7.11.17

Da e per Sanguineti. Un epistolario e un convegno (Massimiliano Borelli)

Quella tra Edoardo Sanguineti e Fausto Curi è stata una delle amicizie letterarie più salde e formidabili del Novecento italiano. Un’intesa pressoché integrale, una consonanza virtuosa di idee e pratiche. Come in una foto di qualche anno fa che ritraeva Walter Pedullà chino di fianco a Elio Pagliarani (un’altra coppia eccezionale), mentre con una candela illuminava la pagina da cui il poeta leggeva, il senso critico e la capacità teorica di Curi hanno saputo rilevare al meglio le pieghe dell’opera di Sanguineti, così come le pagine di Sanguineti hanno stimolato e indotto al pari di poche altre le risolutive conclusioni di Curi.
Ora quella amicizia – tanto evidente nelle scritture dell’uno e dell’altro – ci viene squadernata almeno in parte, grazie alla pubblicazione delle lettere inviate dal poeta al «compagno» critico, lungo un arco di tempo che va dall’ottobre 1964 al maggio 2010, ovvero dal primo anniversario della fondazione del Gruppo 63 ai giorni immediatamente precedenti la morte del poeta.
Certo, ci sono tanti buchi, tra le missive, le cartoline, i biglietti raccolti e commentati da Fausto Curi, dovuti soprattutto a periodi di maggiore frequentazione e quindi alla minore necessità di aggiornarsi reciprocamente per carta; ma anche questi lampi, più e meno ravvicinati nei mesi e negli anni, ci permettono di intravedere con suggestiva concretezza il farsi del lavoro poetico e il costruirsi delle posizioni ideologiche, insieme a tutte le fatiche di una sfaccettata attività letteraria perlopiù praticata tra molteplici e gravosi impegni universitari, politici, famigliari.
Così come era capitato in un precedente libro di Lettere dagli anni Cinquanta, destinate quella volta a Luciano Anceschi (riunite da Niva Lorenzini e pubblicate nel 2009 da De Ferrari), dove per esempio Sanguineti nel gennaio 1959 esponeva un po’ a sorpresa, almeno a quell’altezza, la necessità strategica di un lavoro collettivo sulle forme romanzesche (lavoro che avrebbe affrontato di lì a poco sia come autore che come critico), queste Lettere a un compagno marcano alcune delle tappe fondamentali del percorso svolto dal poeta, tappe di volta in volta segnalate pure dal sodale teorico. Per citarne alcune: nella prima lettera del ’64, e riguardo alla vicinanza con Enrico Baj (ma anche con il citato lavoro sul romanzo), «l’idea di “nuova figurazione” come meta presente del mio lavoro», «perché in fondo è vero, che per me, in questi ultimi anni, tutto il problema era lì»; nel gennaio 1982, l’implicito rovesciamento pubblico della dimensione privata della poesia che andava scrivendo in quei mesi («è un po’ come la famosa storia dell’“esaurimento nervoso” zanzottiano, e della mia correzione in “esaurimento storico”; e così, adesso, “disperazione biografica” o “disperazione storica”? naturalmente, alla lettera, tutto sta nel privato; ma, se non mi illudo è “figura” di una “condizione generale”»); nel giugno dello stesso anno, la parabola medievalemente tripartita della sua produzione: dal tragico degli anni Cinquanta-Sessanta all’elegiaco dei Settanta, sino al comico inaugurato negli Ottanta, quando ormai per lui il comico è divenuta «la sola possibile via di accesso al “tragico”», e la «forma presente di un “tragico” razionalizzato»; a fine luglio ’86, l’araldica «guerra al poetese» in cui fin da subito ha riconosciuto un doveroso «sabotaggio» della letteratura; nel febbraio 2010, la ribadita sua «vecchia e ostinata idea che alle radici di ogni “rivolta” (in largo senso) ci stanno sempre pulsioni anarchiche», insieme alla dimostrazione di fedeltà nel «realismo» come «questione radicale» centrale di ogni grande e decisiva espressione artistica.
Conferme e puntualizzazioni che accompagnano un dialogo rigoroso e ininterrotto tra i due amici; un dialogo che, il 27 gennaio 1991, si sofferma su una pagina quasi lirica in cui Sanguineti, tra commozione e spavento, ringrazia Curi del ruolo e del peso che gli ha attribuito nel libro forse più bello ed essenziale mai scritto dal critico: Struttura del risveglio (allora appena uscito e ripubblicato nel 2013 sempre da Mimesis). «Carissimo Fausto, mi è arrivato ieri il tuo libro, che ho così potuto leggere senza pausa, aiutato dalla quiete del sabato – e con quelle emozioni che puoi facilmente immaginare, particolarmente poi, alla fine del percorso, per quel paio di pagine conclusive, che ti e mi coinvolgono tanto». Erano pagine effettivamente splendide, in cui veniva esposta l’opportunità, offertagli dall’amico poeta, di scorgere la benjaminana «costellazione del risveglio» nella «possibilità di praticare la poesia» nella contemporaneità. E così diceva la chiusa: «Io preferisco chiederle quello che essa mi offre, una molto pratica e praticabile conoscenza per “battute argute e brevi” e per “parole memorabili” di me e degli altri e del mondo in cui ci tocca vivere. E non sono più solo e inerme, ora, nella mia preistoria». Un riconoscimento che Sanguineti ricambia appieno nella lettera, «perché sei, come si diceva una volta almeno, un compagno, nel significato quasi disperato, e più forte per questa stessa disperazione, che la parola può avere dopo Brecht, e oggi in particolare».
Ma la rilettura critica di Sanguineti può continuare, in questi mesi, anche con un altro libro uscito sempre da Mimesis per le cure di Luigi Weber: il Ritratto in pubblico che raccoglie gli atti del convegno internazionale tenutosi a Bologna nel giugno 2015. Dopo l’intervento inaugurale proprio di Curi, che indaga la «messa in scena dei sogni» e l’innaturalità del linguaggio onirico ostentata dal poeta nella scrittura teatrale, si susseguono le relazioni di altri dieci studiosi, tutte concentrate sulla dimensione performativa, teatrale e cinematografica (o più in generale «pubblica») della produzione sanguinetiana. Riscopriamo allora: la prolungata fascinazione del «niente» (Lorenzini); i palinsesti cinematografici dei versi (Annovi); la visione labirintica delle città «citate» nelle Postkarten (Risso); l’illuministica e concreta pulsione ai cataloghi e agli alfabeti (Bello Minciacchi); la «tentazione del dialogo» leopardiano manifestata nei Taccuini recuperati da Weber; il rapporto con la figura di Don Chisciotte (Vazzoler); la preferenza «estraniante» nelle traduzioni saggiata sul Re Lear (O’Ceallacháin); la vicinanza alle idee e alle pratiche teatrali di Ronconi (Longhi); il senso della smisurata opera multimediale Ritratto del Novecento (Grosso); infine una lettura in versi di Ti attende il filo spinato… pronunciata dal dedicatario della poesia di Purgatorio de l’Inferno, il figlio Federico.
Un libro fitto di spunti, dunque, utile a investigare zone meno battute dell’opera grande e sempre da tenere a mente di un «aspirante materialista storico» oggi a rischio di rimozione.


Dal sito di “Alfabeta 2” - 2016

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