13.10.17

Mandeville. Il benessere nasce dai vizi (Alfonso M. Iacono)

«Vizi privati, pubblici benefici». Questa frase, che è quasi divenuta un proverbio dell’epoca moderna, appartiene al dottor Bernardo di Mandeville, il medico olandese, trapiantato a Londra, che, tra il 1705 e il 1729, compose la ben nota Favola delle api, ovvero vizi privati, pubblici benefici. Così infatti suona il titolo della sua opera sin dalla seconda edizione del 1714. Esce ora in traduzione, per la cura di Tito Magri, l'insieme dei testi che costituiscono la prima parte dell’opera e che Mandeville scrisse tra il 1705 e il 1724 (La favola delle api, Laterza,1987).
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La Favola delle api è un’opera straordinaria anche per la spregiudicatezza intellettuale che la contraddistingue. Nell’alveare che Mandeville descrive, vige la prosperità economica e sociale in un mondo in cui ci sono commercianti disonesti, avvocati truffaldini, medici arroganti e vanitosi, una giustizia ingiusta con i poveri e gli affamati e ruffiana con i ricchi, un esercito che maltratta i suoi soldati, una chiesa di classe. «Ma chi potrebbe svelare tutte le loro frodi? — si domanda Mandeville — Perfino la roba venduta per la strada come concime per la terra, si scopriva spesso che era mescolata con un quarto di pietre e di ghiaia inutilizzabili; sebbene i critici non avessero motivo di lamentarsi visto che vendevano sale al posto di burro». Così «ogni parte era piena di vizio», eppure, osserva Mandeville, «il tutto era un paradiso».
Come spiegare questo apparente paradosso? L’alveare descritto nel XVIII secolo si può ancora oggi leggere tutti i giorni su tutti i giornali e vedere tutte le ore in tutti i luoghi. Come mai da parti viziose risulta un tutto paradisiaco?
Una chiave di spiegazione si trova in un altro passo dell’Alveare scontento, il fulcro dell'opera, poi chiarito a lungo nella nota (P). Dice Mandeville: «Cosi il vizio nutriva l’ingegnosità, che insieme con il tempo e con l’industria aveva portato le comodità della vita, i suoi reali piaceri, agi e conforti, ad una tale altezza, che i più poveri vivevano meglio di come vivessero prima i ricchi; e nulla si sarebbe potuto aggiungere». Nella società borghese il più povero vive meglio del più ricco di una società precedente.
Questa osservazione, che sarà ripresa di peso da Adam Smith (e di ciò Marx si era accorto), ci costringe a porci un’altra domanda: in che senso il più povero vive meglio?
Da quale punto di vista? Dal punto punto di vista della disponibilità reale delle cose prodotte, cioè della produzione delle merci. Questo punto, in apparenza così ovvio, è in realtà il centro della radicale caratterizzazione della società borghese rispetto ad altre società. E l’elemento caratteristico è determinato dal fatto che, come ha notato Louis Dumont (Homo aequalis, Adelphi, 1984), Mandeville stabilisce il primato del rapporto dell’uomo con i beni materiali rispetto al rapporto tra gli uomini, se non in linea di principio, almeno nell’analisi della della vita reale della società moderna.
Da qui alcune conseguenze importanti: l’economia si autonomizza dalla morale nella stessa misura in cui l'analisi della condotta umana e sociale si separa dai modelli di comportamento fondati sul dover essere. Inoltre emerge l’idea secondo cui i risultati sociali non sono il prodotto conseguente delle intenzioni degli individui. Come fa vedere, nella lucida e problematica introduzione, Tito Magri, il rapporto e la differenza sono tra una società piccola e poco prosperosa dove è possibile che i risultati sociali siano corrispondenti alle intenzioni degli individui, e una società grande e potente dove invece ciò non può più realizzarsi.
Mandeville, anticipando anche su questo punto Adam Smith, mette in evidenza come i prodotti di cui godiamo siano il frutto di una divisione e di una organizzazione del lavoro assai complesse, non immediatamente visibili nella merce. Ciononostante, la merce, (il prodotto, la cosa) racchiude il tutto di quelle parti che hanno cooperato per la sua realizzazione.
«Vizi privati, pubblici benefici». Da parti viziose, un tutto che è un paradiso. Dietro l’apparente apologia di un sistema sociale che vuole svincolarsi dai residui del passato e che dichiara la sua rottura, c’è una messa a nudo delle dinamiche dei rapporti e degli effettivi comportamenti economici, che non sfuggì a Marx. Rapporti e comportamenti che segnano il punto a partire dal quale non si torna indietro anche in vista di una critica della società borghese. L’economista von Hayek, sensibile alla teoria dei sistemi, ha colto in Mandeville, come in Adam Smith e nella sua teoria della «mano invisibile», un perno della realtà sociale per cui il benessere collettivo può realizzarsi come un effetto che non dipende dalle azioni individuali.
In questo si trovano frammisti elementi di un liberalismo ottimistico, insieme con la
consapevolezza di una complessità sociale non riducibile a immagini troppo semplificate, e spesso argomentate retoricamente con buoni propositi e belle virtù, di una società fondata sul «dover essere» e sul «buon comportamento».
Il nodo gordiano da sciogliere sta ancora nella verità detta da Mandeville : dal punto di vista dei beni materiali il più povero presso di noi sta meglio del più ricco nelle società «altre». Se molto è cambiato negli ultimi due secoli, se, naturalmente, questa affermazione può essere modificata da molti angoli visuali, rimane il fatto di quel punto di vista. Se si accetta come assoluto e oggi indiscutibile il primato del rapporto degli uomini con i beni rispetto ai rapporti fra gli uomini, se non si tiene conto di quel che questo primato ha prodotto e produce nel sistema-mondo, allora vale ancora la pena di ricordare quest'altra constatazione di Mandeville: «Una delle ragioni principali per cui così poche persone comprendono se stesse è che la maggior parte degli scrittori insegnano agli uomini sempre quello che dovrebbero essere, e quasi mai turbano le loro teste dicendo quello che sono realmente».


il manifesto/giovedi 17 dicembre 1987

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