissi che avevo trovato Vito per terra e l’avevo messo più comodo. Il precettore fece riprendere i sensi a Vito e gli domandò cosa fosse successo. E lui, guardandomi, disse: «Mi sono sentito male». Non ci parlammo più. Conservo una foto che ci ritrae assieme. Poi, nel 1950, c’incontrammo casualmente ad Agrigento, per strada. Capitò allora una cosa stranissima: Vito e io ci guardammo negli occhi e ci abbracciammo. Poi Luigi Giglia divenne deputato e sottosegretario ai Lavori pubblici. Ogni tanto ci vedevamo a Roma. Nell’agosto dell’anno nel quale Vito venne ammazzato c’incontrammo ancora una volta casualmente ad Agrigento. Fummo contenti di vederci, Vito mi disse che si sarebbe presto sposato. Venne assassinato pochi giorni dopo. Qualche mese appresso, Luigi Giglia mi telefonò a Roma e mi disse che voleva vedermi.
C’incontrammo e capii subito che desiderava parlarmi della morte di Vito.
«Era notte tarda, stavamo tornando in macchina da Cal-tanissetta ad Agrigento. Eravamo in quattro. Vito al volante e allato aveva il sindaco del tuo paese, Inclima. Dietro c'ero io con Tano Di Leo. A un tratto vedemmo che la strada era sbarrata da un tronco d’albero. Capimmo subito che si trattava di un agguato. Tano Di Leo disse a Vito di lasciare accesi gli abbaglianti, scese dalla macchina e si piazzò sotto la luce dei fari per farsi riconoscere. Quindi disse, rivolto al buio della collina: “Picciotti, errore c’è. Sono Tano Di Leo”. E nel buio si sentì una voce: “Ninni stamu futtennu (Ce ne stiamo fottendo). Comparvero quattro armati di mitra, infaccialati. Uno ci ordinò di stenderci a faccia in giù lungo il bordo della strada. Capii che si trattava di qualcosa di più serio di una rapina. E, per lo scanto, mi torno a memoria tutt’intero l’Atto di dolore che non recitavo più dai tempi del Convitto. Poi una voce disse: “Chi è Vito Montaperto?”. Vito rispose: “Io”. Gli dissero di alzarsi e mentre s'alzava lo falciarono. Quindi ci ordinarono di restare a faccia a terra per un pezzo e poi spostare il tronco e andarcene. E questo è quanto».

Ora in Andrea Camilleri, Come la penso, Chiarelettere, 2013

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