2.11.17

“Piango ancora per Federico”. Un'intervista a Rafael Alberti per i 90 anni (Carlos Elordi)

Rafael Alberti
"Lei sta parlando con un nonagenario: che parola orribile".
Gli occhi di Rafael Alberti sorridono, il poeta nei gesti e nei sentimenti conserva la vivacità di sempre. Ha appena compiuto novant'anni: è stato un evento per la Spagna. Lo hanno celebrato perfino quei quotidiani che durante il franchismo negavano praticamente la sua esistenza, trattandolo come un proscritto, cancellando la sua voce, proveniente dall'esilio. Alberti ha accettato tutti gli omaggi, anche il tardivo riconoscimento - che ora è di tutti - per la sua feconda opera: "Dimenticare è l'unico modo di costruire il futuro. E poi tutto in questa Spagna è meno tormentato, meno feroce che nel passato".
È di ricordi che lui vuole parlare in questa serata al Puerto de Santa Maria, la cittadina che lo ha visto nascere, davanti alla straordinaria baia di Cadice.
E anzitutto di Federico Garca Lorca, il grande amico. "E' l' unica persona che veramente mi è mancata in questo compleanno: lo rimpiango ancora, come se lo avessero fucilato ieri". E racconta, come se svelasse un grande mistero, gli orrori della terribile vicenda: "È stato il generale Queipo de Llano, da Siviglia, colui che ha ordinato la sua morte: ' Dategli caffè, molto caffè', ha detto in codice, per telefono, ai suoi sbirri di Granada. Si sarebbe capito, benché l'idea non mi avrebbe fatto felice, che fucilassero me. Ma, perché il povero Federico?". E recita, a bassa voce, ma con la bella cadenza andalusa di sempre, qualche verso del poema che allora ha scritto, commosso dalla terribile notizia: "Non hai avuto la tua morte, quella che a te toccava".
"Mi sento soprattutto un superstite", dice, di nuovo con il sorriso in bocca, mentre guarda la moglie Maria Asuncìon, la giovane donna che lui ha sposato tre anni fa e che lo cura con un amore commovente. "Sono il superstite di una generazione irripetibile, che in gran parte ha fatto una fine molto disgraziata". E ricorda con ammirazione e con dolore alcuni dei nomi più brillanti della cultura spagnola di questo secolo. Tanti di loro fucilati ancora giovani, altri morti in esilio. "Era una Spagna piena di futuro". Di Bunuel dice: "Era un tipo formidabile, per noi è sempre stato un uomo eccezionale". A Dalì invece dedica parole durissime: "Lui era un franchista" - e per Alberti quello continua ad essere il più grave insulto -. Ha fatto perfino un ritratto equestre di Franco. Io non glielo perdono, perché lui sapeva cosa era successo al suo amico intimo Federico".
Parla anche della guerra civile del 1936, di quella sua poesia militante che recitava ai combattenti, a pochi metri dal fronte. "Credevamo che quanto stavamo facendo fosse utile e necessario, ma dopo abbiamo capito che tutto era troppo terribile". Ricorda Togliatti, Luigi Longo, gli esponenti delle Brigate Internazionali venuti a combattere accanto agli spagnoli. "Sono venuti con un grande entusiasmo personale, disposti a fare molto". Il comunista Alberti non è disposto ad aggiornare il suo pensiero politico, perché per lui quella continua ad essere la scelta di una vita: e lo si capisce. Con quel manicheismo di allora dice di Ernest Hemingway, di cui è diventato un grande amico: "Era bravo, ci appoggiava. Ma lui era venuto in Spagna solo perché amava la corrida: e si è trovato in mezzo a tutto quel pasticcio".
Chiediamo allora a questo andaluso di pura razza che ha ancora l'accento di Cadice e che ogni sera ascolta per ore musica "flamenca" cosa pensa della "fiesta". "A me è piaciuta sempre molto", risponde. "Adesso non ne sono molto sicuro: non è un buon 'aficionado' chi si mette dalla parte del toro, un animale straordinario che sembra quasi un ragazzo sacrificato".
Trentasette anni di esilio - la metà di essi trascorsi a Buenos Aires, gli altri a Roma - passano veloci nei ricordi di quest'uomo cosmopolita che adesso solo vuole parlare della Spagna. E del suo ritorno. A Madrid, nell' omaggio resogli dagli intellettuali per il suo compleanno, il ministro della Cultura, l'ex-comunista Jordi Sole Tura, ha ricordato una immagine storica quella di Rafael Alberti e della Pasionaria che presiedono per qualche ora la prima sessione del Parlamento democratico nel 1977. Erano i due deputati più anziani in un Congresso formato da uomini e donne che non avevano conosciuto la guerra civile: "Mi sono reso conto allora che ci trovavamo in una Spagna con nuove possibilità", dice il poeta. Continua a scrivere ("ho diversi incarichi"), ogni due mesi pubblica su “El Pais” un nuovo capitolo della sua Alberata sperduta, un libro di ricordi. E dipinge ogni giorno per qualche ora.
"Ma soprattutto vivo: un po' errante fra Madrid e questo mio Puerto de Santa Maria, ritrovando qua e là i motivi della mia poesia. E credendo in quello in cui ho sempre creduto. Perché io non voglio che si possa dire che Alberti è morto non essendo più come era: benché sia caduto il muro di Berlino".


“la Repubblica”, 30 dicembre 1992  

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